Marcel ritrovatoScomparso nel 2006 (era nato a Bologna nel 1920, ma aveva scelto come sua città d’adozione Milano), Giuliano Gramigna ha avuto una intensa attività di critico letterario presso le più importanti riviste e i maggiori quotidiani nazionali. Da giovane mi facevo scorpacciate dei suoi articoli sul Corriere della Sera.Fu anche poeta con varie raccolte di poesie: La pazienza, del 1959; Robinson in Lombardia, del 1967 e Quel che resta, del 2003.
Tra i romanzi, anche Un destino inutile, del 1958; L’eterna moglie, del 1963.
Marcel ritrovato viene dopo, nel 1969.Già il titolo lascia intendere l’amore di Gramigna per Proust (troveremo: «sebbene creda in Proust più che in Gesù»), e quando si comincia a leggere il romanzo è proprio il grande autore francese che si respira in ogni pagina. La scrittura assimila un tale amore. I tempi sono lenti, la narrazione quieta. Le descrizioni degli ambienti, ed in specie dei salotti mondani vacui e pettegoli sono decisamente proustiani. L’omaggio a Proust si manifesta anche con l’uso frequente di parole ed espressioni francesi.

Non amo Proust; lo so, è una mia mancanza, vorrei quasi dire, un mio mancamento. Ben due volte ci ho provato, e l’ultima mi sono fermato al principio del secondo volume, All’ombra delle fanciulle in fiore. Un po’ come la Gianna di questo romanzo. Mi manca Proust? Credo di no. Del resto la lettura che son riuscito a fare del primo volume, La strada di Swann, è riuscita comunque a farmene assimilare, almeno in parte, le complesse ed inquiete atmosfere.

Bruno, il protagonista del romanzo di Gramigna, è un pubblicitario, fidanzato con Laura.
L’ambiente che frequenta a malincuore, invitatovi dalla sorella Gianna, è dei più frivoli e pettegoli.

Gramigna vi manifesta, caricandola di sottile e garbata ironia, la sua bravura: «Un altro Consonni abbozzava cenni amichevoli di lontano: era un giovanotto con un bruno splendido di salute sul viso, il collo, le mani, una abbronzatura che denunziava slalom a Mégève, sci d’acqua, regate, tuffi e nuotate a Santa Margherita».

Un romanzo di accenni, di vapori, di nebbie, come quando, a mo’ di nota, Gramigna descrive le case chiuse sparse per Milano, lasciando intravvedere veli e respiri peccaminosi appena accennati e già allusivi: «I tacchi delle ragazze sulla scaletta facevano un picchio secco e precipitoso, che era probabilmente l’unica cosa elegante dello stabilimento; qualcuna, in un residuo di pudore, si stringeva intorno alle gambe la sottana di velo, mentre i clienti spiavano con il naso all’insù.»

I suoi timbri toccano con efficacia le sfumature dell’agiatezza e della povertà, tanto materiale quanto spirituale. La descrizione minuta di corso Garibaldi, «una strada che suppone una lunga familiarità per rendersi tollerabile e magari amata», si imprime dei suoni e dei colori delle anime strascicanti e tormentate che la vivono.

Gramigna ogni tanto apre una finestra ulteriore, affida ad una nota i dettagli di un realtà fitta di memorie e lasciata a cullarsi in una penombra che ha rifiutato per sempre la luce. Una sotterraneità, una sommersione non casuali che danno conto e ragione di ciò che siamo allo stesso modo degli occhi di una sfinge: « Come va più lontano, ma con che logica, la cronologia del sottosuolo nei confronti di quella d’ogni giorno! Essa manda avanti le sue emozioni, i suoi allarmi e solo molto più tardi fa seguire i motivi che li giustificano.» Si veda l’immagine del padre (figura della memoria per eccellenza) assorto dietro la scrivania appena illuminata da una lampada. Ma anche il passato di Casalecchio è rievocato più avanti in modo tale che pare un’ombra delicata e malinconica. Certe note, come quella che contiene il dialogo Autore/Pilade, avventurandosi dentro una scrittura quasi futurista, pare voler spremere i succhi di un’oscurità fino ad allora celata, ma sempre da interpretare, proprio come gli enigmi della sfinge.

