Dopo “Paulu Piulu”, uscito sempre per l’editore Manni nel 2005, Giorgio Morale, che vive a Milano ed è insegnante di Lettere negli Istituti di istruzione secondaria superiore, affronta questa seconda prova avendo alle spalle un esordio che ricostruiva una storia biografica attraverso la memoria.Qui invece, alla memoria si affianca il presente, ossia la vita reale che scorre e esibisce il suo conto quotidiano, pieno di segni di umiliazione, di corruzione e di dolore.
Siamo in un Centro di volontariato, a Milano, “estrema periferia”. Alcune donne, Ombretta, Martina, Vanna e Teresa, con l’aiuto di alcuni giovani, si spartiscono le incombenze. Chi passa dal Centro ha bisogno soprattutto di lavoro. Si cerca di fare tutto il possibile per trovarglielo, anche poche ore. L’assistenza agli anziani è il lavoro per il quale c’è più richiesta, però non tutti sono disposti, ad esempio,a vivere 24 ore su 24 in casa dell’anziano. Si vuole mantenere uno spazio privato per la propria vita.
Al Centro non son tutte rose e fiori come può apparire dall’esterno. Il clima che vi si respira è frenetico, perfino ossessivo. L’autore marca il presente con la sofferenza che sta dietro ciascuno dei protagonisti, e con le deviazioni che la vita impone pure a coloro che praticano un’attività rivolta al bene. La marcatura è anche grafica. Si trova il corsivo ogni qualvolta si entra nella vita delle persone.
La scrittura è secca, asciutta, quasi telegrafica. I personaggi vengono appena disegnati; i loro contorni sono resi da fatti e movimenti che li coinvolgono.
Si può anche dire che la precarietà della condizione che affligge i visitatori del Centro si trasferisce nei volontari, la cui integrità in qualche modo è intaccata. Compromessi, sotterfugi, spiate sono all’ordine del giorno e fanno del Centro un luogo di lavoro come tanti altri, se non addirittura peggiore. L’abnegazione, più apparente che reale infatti, non è il frutto di una vera e propria vocazione.Riscuotono un compenso economico che li rende consapevoli di una fortuna che manca agli ospiti, molti dei quali sono stranieri fuggiti dalla miseria del loro Paese. Siadeguano all’intrallazzo, sono bravi a carpire fondi dello Stato o della Regione, falsificando poi i rendiconti. Morale non ci nasconde il marcio che inquina iniziative che hanno almeno nel nome o nel progetto dichiarato ambizioni nobilissime. È dappertutto così? Il Centro di Milano può rappresentare una situazione diffusa? L’autore denuncia: “Per il lavoro usano la stessa logica. Indirizzano i poveretti da famiglie facoltose del loro partito o da aziende della Bassa della loro congrega – per essere più forti si sono messi in una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza. Così riforniscono i loro amici di manodopera a basso costo e per di più sono pagati dallo Stato perché trovano lavoro. Come se non bastasse, hanno il riconoscimento morale perché fanno del bene e li premiano con l’Ambrogino d’oro.”
Anche la Regione lombarda è presa di mira. Ci si torna a domandare, dunque, se l’obiettivo di Morale è finalizzato a evidenziare il malcostume di una parte politica in qualche modo espressione del cattolicesimo, o è più generale, giacché solo in quest’ultimo caso, nel momento in cui ci si addentra nel complessivo universo del volontariato, la denuncia può avere una qualche efficacia e rilevanza. Ciò che viene evidenziato, infatti, a carico della politica, e in questo caso a carico della Regione lombarda, è un malcostume noto e diffuso: “Pubblicizza bandi e appalti tardi perché un comune mortale possa usufruirne, e prima della scadenza convoca le associazioni amiche per decidere le parti.”; così pure il traffico ininterrotto di bustarelle, contropartite e quant’altro, rappresenta un illecito che l’operazione Mani Pulite non è riuscita, come è risaputo, a debellare. L’interesse più innovativo del libro, pertanto, sta nell’indagine sul volontariato, quand’esso però non si limiti ad una denuncia di parte. Guai, infatti, ad imputare ad una parte il tutto: “ha conosciuto il partito dei cattolici e ha fatto la sua fortuna.” Ne scaturirebbe un limite che inficerebbe le buone intenzioni dell’intera operazione.
Accanto di pari passo vanno avanti alcune storie di immigrazione, lo sfruttamento della donna, il consenso della famiglia che ne aspetta il guadagno, le violenze, le sopraffazioni, le vicende di Teresa, una collaboratrice del Centro, che racconta in prima persona. Anila è un’albanese che ha avuto il coraggio di denunciare i suoi sfruttatori. Il Centro l’ha presa sotto la sua custodia. Difficile metterla sulla buona strada, finché sparisce, non se ne ha più notizia. File, che è la madre, è fuggita anche lei dall’Albania, non ha una buona opinione dei suoi connazionali: “Gli albanesi non hanno la logica del lavoro. Dicono di essere figli di conti e duchi. Se hanno bisogno di una cosa, gli deve essere data, procurarsela lavorando è poco dignitoso. Il lavoro, nessuno lo cerca. Se gli viene offerto, lo prendono e poi lo mollano.”
