Il ponte della GhisolfaDire periferia di Milano e dire Giovanni Testori è la stessa cosa, tanto questo scrittore si plasmò con gli ambienti popolari e sofferenti della sua città. Uomo tormentato, morto fra l’altro di un tumore il 16 marzo 1993 all’età di settant’anni, trovò nella fede un rifugio alle sue inquietudini. Cresciuto alla scuola di Roberto Longhi fu un sensibile critico d’arte e numerosi sono i suoi saggi al riguardo. Fu, oltre che pittore, poeta (il suo primo libro di poesie, “I Trionfi”, è del 1965), uomo di teatro e giornalista del “Corriere della Sera”. Qui però ci occuperemo della narrativa, bastando ricordare che l’opera teatrale più importante, “L’Arialda”, del 1960, trattando dell’omosessualità, creò scandalo e molte resistenze alla sua rappresentazione, che infine avvenne l’anno dopo con la regia di Luchino Visconti.
Testori esordì nella narrativa per merito di Elio Vittorini che nel 1954 pubblicò nella prestigiosa collana “I gettoni”, della Einaudi, “Il Dio di Roserio” (breve romanzo), che entrerà a far parte del ciclo “I segreti di Milano”, insieme con i racconti de “Il ponte della Ghisolfa” (nel quale sarà, in una versione rivisitata, inglobato e ne diverrà il racconto d’avvio), che è del 1958; “La Gilda del Mac Mahon” (ancora una raccolta di racconti), del 1959, “La Maria Brasca (opera teatrale), del 1960; “Il fabbricone” (romanzo), del 1961; “L’Arialda” (opera teatrale), del 1962; “Nebbia del Giambellino” (romanzo postumo), del 1995. Nel 1974, esce “La cattedrale”; nel 1975 “Passio laetitiae et Felicitatis”; nel 1992 “Gli angeli dello sterminio”.
Il ponte della Ghisolfa”, che ispirò “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Luchino Visconti, è una raccolta di racconti, il primo dei quali è proprio “Il dio di Roserio”.
Chi ama il ciclismo trova all’inizio l’immagine di una caduta che coinvolge due corridori, Dante Pessina, che poi proseguirà la gara, vincendola, e Sergio Consonni, il quale rimarrà lesionato al cervello per sempre e verrà rinchiuso in un ricovero: “Il Todeschi gli aveva detto chiaro e tondo che ormai era scemo: e che scemo sarebbe restato. Fuori non sarebbe più uscito, sia pure con le cure”. Un sasso li aveva fatti cadere rovinosamente. Si affaccia così alla memoria dell’appassionato di questo sport l’incidente che occorse, nell’edizione del Tour de France del 1995, a Fabio Casartelli, che morì a causa delle ferite riportate in seguito alla caduta nella discesa del Col Portet d’Aspet, sui Pirenei.
Pessina non vuol più correre, ha paura di lasciar sola la madre se gli accadesse una disgrazia. Ma è davvero così? Il patron, Todeschi, ha un appuntamento con lui e lo sta aspettando, giacché fra poco si dovrà correre una gara importante e la “Vigor”, la sua squadra, punta su di lui, il campioncino, “il dio di Roserio”. Ma Dante ancora non si fa vedere. Todeschi guarda continuamente l’orologio, va spesso alla finestra; sotto stanno giocando una partita di bocce, si sentono i colpi secchi sul pallino, le esclamazioni, le risate, i brontolii. Tali rumori proseguiranno, e faranno da sfondo anche nel corso del colloquio che Todeschi avrà con il suo pupillo, finalmente giunto all’appuntamento. Il ricordo della disgrazia accaduta al suo compagno è ancora lancinante. Poche le sue parole, invece significativi i suoi sguardi.
È una scrittura scorrevole, elastica, modellatrice, quella di Testori (“Perché se no cosa sarebbe gregario per fare?”; “Quando poi se era diventato qualcuno lo doveva a lui”): con in più gli umori e le coloriture di un cronista speciale che narra i fatti che accadono dietro le quinte, dando ad essi l’efficacia e l’urgenza degli eventi che ne conseguiranno.