Le risposte alla nostra vita, ai tanti nostri perché, ci sono tutte, ma volutamente rese non sempre chiare e leggibili. Nella stessa scrittura ogni parola, ogni richiamo, mai casuali, suscitano vita.

Marcel è un nome che sembra uscire una prima volta per caso, e così la seconda, finché si afferma affiorando dal buio verso la luce.

Forse tutta la nostra esistenza si consuma in questo passaggio che non si riesce mai a compiere del tutto: «In certi casi non basterà una vita intera.»

È un passaggio che attraversa uomini e cose, con il tremolio di una memoria che parifica, per elevarla, ogni situazione dell’esistenza: «Ma anche l’attaccamento alla memoria è una maniera di non pensare alla morte, di fare finta di non morire mai.»

Le molte paia di scarpe messe in fila da suo padre, alcune mai calzate, assumono contorni di passato e di futuro, di movimento e di staticità, i cui impulsi provengono sempre dalla stessa fonte: la memoria: «Non avevo certo bisogno di quella fila di oggetti per ricordare mio padre ma essi mi suggerivano un aspetto preciso, magari buffo dell’uomo che mio padre era stato». E ancora: «Nelle scarpe allineate sui palchetti s’incorporava una realtà della vita di mio padre, diciamo la sua mania o meglio quel rituale tranquillo, un ironico con il quale, nella sua solitudine di vecchio, si era consolato di essere sempre fedele a se stesso.»

La memoria è per Gramigna l’anima della creazione, allo stesso modo che per Proust.
Il processo di immortalità che ne consegue è lento, sofferto, e consuma; ed esso stesso si disgrega come il bozzolo da cui esce la farfalla.

Particolare attenzione merita il capitolo IV della prima parte, allorché la sorella Gianna porta un Bruno svogliato al Biffi Scala, dove intorno ad un tavolo stanno alcuni amici. Rispetto al salotto tradizionale e chic che già abbiamo incontrato questo si carica di un ibrido modernismo tenuto insieme da una beffarda ironia che ha nella costruzione dei dialoghi che si incrociano, si ammezzano, si perdono tra le voci altrui, un suo speciale risalto stilistico.

Sembra che Gramigna voglia qui deliberatamente suonare una musica diversa, per marcare una eterogeneità sostanziale che s’informa in ciascuno di noi, a prescindere dalla nostra volontà. Ne sortisce una frivolezza quasi settecentesca, che la briosa scrittura cerca di nascondere, ma gli uomini d’affari e le donne seduti al Biffi Scala altro non sono che dame e cicisbei del tempo passato.
Quasi uno spunto di memoria, anche questo.

Ma non finisce lì, quando abbiamo la minuziosa descrizione di Roberta, la sposa di Marcello, che Bruno aveva amato, sembra che ci si trovi in presenza di una continuazione della scena, ridottasi però ad un solo personaggio. Roberta pare, pur nella sua bellezza, un caricatura in cui un sarcasmo quasi petulante ha posto il suo sigillo. Il naso di Roberta sembra il marchio di fabbrica della filosofia che impregna il romanzo, quasi come il naso lungo di Cyrano: «Il naso di Roberta, di linea gradevole anche nella lieve tumefazione del raffreddore, mostrava una leggera ma indiscutibile deformità: pressappoco a un centimetro dalla radice il setto si curvava verso sinistra (dell’osservatore) e continuava questa lieve curva per un altro centimetro, ripigliando poi la linea naturale. Insomma il naso era storto».

Diciamo che questo versante sarcastico crea un ponte tra la prima e la seconda parte, ripetendosi allorché, arrivato a Parigi alla ricerca di Marcello, Bruno incontra due curiosi personaggi che avevano conosciuto Marcello, a cui Gramigna affibbia i nomignoli il Porco Patetico e il Verme. Con loro gira di sera la città ed entra in certi locali ombrosi e bizzarri, abilmente descritti. Continuerà poi con altri personaggi, come, ad esempio, la donna che sta dietro il banco («un tronco di donna») della pensione Râtelier.