Il Centro, attraverso le disgrazie degli altri, è un’occasione d’oro per alcuni: “Siamo o non siamo quelli che fanno soldi con gli sfigati?” Il Centro è un business: “Prima andavano forte i tossici, adesso non più. Idem per i malati di Aids – a che scopo costruire case per loro? Anche gli stranieri ormai non tirano, li bruceranno tutti. Bisogna pensare alla nuova frontiera del volontariato: i ragazzi di strada, gli anziani, le donne maltrattate.” È un business soprattutto per il Presidente che, personaggio a tutto tondo (ha sposato la moglie “perché aveva capito che con lei non avrebbe avuto problemi”), è riuscito ad accollarsi vari incarichi (perfino la presidenza di una finanziaria che gli concede prestiti) che gli consentono di accumulare soldi e di comprarsi case in luoghi ameni: “Poi ha comprato nel centro di Milano una casa di duecento metri quadrati. Possiede inoltre una casa a Lipari e una a Rapallo.”
Il lato grottesco della sua personalità sta nel fatto che lui gli extracomunitari non può neppure vederli. Dice alla sua collaboratrice Teresa: “Guarda che io sto parlando seriamente, io sono per le crociate.”
Qualcuno cerca anche di approfittare sessualmente delle ragazze che si presentano al Centro: “Cominciava con una domanda, una carezza, prometteva favori e qualcuna che ci stesse la trovava. Facevano sesso in uno sgabuzzino. Si sapeva, eccome!”
Ne esce una raffigurazione squallida di un’attività che avrebbe tutt’altro fine. L’altruismo, la bontà, la generosità, la carità, l’amore, si sono trasformati in vizio e corruzione.
Si prova sgomento. Si resta increduli. Ed anche se poi assistiamo alla tenera storia di Teresa, che aspetta un figlio da un albanese tornato in Patria e decide di tenerlo (l’unica ad avere la vocazione giusta per lavorare al Centro), l’ambiente disegnato da Morale lascia l’amaro in bocca. Il volontariato ne esce scornato.
Ciò che resta esaltante e luminosa, sempre, è la scrittura, scarna ma efficace, precisa, graffiante. Lo era anche in “Paulu Piulu”, ma qui la materia è più ostica, la trama più composita, e perciò più intrigante la sfida. Si può dire che, dopo questa prova, Morale sarà sempre pronto a darci il meglio di sé.
La storia di Teresa è quella che evidenzia più di ogni altra i vari timbri della scrittura, le modulazioni quasi musicali dei sentimenti. Il lettore vi si adagia come per una lenta ascesa spirituale: “Ieri sera sono rimasta a casa. Una giornata così buia, come se non fosse mai nata. Stavo accucciata, lasciando che il calore che saliva dal letto lottasse col freddo che avanzava con la sera. Via via che il buio aumentava, la musica cresceva d’intensità. Una fiammella nella notte. Mi sono addormentata così, con la radio accesa. Stufa del vis à vis con lo schermo. Non aspettavo nessuno. A tratti mi destavo indovinando la pioggia nello spessore della notte.”
Anche il ritratto della madre di Teresa, una donna ancora orgogliosa di sé, resistente alle sconfitte della vita, fermamente legata al passato, merita una speciale attenzione: “Cova con gli occhi la sua catasta di legna, serbandola per un’emergenza. Quando ha freddo va a letto. Se non prende sonno, è di nuovo in piedi: si fa scaldare un latte e siede davanti alla tv.”
La vicenda di Teresa, nata da una relazione favorita dal suo lavoro, si distacca a poco a poco da quella del Centro, fino a contrapporvisi. Teresa si domanda come i suoi compagni di lavoro preghino: “O forse è ancora peggio, pregano come prima e fanno finta di niente.” La sua storia va letta come una risposta al male, che non può invadere e soffocare ogni cosa. Teresa lascerà il Centro, a significare che il bene non viene mai sconfitto del tutto; quando meno lo si aspetti, ecco che compare con tutta la sua forza a donarci di nuovo la luce. Il figlio appena nato di Teresa è quella luce: “Una volta nato, mi basta lui. Rannicchiato, gambe incrociate, manine chiuse, sfumature azzurrine. È fatto giusto per il mio braccio, per la mia mano.”
Infatti, non è un caso che, mentre in Teresa s’accresce la luce, il Centro inizia la sua disgregazione.