Zebio CòtalÈ stato il mio conterraneo Vincenzo Pardini, che mi onora della sua amicizia, a consigliarmi la lettura di questo romanzo e di questo autore che non conoscevo.
Nato a Modena nel 1897, Guido Cavani fa il tipografo, poi entra a lavorare presso il Comune di Modena. Ama la letteratura e vi si dedica da autodidatta. Nel 1923 compare la sua prima raccolta di poesie: “Liriche campagnole”, a cui fanno seguito: “Lumi di sera” (1940); “Solitudini” (1950); “Misericordia del tempo” (1954); “Nei ritorni a me stesso” (1960); nel 1958 esce il romanzo che darà all’autore vasta notorietà, “Zebio Còtal”, ristampato da Feltrinelli nel 1961 con prefazione di Pier Paolo Pasolini, che portò lo sconosciuto autore all’attenzione del mondo letterario; nel 1967 (l’anno della sua morte) esce la raccolta di racconti “Racconti in penombra”. Collabora anche alle riviste “Paragone” e “La fiera letteraria”.
Scrive Pasolini nella sua prefazione: “abbiamo avuto una breve corrispondenza: la sua calligrafia era quella di un vecchio-bambino, malata e diligente.”
Non così il contenuto del suo romanzo: asciutto, scarno, solido. Pasolini lo accosta in qualche modo a Silvio D’Arzo, ma anche il toscano Federico Tozzi ha molte affinità con lui sia con riguardo all’ambientazione contadina della storia che allo stile.
Il figlio di Zebio, Zuello, è stato portato a vivere e a lavorare presso uno zio, Adrio Còtal, arricchitosi in America: “Zuello aveva lasciato la madre a piangere sulla soglia di casa, ed era partito a piedi, col padre, raggiungendo dopo due giorni di viaggio la nuova dimora.” Come non ricordare “Vita e morte del sindaco di Casterbridge” (1886) di Thomas Hardy, quando, all’avvio del romanzo, troviamo il protagonista Henchard che a piedi si sta trasferendo altrove con la moglie e la piccola bambina, tenuta in collo dalla madre. C’è già un filo lungo che collega attraverso Guido Cavani due civiltà contadine distanti l’una dall’altra molte migliaia di chilometri, ma in tutto simili.
Come Henchard, incontrata per strada una fiera paesana, vi si ferma a bighellonare, ciò che cambierà il suo destino, così avviene a Zuello, quando dallo zio è mandato al mercato a comperare un “sacco di zolfo.” La descrizione del mercato che ne fa Cavani rende viva la somiglianza: “I contadini contrattavano raggruppati intorno alle colonne dei portici, seduti ai tavoli dei bar; le donne entravano ed uscivano dai negozi, si affollavano intorno ai banchi dei merciaiuoli ambulanti; i ragazzi si rincorrevano, strillando come i rondoni che saettavano intorno alla torre dell’orologio.” Anche per Zuello quella circostanza e quella visione saranno determinanti nella sua vita.