Solo Pessina, infatti, sa come sono andate realmente le cose riguardo all’incidente. Non fu un sasso a provocare la caduta, ma una sua consapevole sterzata, che aveva fatto sbandare il compagno e cadere violentemente a terra. Ma non poteva dirlo a nessuno; sarebbe finito in galera altrimenti. Il grido di Consonni: “Pessina!”, come per dire: Ma cosa fai?, non lo lasciava più. Bastava che si trovasse solo, chiuso nella sua camera, e cominciava a martellargli in testa. Paura della colpa, e ossessione, dunque: una miscela esplosiva, che gli aveva impedito di andare a vedere l’amico nonostante tutti gli dicessero che chiedeva sempre di lui. La sua visita gli avrebbe fatto piacere, e forse gli avrebbe fatto anche bene. Così ora circolava la voce che il Dante non era forte come sembrava, ma un coniglio, una “mezza-donna”.
In poche pagine, ecco ritratto, dunque, un dramma intimo, corrosivo, feroce, dagli esiti imprevedibili. È scandito da una descrizione sapiente dei minimi gesti, nervosi, improvvisi, mossi da una febbre e da una inquietudine della mente: “Si ricordò che il fazzoletto l’aveva lasciato nella tasca della tuta. Buttò indietro le coperte. S’alzò. Restò fermo sul pavimento. Allungò la destra verso la tuta. Se la tirò addosso. Affondò una mano nella tasca. Tirò fuori il fazzoletto. Lo portò al naso. Soffiò due o tre volte; poi non riuscendo a liberarsi adoperò le mani.” La scrittura si è fatta nervosa come nervoso è lo stato d’animo di Dante.
Sdraiato sul letto non riesce a liberarsi dalle immagini e dai pensieri di quel giorno. Consonni in discesa andava forte, la sua intenzione era palese, intendeva umiliarlo. Era da tempo che ambiva a prendere il suo posto di caposquadra. Così ecco la sua brutta sterzata e la caduta di entrambi. Il letto su cui Dante si è sdraiato sta rivelandosi il malefico congegno della sua tortura.
Consonni sapeva come erano andate le cose? Un giorno, se fosse migliorato, avrebbe forse raccontato la verità: “perché se resta vivo, finirà col parlare. Forse ha visto, forse ha capito…”
Dante vuole ancora illudersi, con quel “forse”, che il suo segreto non sarà mai svelato, che le circostanze lo aiuteranno. Ma come?
Testori sta costruendo una tensione altissima creata all’interno delle spigolosità della mente; la sofferenza è spremuta al massimo, così che quello di Dante diventi il percorso di un calvario.
Sdraiatolo su quel letto o osservandolo sul lavoro (fa il benzinaio), Testori, come uno psicanalista, estrae e dipana a poco a poco la verità. Ricostruisce i fatti minutamente costringendo la coscienza a rivelarsi. Consonni e Pessina diventano così i simboli di un male eterno che ci affligge, di una innocenza perduta che ha recato all’uomo tutti i guasti di una infelicità irreversibile.
