Gioiello rivelatore.
di
Cordelia
tempo di lettura: 20 minuti
Perchè aveva sposato il signor Cristoforo Zuccoli? ecco quello che si domandava la piccola Fania.
Un brav’uomo, non c’è dubbio, un cuor d’oro, intelligente, studioso a modo suo, ma non era il suo tipo, e poi veramente, nella sua testolina sventata, aveva sognato il matrimonio tutto diverso da quello che lo aveva trovato in realtà.
Come si fosse lasciata persuadere a pronunciare davanti al Sindaco il sì fatale, che doveva legarla a lui indissolubilmente, era ciò che non riusciva a spiegarsi.
Almeno fosse stata una signorina impaziente di trovar marito! ma niente affatto, viveva contenta e spensierata col padre impiegato alla ferrovia e con due zie che avrebbero fatta moneta falsa per contentarla. Aveva molte amiche; e un cugino, Giacomino, che studiava all’Università e veniva qualche volta coi compagni a giuocare alla tombola e far quattro salti; se era di carnevale, ed essa si divertiva tanto, che non si sarebbe scambiata per una regina.
Le zie erano state le vere colpevoli. Avevano voluto condurla in campagna per divertirla, e così aveva fatto la conoscenza del signor Zuccoli, che villeggiava nelle vicinanze. Il signor Zuccoli era molto ingegnoso; fabbricava delle macchine divertenti, e voleva fare degli esperimenti per inventare i palloni dirigibili. Intanto si contentava di fabbricare farfalline, uccelletti meccanici che volavano e cantavano, e gli riuscivano abbastanza al naturale. Fania si divertiva con quegli oggetti, come se fossero balocchi; le zie poi erano entusiaste della loro nuova conoscenza, e non facevano che tesserne gli elogi alla nipote.
— Pare che tu gli vada a genio, —dicevano, — se potessi riuscire ad innamorarlo e ti sposasse, che bella cosa!
— Perchè? non ho bisogno di sposarmi, sono contenta così.
— Ma non capisci nulla, nipotina; ora ci siamo noi colla nostra pensione, c’è tuo padre, ma non si vive sempre, e dopo che cosa succederebbe di te?
— Cercherei marito, allora.
— Al giorno d’oggi, una ragazza senza dote non trova quando vuole…. guai a lasciarsi sfuggire le buone occasioni; noi parliamo per esperienza.
— Ebbene, resterei zitella.
— Anche zitella bisogna vivere, e tu sei carina, ma, se dovessi guadagnarti da vivere, povera te, non sappiamo che cosa potresti fare.
— È vero, avete ragione, so un po’ di tutto, ma da dilettante; sono un uccellino irrequieto, mi piace divertirmi senza pensare a nulla; però potrei fare l’artista drammatica.
— È meglio un buon marito — sentenziò la zia Gina, — e il signor Cristoforo è buono, ricco e simpatico, è un giovane che ci piace e sarebbe una fortuna.
— Giovane!
E Fania diede in una risata.
— È forse vecchio? Avrà appena trent’anni, — disse la zia Amalia.
— A me sembra un vecchio con quegli occhiali e quel naso.
— Sei proprio una bimba! In un marito preme la mente, il cuore, i quattrini, e questi più di tutto; perchè non si vive di poesia, pensaci, dà retta a me, non lasciartelo scappare.
Veramente Fania non ci pensava molto, ma era invece il signor Zuccoli che cercava tutte le occasioni per vederla.
Ogni giorno le portava qualche nuovo oggetto fabbricato colle sue mani: erano graziose barchette che andavano a tutto vapore, molini in miniatura che macinavano il grano, lampadine elettriche tascabili, e tanti altri gingilli curiosi che apportavano un diversivo alla monotonia della vita campestre. Fania per mostrargli la sua riconoscenza gli porgeva un fiore da mettere all’occhiello, e ciò lo incoraggiava a dirle qualche parola graziosa che la faceva sorridere, mentre le zie si davano delle occhiate espressive che significavano:
— Siamo a buon porto, è una cosa che si combina.
E proprio come s’era combinato non avrebbe potuto dirlo nemmeno lei. Era stata quasi una congiura.
Le zie la lasciavano spesso sola col signor Cristoforo, il quale era timido e parlava poco, ma gli piaceva starle vicino, tenerle la mano, e quando essa scappava in giardino le correva dietro come un cane fedele.