Il tocco di Parigi sembra imprimere un’accelerazione e una spavalderia alla scrittura, solo accennate nella prima parte. Come se una presenza impalpabile, ma certa, di Proust consentisse all’autore una temerarietà a lungo repressa. Gramigna cerca un confronto con Proust nella scrittura, offre un’alternanza che riproponga in qualche moda le medesime atmosfere.

Gramigna possiede un’ambizione che non nasconde, segnata da una certa sciccheria impressa con la scelta di espressioni e vocaboli elitari (varie espressioni in francese e in latino; parole come mantrugiava, perspirazione, oloturia, parossitone, abasurditi, campisce, spicciolature, accolade, obbligativo, omoplata, signoriale, deversavano, usmare, demarcando, ciclomitico, vagale, strappacchiata, numinose, elettrocuzione, trottignarono, eguttazione, paraffo, omeomerie, eietatti) che ben si inseriscono in una rivalità che ha la sua fonte nell’ammirazione per l’altro. Lo «choc di Parigi» è lo choc di Proust: «nuotavo letteralmente tutto il giorno entro quel brodo di cultura imprevisto, che avrebbe potuto benissimo uccidermi e invece mi rinforzava, mi trasformava».

Uno degli esempi più eclatanti si trova nel capitolo II della parte seconda: «sempre con la stessa smania o fame del primo giorno; buttechaumontando, menilmontandosi con un frémicourt, lafayettato, senza courcellare un montsouris.»; ma anche nel capitolo IV: «aveva cominciato la parlata sur son neuro-végétatif o fosse anche venuto nella politezza tout à fait médicale, technique qualche argotismo familiare, metti un nerf en pelote.»; e poco più avanti: «annuente benigno in ametista anche monsignore, i mezzi sì deprecabili nobile santo lo scopo gegen Kommunismus, all’incontro (via, salotto, sala di riunione) nullo liberale disposto a rifutarsi di stringergli la mano quel manque de politesse!»

E ancora nel capitolo successivo: «lei me lo fece notare ammiccando con il viso girato su una spalla, a cavalcioni della bicicletta, i gomiti sul manubrio allora tu l’avevi già capito? che domanda, sciocco; allora ricominciamo bene tutto quanto da capo, come quando una leggera crepatura dello specchio scombina le linee di un oggetto ma adesso è giusto il contrario: tutte le linee vanno a posto, a partire dalla sera del.» Quasi ouverture ed intermezzi che preparano il finale, rappresentato da quell’avvio scioccante della parte terza. Gramigna cerca di andare oltre Proust.

Beh, in effetti non si sa a quale corrente letteraria risalire, si va ben al di là di qualunque sperimentalismo, con una selezione spietata dei propri elettori. Chi sa, un farnetichio, come dice in altro momento. Lo stesso gioco tra l’autore e il suo personaggio che altri non è che il se stesso chiuso e imprigionato nel romanzo, una sua «epifania», mostra una qualche volontà dissacratoria nei confronti dello stesso lettore, che appare quasi messo in disparte rispetto al duello-confronto tra i due, Gramigna e Proust, che ha come obiettivo quello di non riuscire a decifrare alcun mistero e a non concordare alcuna unione. Vi è un se stesso che sta sempre al di fuori di Bruno, lo osserva, lo analizza ma non riesce mai a compenetrarlo.

Non è per caso che l’abate lazzarista Casanova, uno strano personaggio incontrato su di una panchina di Parigi, in un secondo incontro in cui chiacchierano più a lungo, gli domanda: «Ma lei vuole proprio essere ancora quello che è stato?»

La ricerca, in una Parigi quasi impressionista, di Marcello, il marito di Roberta, è insieme la ricerca di ciò che sta nascosto in Proust, ma pure in ciascuno di noi e quindi nello stesso autore: «A meno che (ed era la ragione vera) non mi rendessi conto di aver scovato qui un frammento di quello che sarei potuto essere senza i miei guai e le mie fobie.» Il quale autore, se ci narra della vita, ce la narra con la rabbia dell’impotenza, ossia di chi non ha la forza di cambiare: «Pensare a morire. Possibile che dobbiamo arrivarci così trafelati, senza avere nemmeno capito per dove siamo passati?».

È invece ciò che tenterà di fare, trasformandosi brutalmente, il Marcello ritrovato.