Nelle descrizioni che troveremo, numerose e tutte di grande pregio, è rappresentato un antico reso al contempo con grazia, nitidezza e forza: “incontrò gente che ritornava dal mercato: donne in abito da festa, cariche dei generi acquistati; uomini con la giacca su le spalle, che ragionando fra loro e fumando, spingevano innanzi coi vincastri le bestie comperate o barattate.” Qui siamo in un cortile, in un momento di sosta dal lavoro: “le donne accovacciate vicino al muro della casa, tra fasci d’arnesi; gli uomini seduti sui carri, con le gambe penzoloni. Solo il vecchio stava in mezzo all’aia, contro il sole, a capo scoperto, scalzo, con le braccia abbandonate lungo i fianchi e i pugni chiusi che parevano due mazzuoli.” Descrizioni ancora vive, palpitanti, che restituiscono il fascino di un mondo svanito nel nulla. Qui siamo nel paesino di Serra, vicino a Pazzano, il luogo dove vive la famiglia Còtal: “Il postale, laccato in celeste, splendente di cristalli che specchiavano il cielo, arrivò rombando fra le case e si fermò. Era carico di gente che pareva gravata dal peso delle valigie e dei bauli ammonticchiati sull’imperiale. Smontarono due donne e un prete; furono gettati a terra sacchi della posta, scaricate alcune valigie, poi la bella macchina ripartì e scomparve in fondo alla strada.” Mancano i cavalli a condurre l’imperiale, altrimenti avremmo assistito ad una scena in tutto simile a quelle che si svolgevano nel fascinoso West ritratto da grandi registi, quali Howard Hawks, Henry Hathaway, John Sturges, Anthony Mann, Raoul Walsh, Fred Zinnemann, Sam Peckinpah, per fare solo qualche nome, ma specialmente dal grande John Ford. Si legga quest’altra, allorché due carabinieri scortano Zebio Còtal per condurlo in prigione: “Sulla strada li aspettava una carrozzella col soffietto alzato e i fanali accesi. I carabinieri se lo fecero sedere in mezzo; il fiaccheraio frustò la bestia insonnolita e la carrozza partì.” Anche la casa dove vive Zebio e il campo che coltiva danno l’immagine di un frammento dell’esistenza che non appartiene più al presente: “era una bicocca di sassi, dal tetto convesso e dalle finestre buie; pareva che tutto quel sole che batteva contro i suoi muri non riuscisse ad entrare nelle stanze.”; “Il grano ci veniva su a stento; la pioggia lo spiantava, il vento lo torceva in tutti i sensi, il sole lo strinava, senza lasciarlo maturare. Anche le patate allignavano alla meglio.” Gli stessi nomi desueti dei personaggi evocano una dolcezza mescolata ad una vigoria che deriva proprio da un passato che resiste: Zebio (il protagonista: “piccolo di statura e tarchiato.”), Zuello, Adrio, Mirca, Glizia, Placida (la moglie di Zebio: “La vita aveva fatto di lei quello che il vento aveva fatto dell’unico albero piantato nel campo.”), Diriego. Oltre a Zuello e a Glizia, Zebio e Placida hanno altri quattro figli: Bianco e Pellegrino, e due ancora più piccoli: Tuna, il maschietto, e Concetta. Come è aspra e severa la natura, così aspri, sofferti, malati come la terra, sono i loro lineamenti. Non ci sono uomini, donne o bambini che vantino una qualche bellezza nella “bicocca” di Zebio, fatta eccezione per il gracile Bianco (“questo povero corpicino col cuore atrofizzato.), somigliante più alla madre che al padre. Dal loro campo dominano “una valletta morta, piena di sassi e sparsa di piante che, seccandosi, avevano preso il colore della ruggine.” È delineata una vita dura e primitiva, in continua lotta con la natura per sopravvivere. La natura non vi è mai rigogliosa, come a sottolineare la spietatezza e la inevitabilità di una relazione sofferta tra essa e l’uomo: “Le piccole case di sasso apparivano seminascoste fra le siepi selvatiche di rovo che circondavano gli orti e fra i pochi alberi intristiti dalla troppa vicinanza con gli uomini.”