Una sera egli le disse che avrebbe desiderato gli domandasse qualche cosa di difficile, per mettere alla prova la sua devozione.
— E s’io chiedessi la luna? — essa rispose.
— Mi metterei subito a fabbricare un pallone così potente da andare a conquistarla.
Fania rispose con una sonora risata, quando Cristoforo chiese se sarebbe stata contenta d’andar sola con lui in un pallone in mezzo agli astri.
— Io no, — rispose, — avrei paura.
Rimase avvilito e non parlò più per tutta la sera.
Un’altra volta la prese per un braccio per farla sedere sopra una panca in un boschetto appartato, ed essa scappò via in modo un po’ dispettoso. Egli se ne risentì e scrisse un biglietto per congedarsi, ciò che mise la rivoluzione nell’anima delle zie.
— Ecco, — dicevano, — non sei stata gentile e l’hai disgustato, non troverai più un partito come quello, bisogna non lasciarlo partire.
Veramente, anche a Fania, che aveva preso l’abitudine di vederlo tutti i giorni, rincresceva che la loro amicizia venisse troncata così bruscamente, ma non sarebbe mai andata a pregarlo per farlo rimanere.
Come avvenne? non lo sapeva, ma per caso s’incontrarono alla Posta; si salutarono, si scambiarono qualche parola e la conclusione fu che il signor Zuccoli non partì più per quel giorno, e dopo due settimane partirono tutti insieme, e la piccola Fania si trovò fidanzata al signor Cristoforo.
⁂
Per qualche tempo visse come in un mondo fantastico: regali, vesti eleganti, biancherie vaporose adorne di merletti, ricami, fiori, augurii; poi un bel giorno indossò una veste bianca coi fiori d’arancio, poi un elegante vestito da viaggio e via col signor Zuccoli; ma invece che un’aereonave fu un semplice automobile che la portò lontano lontano.
Quello che le parve un vero capitombolo, fu quando si trovò a casa sua ed il signor Cristoforo, Cristofino come s’era abituata a chiamarlo per ingentilirne il nome, riprese le consuete occupazioni, e si trovò sola, obbligata a pensare al governo della casa.
Il signor Zuccoli era un tipo alquanto originale. Rimasto solo, giovane, e ricco, si era lasciato vincere dalla passione per la meccanica, ed occupava tutte le sue giornate facendo calcoli, combinando congegni, fabbricando piccoli meccanismi.
Egli aveva la bizzarria di copiare, in piccolo, tutte le scoperte moderne; sarebbe stato l’inventore degno del regno di Lilliput; così avea fabbricato un automobile perfetto, che avrebbe potuto servire per una bambola, poi piccoli telefoni, telegrafi in miniatura, e stava combinando delle aereonavi piccine che poi voleva ingrandire mano mano, e così sperava di sciogliere il problema della navigazione aerea; voleva trovare il telefono senza fili e tutto ridurre in modo così minuscolo, che occupasse il minor spazio possibile; per le sue macchinette adoperava l’acciaio, l’alluminio, il nichelio, gli piacevano le cose fini e minuscole; lo sgomentavano le grandi masse di ferro, le ruote dentate e gigantesche, i grossi cilindri, e soleva dire che, quando una macchina è riuscita in piccolo non c’è nessuna ragione perchè, fatti i debiti calcoli, non debba riuscire in proporzioni maggiori. Egli si contentava di far dei modelli, ma ci teneva che riuscissero perfetti.
Eccettuata questa specie di micromania, la sua mente era d’un equilibrio perfetto come le sue macchine.
Fania, che non capiva nulla di quei meccanismi, lasciava il marito tutto il giorno occupato coi suoi calcoli, e via se n’andava continuamente in giro per la città, gustando la gioia d’esser libera, di poter passeggiare sola e d’esser chiamata signora. Rientrava all’ora del pranzo e, meravigliandosi di non trovare nulla di pronto, si metteva a piangere nel timore che il marito la sgridasse; ma se egli era di buon umore si contentava di dirle:
— Ma da che mondo vieni?
— Credevo che ci pensasse la cuoca.
— Ma se non ordini quel che desideri, come vuoi che faccia?… sei tu la padrona.
— Me n’ero dimenticata.