Ciò accade mentre tutto fuori vive una propria consueta normalità. Si sta correndo la famosa e attesa “Olona”. La gente affolla i marciapiedi, c’è trepidazione, c’è euforia. Due ragazzi tifosi della “Vigor”, la squadra di Pessina, vanno avanti e indietro con la loro Lambretta e portano le notizie. Pessina e il suo nuovo gregario Riguttini sono in testa a pochi chilometri dal traguardo. Altro che finito il Pessina! mormorano i tifosi avversari. Testori si esibisce in una cronaca appassionata ed eccitante, che lascia col fiato sospeso (ciò che si ripeterà più avanti con la cronaca di un incontro di boxe). Noi soli sappiamo, grazie all’autore, che cosa rosica nella testa del “dio di Roserio”. La cronaca è fatta come se una cinepresa fosse stata innestata negli occhi del Pessina: “Alzò la testa quel tanto che bastava per veder se le case del paese stavano per finire. Vide prima le file di scarpe, poi mano mano sollevava gli occhi quelle delle gambe e dei calzoni. Quindi vide le file dei calzoni alternarsi a quelle delle sottane. Poi dietro a quelle file vide alcuni pezzi di muro color terra, ruggine e fango. Poi vide alcune chiazze di luce, alcune schegge spiccar tra le teste, e i capelli, gli occhi e le gole spalancate. Davanti continuava ad aver la curva gialla del Riguttini.” Ma non è il Riguttini; il cervello continua a rimandargli invece l’immagine del Consonni. Ecco il momento in cui decide di staccare anche il suo gregario: “Con un colpo violento s’alzò sulla sella. I muscoli si scatenarono. Il corpo si protese tutto in avanti come se volesse gettarsi oltre la ruota. La testa precipitò di là dal manubrio, giunse a ricevere il sibilo della gomma, nello stesso attimo in cui davanti gli riapparve impiastrata di sangue la faccia del Consonni.”
È una cronaca dall’indiscussa precisione e qualità letteraria. Non una parola fuori posto, non una sbavatura, e tutta la tragicità dell’entusiasmo è racchiusa e sigillata per una esplosione. Lo stesso patron Todeschi è meravigliato dalla forza immane scaturita da quei muscoli, teme “che i polmoni del ragazzo non potessero reggere a quello sforzo e che spezzandosi ne fermassero con una caduta la corsa.” Il Riguttini se lo vede passare davanti come un fulmine, sa di essere soltanto il numero due della squadra, ma non ci sta ad essere umiliato; la sua carriera è agli inizi “e allora, giù, forza, dietro!” Due violenze, due disperazioni si confrontano. In mezzo sta il Todeschi, chiuso nella sua paura.
Non c’è niente da fare quando il Pessina si scatena, non ci vuole molto a capirlo. Nessuno sa, però, nemmeno Todeschi, che a condurlo alla vittoria non è tanto la limpidezza di un campione, quanto la violenta rabbia di una colpa che, per quante vittorie costelleranno la sua strada, non lo lascerà più.

Ma i ciclisti e i loro amici che cosa fanno gli altri giorni? Lo sappiamo dal racconto seguente: “Sotto la pergola”. Se ne stanno al bar a spettegolare. Ivo Ballabio, detto il Brianza, quello che durante le corse guida la Lambretta, fa il barista al “Re di Picche”, è un bel ragazzo, piace alle donne e quando ha un vestito nuovo, e quando un profumo più costoso, e quando un anello, e così via. Si mormora che abbia una anziana, una “manganona”, che lo mantiene. Ma c’è che insinua che se la intenda con uno che ha la grana, un omosessuale. Riguttini rivela invece di aver saputo dal Pessina che al casello dell’autostrada il Brianza stava in macchina con una donna e si baciavano. Ciulanda, Candela, Camisasca sono operai dai nomi che condiscono una prosa densa di ricami gergali in una progressione, rispetto al primo racconto, di straordinaria efficacia, al punto che non importa più sapere se ci troviamo in qualche luogo della Milano bene o in un caffè di periferia, giacché tutto si fa, grazie al linguaggio, periferia.
Con i racconti successivi ci rendiamo conto che essi sono capitoli di un unico romanzo e che Testori ha scelto i suoi personaggi per farne il simbolo di una realtà dispersa e dolorosa che vive ai margini, mossa tuttavia da un’ansia di vita che riesce a far capolino pur in mezzo alle devianze e agli sbandamenti.