Zebio è scontroso e irascibile, perfino la propria ombra gli è d’impaccio: “Camminava in fretta sui grossi ciottoli della strada, lungo la quale, qua e là, rassodava al sole lo sterco dei bovini, e i tritumi di paglia lucevano come pagliuzze d’oro; e mentre andava, continuava a pestare rabbiosamente la sua ombra che gli ballava tra i piedi come per farlo inciampare.” È appena stato da Don Alcide che gli ha letto la lettera con la quale il fratello Adrio gli comunica di aver cacciato Zuello, perché gli ha rubato. Un gatto tignoso gli si para tra le gambe, e Zebio “con un calcio lo gettò contro il muro di una casa.” Tali gesti, siffatte particolari descrizioni, palesano efficacemente la personalità di questo singolare protagonista, che pare vivere in un tempo ancora più lontano piuttosto che nel XX secolo. Cavani punteggia ogni volta la presenza della natura, sia quando si mostra ostile all’uomo, sia quando ne accompagna coi suoi colori e le sue vibrazioni gli umori. Allorché, pieno di rabbia, il protagonista grida alla moglie che il loro figlio Zuello non metterà più piedi in casa sua: “Il sole scomparve dietro i boschi di castagni; la casa diventò grigia; la sua porta e le sue finestre s’empirono di buio. Anche le terre lontane si spensero e s’incenerirono; e le macchie sui greppi gessosi e intorno ai grani rossicci si trasformarono in grosse nuvole d’ombra.” In realtà ciò che lo preoccupa non è tanto la colpa di Zuello, ma il suo ritorno a casa, che per Zebio avrebbe significato una bocca in più da sfamare, giacché i suoi non erano mai stati giorni di vacche grasse. La famiglia, la moglie Placida soprattutto, ma anche i figli, sono il bersaglio principale della sua ira, scatenata dalla sua miseria; spesso li picchia con calci o con “cinghiate” (“una cinghia di cuoio piena di borchie”). Quando si rifugia nel vino e si ubriaca diventa ancora più cattivo. Intanto, Zuello sta facendo ritorno al suo paese. Lo intravede in lontananza “con la chiesa e il campanile d’un bianco crudo di gesso; così piccoli, da sembrare due giocattoli dimenticati in un prato.” Sa che dovrà affrontare la furia del padre, ma “Gli sembrava un sogno di essere ritornato dopo tanti anni dove era nato, e sebbene ricordasse ben poco di quei luoghi, ne sentiva però la misteriosa dolcezza nel cuore.” Dunque, ecco due forze in campo: la furia di Zebio (“quell’uomo è della razza dei lupi”) alimentata dalla sua miseria, che lo tiene lontano da tutto, e l’amore di Zuello per il suo paese natìo, che sopravvive e resiste agli stenti e alle crudezze della vita, così che il suo distacco rappresenterà una profonda ferita impossibile da sanare (quell’amore non sarà, all’interno della famiglia, solo il suo, vedrete). Cavani disegna, perciò, due traiettorie, una ispirata ed inselvatichita dall’odio e una immalinconita dall’amore, preannunciandoci una convergenza, un incontro o uno scontro, sul cui esito costruisce il romanzo, dandoci un avvertimento: “La pietà muore in ciascuno quando tutti ne hanno bisogno, e nessuno può comprendere il dolore dei suoi simili, quando questo dolore è anche il suo.” Sebbene il romanzo si circondi di consuetudini antiche legate alla vita rurale e perciò intrise di una religiosità alimentata dal contatto pregnante, continuo e concreto con la natura, più che dalla fede, si avverte ogni tanto in Cavani l’intendimento di sottolineare la presenza in essa di una laicità composita, non solidale, che attinge il suo modello proprio dal contatto con le leggi della natura piuttosto che con Dio, sia pure una natura che può stupire “che quella gran pace che era nelle cose non fosse anche dentro di loro.” Dice il maresciallo dei carabinieri a Zebio, a cui rimprovera di picchiare la moglie e i figli e di ubriacarsi: “In questi luoghi che sembrano disabitati, gli occhi sono fitti come in primavera le lucciole sui prati. Qui tutti hanno buone orecchie e sono tremendi nel giudicarsi a vicenda.” Ma la vera pace la si trova solo dopo la morte. Lo pensa Placida quando ritorna Zuello e i due si ritiranosotto il muro del cimitero di Pazzano, per non essere sorpresi da Zebio: “Placida pensò che la vera pace era dietro il muro a cui stavano appoggiati.”