Improvvisavano un pranzo alla meglio con delle uova, salato e formaggio, ed erano allegri come se si trattasse d’una scampagnata. Ma quel dover tutti i giorni pensare alle cose domestiche ed ordinare il pranzo, le dava noia e si sfogava a sgridare la cuoca, finchè questa fu abbastanza intelligente per capire che dovea pensar a tutto da sè e fare un po’ da padrona, senza aspettare gli ordini di nessuno; e Fania fu contenta di non aver bisogno di seccarsi per cose così prosaiche; se poi il pranzo non era servito in tutto punto e non riusciva molto economico, non le premeva, non voleva pensare a miserie nei primi tempi del matrimonio. Poi ebbe un periodo in cui fu indisposta e non usciva più di casa, e passava le giornate sdraiata su una poltrona, e si annoiava che il marito fosse tutto il giorno colle sue macchine e non venisse a tenerle compagnia; essa decisamente si era sognata che il matrimonio fosse tutt’altra cosa.
⁂
Quando le nacque una bella bimba, volle allevarla da sè, nell’entusiasmo del primo momento, le pareva una bambolina che le servisse di giocattolo, ma dopo tre mesi la sua salute si era rinvigorita, la vita le era tornata snella ed elegante, e ricominciò ad uscire per andar dalla sarta per vestir bene e godere la primavera che s’annunziava piena di tepori e di profumi. Affidava la piccola Mimì alla bambinaia; le raccomandava di farle succhiare il latte dalla bottiglia perchè non piangesse, e via spensieratamente a girare per la città, o a far visite, o nelle botteghe a comprare cianciafruscole, e alla passeggiata dove spesso si trovava col cugino Giacomino, e si godeva un mondo a chiacchierare con lui, come se fosse ritornata fanciulla.
Non tornava a casa che all’ora del pranzo, e qualche volta trovava Mimì in lagrime fra le braccia del marito che non sapeva più cosa inventare per farla tacere. E sì che aveva fabbricato dei fantocci che giuocavano con palle d’oro, ed erano una meraviglia.
— Perchè non vieni mai a casa? — le diceva il marito.
Ed essa trovava una scusa o l’altra, e spesso incolpava l’orologio che non ne aveva nessuna colpa; poi faceva qualche moina a Cristoforo, il quale non aveva il coraggio di tenerle il broncio, perchè amava la sua piccola moglie, che non era buona a nulla, ma pareva un uccellino e gli rallegrava la casa.
Però qualche volta, mentre era occupato a fabbricare le sue piccole macchine, fantasticava su quello che potesse fare sua moglie tutto il giorno fuori, di casa, e se ne impensieriva e avrebbe pagato una bella somma per sapere in che modo Fania passasse tante e tante ore al punto di rientrare sempre in ritardo.
Non poteva pensar male perchè era così bimba, così ingenua, ma intanto avrebbe voluto sapere, per soddisfare la sua curiosità.
E perchè non poteva col suo ingegno fabbricare una macchinetta rivelatrice che potesse rivelargli almeno i discorsi che la moglie faceva fuori di casa? Appena questo pensiero si formò nel suo cervello, si mise subito all’opera e misteriosamente, senza dir nulla, in poche settimane riuscì a fabbricare un gingillo grazioso che offerse in dono alla moglie, un giorno che appunto era venuta a salutarlo prima di uscire, tutta elegante con un costume di panno nero che le modellava la vita sottile, e un cappellino color papavero che le incorniciava la faccia.
— Prendi, — le disse mostrandole un gingillo d’oro come un grosso orologio, tutto frastagliato in modo che si vedeva internamente un piccolo meccanismo con una sfera che girava torno torno con una rapidità meravigliosa, — è un porta fortuna che ho fatto per te…. Vieni qui, voglio appuntartelo sul vestito come un orologio.
— Oh bello! Grazie, — disse Fania, — vedremo se mi farà passare una giornata piacevole. Arrivederci.
E tutta contenta, trotterellando speditamente, prima andò dalla sarta e offerse duecento cinquanta lire d’un vestito che avea veduto il giorno prima e le stava a pennello; ma la sarta disse:
— È impossibile, lasciarlo a trecento non guadagno nulla.
— Via, via, questa volta si contenti
— Vi deve aggiungere qualche cosa
— Intanto lo mandi a casa, — disse la signora, pensando che la sarta non l’avrebbe pagata subito.