Una grigia, sofferente umanità si mostra, così, al lettore quale tessitura di una molteplicità di rapporti nei quali si muove e si insinua viscidamente il mistero mai risolto della natura dell’uomo. L’uomo di Testori è l’Adamo colpito dall’ira di Dio, destinato a macerarsi e a non comprendersi: “E la vita? È tutta qui la vita?
Nemmeno l’amore riesce a colmare il destino beffardo; esso altro non è che un fuoco fatuo, un momento di tenerezza legato al richiamo dei sensi, perfino lo strumento di una vendetta, incapace di trattenersi e di riscaldare il cuore.
L’omosessualità che appare qua e là come ammiccamento nella discussione tra il gruppo di amici (ma la troveremo accennata anche, verso la fine, nei dubbi che Attilio Rivolta avrà nei confronti del fratello Dario) è un’omosessualità senza amore, a differenza di quanto avviene in “Fabrizio Lupo” di Carlo Coccioli, ad esempio. Sono i sensi a prevalere e a dominare i personaggi, e l’ambientazione emana sempre quello squallore degradante che manca, anzi è rifuggito, nello scrittore livornese: “Il Ballabio ebbe appena il tempo di dirsi: «ci siamo», e guardar fuori le ombre che stavan ferme o passavan furtive come quelle dei ladri“. Il Ballabio, ossia il Brianza, è stato adescato da un ricco signore e ha pensato subito ad un omosessuale in cerca del bell’apollo che lui sa di essere. L’adescatore ferma la sua grossa auto ai margini della ferrovia, e il Ballabio, che gli siede accanto, è in attesa della sua prima mossa. Ma G.M. (con queste iniziali conosceremo l’adescatore) gli chiede se è disposto a partecipare a certi festini, farsi fotografare e a guadagnare un po’ di soldi. Non è propriamente un omosessuale, ma un degenerato sadico e corrotto. Una fortuna, però, per il Brianza, che ha sempre sognato begli abiti e una Guzzi da sostituire alla vecchia Lambretta. In quel momento non passa per la testa del giovane nessun briciolo di scrupolo, più che sufficiente a rimarcare una gioventù già segnata dal vizio dei sensi e dalla cupidigia del denaro. Il mondo che tratteggia Testori è senza luce, condannato all’oscurità perenne e a muoversi all’interno di un grigio e ributtante verminaio. Testori vi si immerge quasi sadicamente, e ne fa affiorare i vapori maleodoranti per dirci che la vita è anche questa, e che lui è costretto ad accettarla così com’è, pur tormentandosi e soffrendone. Il Brianza, ora, è adescato da una prostituta, Wanda, che lo conduce nei pressi del ponte della Ghisolfa: “Chiari, ostentati fino ad eccitarlo nello stesso tempo che a infastidirlo, apparvero allora nel viso e in tutta la persona della donna, che doveva arrivar sì e no alla trentina, i segni della sua lunga carriera.”
Il giovane non fa altro che precipitare. In lui l’orridità di ciò che sta facendo lo trascina sempre più in basso, e nonostante il lusso esteriore che gli deriva dall’avere ora tutto il denaro che gli serve (conquistato a spese della sua dignità e anche con il ricatto), la sua intimità è frantumata. È convinto che la sua bellezza avrebbe dovuto meritare una vita migliore, e la rabbia per quella che crede una ingiustizia patita lo rende stolido, ipocrita e folle.
Se il vizio, infatti, fa parte della natura umana, ne è parte anche la follia, giacché la follia è serva del vizio.
Accade, però, ciò che non poteva sembrare possibile, ossia Wanda, la prostituta, s’innamora del Brianza, cui “la vita stava prendendo l’immagine d’un assalto senza pace alla sua bellezza.” Testori, a forza di scavare nel buio, trova ora una piccola luce. La raccoglie dalla miseria morale in cui ha affondato il bisturi; tenta una prova e ci invita a misurarne il risultato. Sono i momenti in cui riaffiorano nella memoria le immagini di Annie Girardot (la prostituta Nadia) di Alain Delon (Rocco) e di Renato Salvatori (Simone), nel film di Luchino Visconti “Rocco e i suoi fratelli”, immagini che torneranno, con maggiore intensità, più avanti nella lite tra i fratelli Attilio e Dario, detto Sinatra, che si disputano i favori della Gina. Pagine quest’ultime di una rara e violenta bellezza.