La morte come luogo di pace, di rassegnazione, ma anche di speranza, ha una insistente presenza nel romanzo, richiamata dal clima di bestiale prepotenza che impregna il protagonista, al quale non bastano nemmeno i consigli e le intimazioni del maresciallo dei carabinieri. Quando picchia selvaggiamente il piccolo Bianco, il figlio che era tutt’uno con l’altro, Pellegrino, con il quale andava in giro a combinare monellerie, Bianco ne esce mutato, non è più lo stesso: “non si riebbe più; la sua anima fu presa dall’angoscia.” Partecipa alle scorribande del fratello, quasi inerme, con la testa altrove: “presentiva che qualcosa stava per finire, che qualcosa di nuovo stava per cominciare in altri luoghi, fra le anime che lo aspettavano nell’eternità. Dominato dal senso vago dell’al di là, non litigava più col fratello, lo lasciava fare tutto, lo seguiva disperatamente, con negli occhi lontane visioni. La sofferenza lo aveva fatto più bello, più delicato.” È soprattutto in questo gracile ragazzo (e un po’ anche nella madre) che si manifesta in tutta la sua pienezza quella religiosità che si rifugia nella fede salvifica quale ultima speranza per fuggire da un mondo spietato: “chiedeva di giungere presto nel paese azzurro dove i bimbi poveri vengono spogliati dei loro cenci e vestiti con abiti d’oro dagli angeli.” Bianco è uno dei personaggi più teneri e dolci del romanzo. Un giorno dice al fratello: “Non ne posso più, sono ammalato.” E subito dopo: “Portami a cavalcioni, non sto più in piedi.” Si avvicina anche per lui, cioè, come già per Zuello, quel processo di allontanamento che è il solo in cui ci si possa rifugiare: tornato a casa sulle spalle del fratello, va incontro alla madre, si siede “sulle sue ginocchia cingendole con un braccio il collo e nascondendole il volto contro il petto. Ella lo lasciò fare: era fiaccata dal lavoro della giornata, ma il peso del figliuolo le sembrò dolce; trovò in quell’abbandono, in quel bisogno d’amore, come una ricompensa, e le parve che anche Bianco come Zuello, dovesse partire per un lungo viaggio.” Questo capitolo, l’XI, e il successivo, ci dànno l’esempio di una misura contenuta e delicata cui l’autore riesce a pervenire nel trattare il sentimento. Esso mai esonda da una intimità sommessa, e fa da contraltare alla inclemenza e alla miseria dei luoghi in cui la storia si dipana: “Pareva quasi che il sole volesse vedere quella piccola anima a colloquio con Dio.” Infine, nell’occasione estrema, “Un colombo sbandato, di penna bianca, giunse a grande altezza sulla costa, portato dal vento. Per un momento ondeggiò sulle ali ferme come per guardare, poi, sfrecciò via, perdendosi nel turchino.”
La scrittura non manca mai di accompagnare questo mondo rimasto fermo nel tempo: “I debiti, in un modo o in un altro vogliono pagati”; “I matti vogliono compatiti”; “avrebbe fatto i pugni anche con gli alberi.”, “la bracia”; “Ho imparato (in luogo di saputo) che sono aperte le iscrizioni per emigrare in Sardegna.” Sono espressioni e parole che lo traggono fuori dai recessi di un passatoche non si è staccato ancora del tutto, e Zebio si erge a simbolo di una rabbia e di una cattiveria antiche e sempre perdenti, che non si esauriscono mai, ma covano, piuttosto, e si tramandano in forza della miseria e delle umiliazioni. A mano a mano che il racconto procede, egli somiglia ad un debole arbusto esposto ai forti venti di un uragano: tenace ma non per molto ancora, ribelle ma destinato a chinare il capo cedendo perfino nella sconfitta la parte migliore della sua umanità: “Chi ha dei figli ha dei nemici”. La sua caduta incombente, presentita ma respinta tragicamente (“In questo maledetto paese sono più quelli che mi vogliono male che quelli che mi vogliono bene, ma vincerò lo stesso.”; “tentavano di abbatterlo come un vecchio albero.”), è accompagnata dall’urlo della bestia più che dal grido di un uomo.