Poi andò verso la Galleria, dove tutti i giorni incontrava il cugino Giacomino, che l’accompagnò per un tratto di strada, poi le offerse di andare a prendere il tè al Biffi. Quando furono seduti ad un tavolino, incominciarono a chiacchierare allegramente e Giacomino le chiese:
— Ieri come hai passato la serata? che cosa fa “il mago Merlino?„
— Una noia. Figurati: egli mi parlava di meccanismi, di calcoli matematici; ed io non ne capivo nulla, e dormivo in piedi.
— E tu di che cosa gli parli?
— Delle mie escursioni della giornata, delle mie spese, di mode, tutte cose che egli non capisce, ma non so parlar d’altro.
— In conclusione la tua casa è la torre di Babele, la confusione delle lingue, ma però ti vuol bene.
— Sì a modo suo, ma mi persuado sempre più che non era il mio genere.
— Sentiamo, quale sarebbe stato il tuo genere?
— Per esempio un mattacchione come te. Mi pare che noi si sarebbe andati d’accordo e la vita sarebbe stata divertente.
— Credi? e perchè l’hai sposato il tuo tiranno?
— Tiranno no, è una calunnia; ma l’ho sposato perchè le zie e il babbo dicevano che era un buon partito, era ricco, e una ragazza ha bisogno di collocarsi.
— Esser ricchi è una bella cosa.
— Sì, ma a che cosa serve?… spende tutto colle sue macchine, e quando mi compro un vestito nuovo, brontola e dice che lo rovino; anzi, ricordati che oggi devo andar presto a casa perchè mi sono comprata un vestito e devo fare la donna saggia e casalinga, e tenerlo buono.
— Non dir così, rimani un pochino, si vive una volta sola, almeno si discorre.
— Non c’è gusto con questo chiasso e coll’andirivieni di gente.
— E perchè non vieni a casa mia, come ti ho proposto tante volte?
— Perchè non è conveniente.
— E chi lo sa?
— Io intanto.
— Sciocchezze; vieni, vieni che ti farò vedere tante belle cose, e poi almeno si potrà discorrere tranquillamente…. Infine siamo cugini.
— Motivo di più per non venire.
— Quanti pregiudizii hai!… E qui non è lo stesso? che cosa ci fa la gente? noi c’isoliamo come se fossimo soli.
— Siamo sempre in un luogo pubblico.
— Sei proprio una borghesuccia, temi le chiacchiere del mondo.
— Del mondo me ne rido.
— Allora hai paura del Mago Merlino.
— Non permetto che sparli del mago, è una buona pasta e non pensa che alle sue invenzioni, e mi lascia libera di fare quello che mi piace.
— Allora siamo intesi, domani vieni.
— E perchè non vieni tu da me la sera? sarebbe tanto divertente, — disse Fania.
— Ma c’è il Mago, e sai la mia opinione, mi piace godere la compagnia del marito e quella della moglie, ma separatamente.
— Sei un gran discolone.
— Dunque siamo intesi, vieni domani.
— No, no e no.
— Almeno vieni presto in Galleria.
— Farò quello che mi piacerà.
E, dandogli la manina inguantata, ch’egli strinse fra le sue in modo significante, se n’andò verso casa.
⁂
Lungo la via pensava che forse Giacomino sarebbe stato per lei un marito più piacevole, ma non avrebbe potuto comprare il vestito da trecento lire, e questo pensiero la riconciliò col Mago Merlino.
Era un po’ in ritardo, ma il marito non le disse nulla e l’accolse con aria di trionfo.
— Hai fatto qualche scoperta, scommetto, — disse Fania.
— Forse sono sul punto di farne una molto interessante; intanto dimmi: il mio porta fortuna?
— Va benissimo, ho fatto una passeggiata molto divertente, e mi sono comprata un nuovo vestito.
— Allora non ha portato fortuna a me, però dammelo, che ho bisogno di vedere se il movimento non si è guastato.
— Ma me lo ridai.
— Figúrati, te l’ho regalato.
Egli prese il gingillo e lo portò nella sua officina; era impaziente di vedere se la sua macchina agiva bene e se riusciva a scoprire i discorsi fatti dalla moglie.
Il gioiello conteneva un fonografo in miniatura, e lo Zuccoli ne tolse una membrana metallica tutta sparsa di segni invisibili e l’applicò ad uno strumento che dovea riprodurre i suoni segnati su quel disco.