Ma la scintilla d’amore scoccata nel cuore di Wanda, – vedremo – si smarrirà nel silenzio più assoluto, come nel silenzio più assoluto scomparirà la figura di Wanda.
Un rapporto omosessuale è adombrato anche nel racconto “Il ras”, tra due pugili, Duilio Morini e Cornelio Bindi. Per vendicarsi di una sconfitta sul ring, Duilio fa la corte alla sorella di quest’ultimo, Angelica; la mette in cinta e poi vuole disfarsene. Cornelio non ci sta, gliela vuol far pagare.
Troviamo via via personaggi che hanno nomi diversi, ma i racconti procedono come se se seguitasse una unica storia, con al centro quel “Re di Picche” che pare l’ombelico del mondo. Cornelio, Angelica, Duilio, Enrica, Michele, Raffaele, Rina e così gli altri che seguiranno sono il Brianza, la sua padrona Wally, la prostituta Wanda, ossia il solito triangolo di insoddisfazione, di disfacimento e di miseria morale. Ci troviamo di fronte al caso, dunque, in cui il filo rosso della storia (sempre una storia di umiliazioni, di offese, di tentativi pietosi di rivincita) supera il personaggio, travalicandolo e sommergendolo.
Wally e Wanda, non più giovanissime, si sono invaghite del Brianza. Wally è la più corrotta tra le due, la più forte. La Wanda è più passiva, non difende il suo amore, non mostra alcuna disperazione, lo reclama, ma non fa drammi. Lascia al Brianza la scelta e se ne va in silenzio. Tuttavia non ci saranno mai vittorie né in questa sfida né nelle altre che incontreremo, ma solo sconfitte.
Testori, con una scrittura questa volta concitata, aggressiva, anche istintiva, indaga nelle menti dei personaggi, un’indagine che alterna gioie e malinconie, insicurezze ed esaltazione, come se il sentimento mostrasse per la prima volta il suo lato nascosto ed oscuro. È una umanità inquieta, sfortunata, talvolta viziosa, nella quale assai di rado è penetrato, sempre comunque per vie contorte e buie, l’amore. Le pagine che si immergono in una tale indagine richiamano alla mente la celebre notte dell’Innominato, descritta dal Manzoni, in cui una tale alternanza e drammaticità del sentimento sfocia nella luce e nella redenzione, mentre in Testori si muove nel buio e va gradualmente preannunciando le devastazioni dell’anima. Testori, infatti, non arriva mai a mostrarci il ciclo completo della tragedia che distrugge il personaggio; essa è sospesa, intuita.
Lo stupro di Gina, ad esempio, da parte dell’ex fidanzato Attilio Rivolta è uno dei momenti più alti del romanzo, che si limita, però, a marcare il binario tragico su cui si è incamminata la vicenda. I rapporti tra Attilio e Dario (innamorati della stessa donna), intrisi di odio e di affetto, e quelli tra loro e Gina, vittima della propria bellezza, ripetono il triangolo, ma questa volta rovesciato, che già s’era incontrato tra Wanda e Wally, innamorate dello stesso uomo, il Brianza.
Ancora un triangolo sarà quello costituito da Enrica, Raffaele e Michele, all’interno del quale di nuovo si dovrà “lottare con tutti i mezzi” per salvare la propria vita: una lotta senza pace, sempre, in cui lo spauracchio dell’annientamento si colloca ad ingrigire ogni sussulto di speranza.
L’amore di Vincenzo per Carla, che conclude il libro, naufragato tra prepotenza e incomprensione, suggella una realtà permanente che si annida nella coscienza degli uomini, li obnubila e li immiserisce.

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