Glizia vive con ansia la situazione familiare, vede la madre soffrire, tutto immiserirsi e vorrebbe dare un maggior aiuto. Vuol cercarsi un lavoro, portare qualche soldo in casa, visto che il padre sta dissipando il poco che è rimasto. L’autore tratteggia con Glizia la fisionomia di una disperazione in cui quel poco di speranza rimasta si sta consumando e accanto alla ragazza dipinge la figura di un giovane, il postino Franco Grotta, una specie di dongiovanni casereccio, che dopo aver cercato di approfittare di lei, infine, quando arriverà il momento, si adopererà per aiutarla. Sono personaggi che prendono forma a poco a poco e diventano ritratti in movimento e, tuttavia, definiti nei particolari, perfino nella gestualità che le parole dell’autore lasciano in dono alla nostra immaginazione. La casa di Còtal sta perdendo la sua vigoria, dunque: dopo Zuello, dopo la morte di Bianco, ora si sta allontanando anche Glizia, così importante nell’economia risicata della famiglia. Pellegrino si è sbandato, ha preso una brutta strada: lo devono rinchiudere in un riformatorio, ma “era fuggito portando con sé le scarpe, il mantello e la bisaccia.” Restano solo i piccoli Tuna e Concetta, lontani dai pensieri e dalle preoccupazioni dei grandi. Zebio sembra il parafulmine che è stato capace di scaricare l’energia distruttiva unicamente dentro la propria casa. Solo la mamma riesce a tessere e preservare quel filo indistruttibile che la lega ai propri figli. Quelli che se ne vanno ricordano lei, soltanto lei, e mettono da parte i soldi per aiutarla. Il ruolo della madre è esaltato da questo autore, fino al punto di intravedere una severa rampogna lasciata penetrare nel romanzo a carico dei padri.
Vi è una lotta nemmeno tanto sorda per porsi al centro della vita residua rimasta ancora fertile nella casa dei Còtal, e Placida la sostiene nei confronti del distruttivo marito. Vorrebbe che se ne andasse a lavorare in Sardegna, come fanno molti in paese, e non baderebbe a ciò che si porterebbe via, purché se ne andasse. Solo la sua partenza può salvare ciò che resta di quell’energia che Placida avverte giunta vicino a spegnersi. La silenziosa Placida assurge così a simbolo del focolare domestico difeso con ostinazione fino anche al sacrificio. Zebio gli dice: “però, secondo i miei calcoli, se c’è una persona che se ne deve andare da questa casa, sarai tu.” Gli risponde Placida: “Lo so, e forse prima di quello che pensi.” Il focolare domestico per Placida, dunque, non corrisponde più alla casa in cui si vive, se questa è diventata luogo di contaminazione e di sconfitta. Lo si sposta altrove, in un punto dell’universo, dove il legame con i propri figli possa continuare a vivere: “la forza del suo amore era tutta in questo silenzio, era tutta per coloro che se ne erano andati senza dirle neppure una parola. Di lei, in casa, non restava ora che qualcosa di vago, di indefinito. Anch’essa era sempre in cammino con uno, con l’altro, per le vie della terra, per le vie del cielo, e non rincasava che di tanto in tanto con quell’unico che non era ancora capace di andarsene per sempre.” Del resto Zebio, quando va a chiedere un prestito al mercante Diriego Grillo, che glielo rifiuta, avverte già che ogni sua capacità di resistenza alla vita si sta sgretolando: “dite a quelli che mi vogliono rovinare che ci riusciranno: a salvarmi non ci tengo.” Tutto al contrario di ciò che aveva risposto qualche tempo prima al soldato che aveva incontrato all’osteria del Pradone: “ma vincerò lo stesso.” Zebio è consapevole ancora di più, ora, che la sua resistenza è già vinta e che lui stesso ne è stato l’artefice maldestro. Ormai la gente lo evita, non vuole più avere a che fare con lui. Si apre davanti a questo ennesimo vinto dell’umanità uno spazio di desolazione nel quale non potrà che perdersi: “Bisognava dimenticare le parole della moglie e del mercante, passare la domenica in letizia di spirito, ritrovare quel se stesso che tanto amava ma che così facilmente gli sfuggiva.” Non è più speranza, questa, ma soltanto un rimasuglio di ostinazione grazie alla quale ci si trattiene con le sole unghie sull’orlo del baratro in cui fra poco precipiteremo. Ecco qual è diventato il suo convincimento riguardo alla vita: “pensò che la vita degli uomini era simile alla vita del bosco: parassitaria, crudele; affidata alla forza e agli istinti più che al buon diritto di ciascuno e all’amore di tutti; fatta di apparenze più che di verità; falsa tanto nel bene quanto nel male.”; “purtroppo il male di ciascuno è la gioia di tutti.”; “Così è fatta la vita: ostinarsi a non credere nel male che è in noi per potere giudicare il male degli altri.”; “pare impossibile, tutti mi insegnano a fare il bene e nello stesso tempo mi obbligano a fare il male.” Anche la felicità non gli appartiene più, l’ha perduta per sempre, non è più sua, ma gli giunge come riflesso debole e opaco di quella altrui. Si veda anche la scena del ballo che si tiene all’interno della locanda La Lanterna, nel paese di Montardone, descritta nel capitolo XVII, allorché Zebio esclama: “Oh, avere vent’anni! È finita, è finita.” Infine: “tutti si erano già dimenticati di lui.”
Una delle migliori qualità del romanzo è data dalla lentezza con cui, nello stile glabro, asciutto, si svolgono i fatti. Sembra che l’autore voglia indicarci che il destino, come la morte, non ha mai fretta, poiché sa bene che ciò che è stato deciso si compirà. Si avverte la sua presenza come quella del personaggio più importante della storia, anche più dello stesso Zebio, che diventa così la tragica rappresentazione di una delle tante maschere che il destino assume tra gli uomini: “oscure forze operavano a suo danno; si cercava di rovinarlo ad ogni costo. Non si trattava dell’opera di un solo nemico, ma di cento nemici senza viso, senz’anima, contro cui era impossibile lottare, per difendersi.”
Attento alla natura che circonda il suo protagonista, l’autore ne sottolinea sempre i contorni, che accompagnano indissolubilmente ogni suo movimento. È un’attenzione che, notata già all’inizio, si rafforza vieppiù a mano a mano che la solitudine di Zebio viene accentuata dalle disgrazie causate dagli uomini. Zebio non fa un passo senza che l’autore ci dica come la natura si presenti ai suoi occhi: a volte essa contrasta col suo spirito sempre ostile e scontroso, a volte lo asseconda. È una specie di contrappunto che allarga o restringe la proiezione all’esterno che di sé, inconsapevolmente, esercita il protagonista. È sera quando, davanti al cimitero, dove non riesce ad entrare perché il cancello è sbarrato, da lontano lancia un’accorata invocazione al figlio Bianco. Gli chiede di aiutarlo “a ritrovare la strada buona; bisogna che tu mi impedisca di fare altre sciocchezze, perché altrimenti sono perduto per sempre, capisci? Per sempre.” Ma è solo un momento: “bisogna chiudere gli occhi e andare avanti alla cieca finché ci sarà fiato.” In realtà, nell’ostinato e scettico Zebio è iniziata una lotta che non sarebbe mai stata immaginabile, come se la pervicacia e la durezza delle sventure in qualche modo riuscissero a restituire alla coscienza una sensibilità considerata perduta. Ma non è facile che essa sia avvertita da un personaggio aspro come Zebio. Giunto a casa decide di non mettervi più piede poiché appartiene alla moglie e di andare a vivere sul suo campo. Dice alla figlia: “La casa è di tua madre e io non vi metterò più piede dentro, il campo è mio e voi farete lo stesso. Col tempo mi costruirò una baita di sassi e lavorerò la mia terra in pace con tutti.” Quando la lite con Glizia si fa violenta: “Si era già fatto buio; si accendevano i lumi nelle case lontane; dietro le montagne lampeggiava.” C’è una dichiarazione esplicita che manifesta questo legame tra la natura e gli uomini, e la si trova nel capitolo XXV. Siamo a settembre, un “dolce” settembre, “spirava un’aria leggiera e il sole coi suoi tepori dorati rendeva fragrante la terra.” Segue questa frase significativa: “Sembrava quasi che la vita non avesse più peso e che non ci fosse più dolore fra gli uomini.” È il riconoscimento definitivo di una interdipendenza tra l’uomo e la natura. Quando Placida si aggrava, “Il sole si era fatto più piccolo, il cielo più opaco, l’aria listata da raggi bianchi stagnava; nelle aie i galli cantavano.”, e Glizia, correndo a chiamare il medico, trova la piazzetta del paese “sotto a un povero sole senza raggi che la guardava con pietà”. Come era successo con Bianco, la cui morte è accompagnata dal volo di un colombo, anche la morte di Placida manifesta la partecipazione della natura: “Il disco del sole diventò abbagliante; la nube che lo copriva si divise in due parti; prima s’accesero le montagne più alte, poi le colline, le macchie, le acque, i prati; la casa di Placida diventò luminosa.” La natura, ossia, sembra riconciliarsi con l’uomo e risplendere di tutte le sue tenerezze nel momento della sua morte, quella morte che continua ad essere presente e importante, come si è già scritto, nel corso di tutto il romanzo.

Per Zebio, abbandonata la casa e il campo, inizia una vita di stenti, randagio gira in cerca di lavoro, la notte bussa alle porte dei contadini perché gli diano qualcosa da mangiare e gli permettano di dormire nella stalla o nella legnaia. Si avvicina l’inverno, il tempo è mutato, fa più freddo; spesso Zebio cammina sotto la pioggia, e “Capiva, confusamente, che la vita era congegnata in modo che nessuno potesse sfuggire per le maglie del suo tessuto.” Ricordate il riferimento che all’inizio si è fatto a Thomas Hardy e al suo romanzo “Vita e morte del sindaco di Casterbridge”? Sebbene per vie diverse il percorso accidentato di Zebio lo conduce a formulare delle riflessioni che si avvicinano a quelle tragiche di Henchard: “non mi resta che dimenticarmi di quel poco di passato burrascoso che ho dietro di me, distruggere quei due documenti che ho in tasca, e soltanto io saprò chi sono. Zebio, ricordati che ancor prima di morire ti stai cancellando dalla terra.” Ma a differenza di Henchard, il personaggio disegnato da Cavani, nel momento in cui sta per cadere nel vuoto, trova per la prima volta, anche se solo per poco, la comprensione e la misericordia del prossimo. Ridotto a mal partito, con gli abiti a brandelli, le scarpe consumate, incontra inaspettatamente la bontà negli altri uomini, che non esitano ad aiutarlo; e la natura, eccola che è pronta a corrispondere: “Le nubi si erano spente; le montagne s’illimpidivano e il sole cominciava a scaldare l’aria.” Non è facile trovare un narratore in cui sia rappresentata con forza e intensità una tale speciale partecipazione della natura alla vita dell’uomo. Se c’è una sorprendente novità di contenuto in questa storia, essa è racchiusa proprio nel particolare rapporto che Cavani intesse tra la natura e l’uomo. La natura come manifestazione tangibile di una attenzione speciale destinata all’uomo, e sicuramente a Zebio Còtal. Se poi in Cavani la natura sia in qualche modo lo strumento della presenza di Dio, è argomento in tutto ipotizzabile e condivisibile: “quando fu un poco lontano levò le braccia in alto, alzò gli occhi al cielo per ringraziare Dio, senza sapere di preciso se scherzava o se faceva sul serio.” È l’accenno a una mutazione che sarebbe stata possibile, solo che Zebio se ne fosse reso conto. Ma: “Anche questo donare serve ad eliminare un uomo; diversamente nessuno si curerebbe di me.” C’è ancora in Zebio, dunque, una resistenza a comprendere. Si è ridotto a chiedere la carità: “I capelli gli cadevano ora sulle spalle e la barba gli toccava il petto: la testa sembrava quella di un santo, ma gli occhi erano quelli di un demonio. Gli si erano anche ingobbite le spalle e il passo gli si era fatto strascicante per la stanchezza dei lunghi viaggi.” Ancora una volta dobbiamo sottolineare, qui, le qualità descrittive, di grande sintesi ed efficacia, di questo autore. Zebio (“una faccia di profeta dagli occhi diabolici”) vi è rappresentato in tutta la sua valenza psicologica attraverso brevi tratti che lo raffigurano fisicamente: il corpo che si sta piegando alla sofferenza e alle umiliazioni, e lo spirito ribelle, ancora combattivo, che imperversa nei suoi occhi.
Lungo il cammino, infatti, è continuamente messo alla prova e incontra non solo gente buona, ma anche, ahimè, gente che prende in giro la sua miseria, lo sbeffeggia, lo irride: sono donne e ragazzi, perfino, che, quando lo vedono uscire ubriaco da un’osteria, non lesinano offese alla sua persona, così che “ riuscì a capire però come la cattiveria umana, che non ha limiti, assuma, specialmente nelle donne e nei ragazzi, forme crudeli”. Gli lanciano sassi e allorché impreca maledizioni su di loro “In quel momento anche il sole si oscurò.”
Così ridotto incontrerà i figli Zuello, che fa il pastore, e Glizia, che lavora alla locanda della Colomba, nel paesino di Pavullo. Il primo non riconoscerà il padre e parlerà di lui sdegnosamente; Glizia invece lo riconoscerà dalla voce quando si affaccia alla porta della locanda e si nasconderà per non farsi trovare. Sta nevicando, seduto al tavolo Zebio impreca contro l’umanità: “Fossi tutto di neve e mi potessi sciogliere, invece la neve se ne va ed io resto.”; “Fanno la carità non a me, ma ai miei cenci”. Glizia lo osserva allorché si allontana sotto la neve: “Sentì un’immensa pietà nel cuore, ma nello stesso tempo comprese che non poteva far nulla per lui.” Aveva detto Zuello parlando di suo padre: “ciascuno per la sua strada.” Di questa frase fa tesoro e si appropria perfino Zebio, che non vuole la compassione di nessuno. Tuttavia la sua vita sta portandolo, ormai, incontro alle sue colpe, lo sta mettendo di fronte al suo passato, così che in realtà quel “ciascuno per la sua strada” è impossibile a questo mondo e le strade di tutti in qualche modo si incontrano; chi è stato con noi anche per una sola volta, prima o poi ritorna ad incrociare il suo destino con il nostro, e quando questo accade può essere che un altro incontro si stia preparando, quello che ci farà capire che il nostro viaggio, la nostra fatica, le nostre gioie, i nostri rancori, sono finiti per sempre. Di nuovo la morte, dunque. La tragicità delle scene sotto la neve che si disegnano nell’ultimo capitolo, ha richiamato alla mia memoria una situazione simile, ossia altrettanto drammatica, che è descritta ne “L’ammazzatoio” (1876/1877) di Émile Zola, allorché, nel capitolo XII, Gervaise, anch’essa ridotta in miseria come Zebio, vaga sotto la neve per le strade di Parigi, immersa nella sua disperazione.
È un accostamento che considero prezioso, e che la dice lunga sul valore di questo romanzo.

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