Le sue mani tremavano, mentre montava la macchinetta, e stette attento senza fiatare.
Da principio uscì dalla macchina un brontolìo incomprensibile, poi udì distintamente i dibattiti colla sarta, e i discorsi che Fania avea fatto con Giacomino.
Ogni tanto dava qualche esclamazione.
— Ah birbante! — diceva, — glielo darò io il Mago Merlino!… ah non sono il suo genere, e non mi diceva nulla!… meno male che non ha accettato di andare a casa sua.
Questo pensiero lo consolava, ma gli pareva che la moglie fosse stata sull’orlo d’un abisso.
Gli passò pel capo di rimettere una piastrina nel porta fortuna e ricominciare il giorno dopo quel medesimo giuoco, ma poi pensò che, se non parlava, gli sarebbe sembrato di scoppiare. Bisognava venir subito ad una spiegazione; era meglio.
Appena si trovò seduto a tavola colla moglie, le chiese:
— Dunque si può sapere chi hai veduto quest’oggi?
— Te l’ho detto, la sarta.
— E poi?
— Poi ho incontrato Giacomino, ma per pochi minuti.
— Sei sincera per metà soltanto, perchè invece so che hai fatto una lunga conversazione.
— Chi te l’ha detto?
— So tutto.
— Sei un mago allora.
— Sì, il Mago Merlino.
Fania si sentì salir le fiamme alla faccia e tutta confusa non poteva rispondere.
Il marito si mise a ripetere parola per parola tutta la conversazione da lei avuta con Giacomino, dicendole che non voleva farle rimproveri, ma che desiderava evitasse d’incontrarsi col cugino. Essa era sorpresa e voleva sapere; poi un’idea si affacciò come un lampo alla sua mente.
— Ah, il porta fortuna!
— Proprio, è lui il colpevole, — disse Cristoforo.
Fania volle vedere come faceva, e quando mise in movimento un piccolo gramofono, ed essa udì uscirne la propria voce, e parola per parola la conversazione fatta alla mattina, disse ch’era un meccanismo meraviglioso e che riguardava il marito un vero mago.
— Però, in conclusione, — soggiunse, — non mi sono poi condotta male, ma ora sta’ certo che calcolerò che tu sia sempre presente a me, non mi lascerò più andare a dir sciocchezze e nemmeno uscirò molto di casa; voglio assistere alla fabbrica delle tue macchine che incominciano ad interessarmi.
— Meno male che questa volta hanno servito a qualche cosa; dunque resterai a casa?
— Non mi tieni il broncio, se ti chiedo una cosa strana? — chiese Fania.
— Andiamo, che cosa desideri? Sai che sono un po’ in collera con te.
— Vorrei dare uno di quei porta fortuna a Giacomino, per sapere con chi si trova tutto il giorno, se è vero che studia sempre come dice.
— Questo Giacomino mi dà noia, — rispose il marito, e, dopo aver riflettuto in silenzio, soggiunse: — però non è una cattiva idea, per un giorno solo ti permetterò di prestargli il porta fortuna, ma come si fa?
— Domani vado ad incontrarlo e con una scusa glielo affibbio. Lascia pensare a me.
— Cominciamo male, tu vuoi rivederlo.
— Soltanto per pochi minuti, per lasciargli il gingillo.
— Posso fidarmi?
— Non ho nelle mani il gioiello rivelatore?
— E ritornerai subito? Bada, starò coll’orologio in mano.
Fania lo rassicurò, come sapeva fare quando voleva esser gentile, e il giorno dopo tutta contenta andò col gioiello rivelatore ad incontrare il cugino.
Appena la vide, egli le si avvicinò sorridente e le disse:
— Vieni a casa mia quest’oggi?
— Ti pare? Ho invece molta fretta; figurati che devo andare dalla sarta.
— Almeno verrai a prendere un bicchierino di vermouth.
— Ma in fretta, ti concedo cinque minuti.
Quando furono nella prima pasticceria che trovarono sulla loro strada, essa disse:
— Figurati, mi annoia molto andar dalla sarta, dovermi svestire, con tanti impicci che abbiamo noi signore. Anzi vorresti tenermi questo gingillo? — disse staccandosi il porta fortuna, — mi preme molto e noi, quando si prova un vestito, si ha la testa tanto occupata e si dimentica facilmente i nostri oggetti; ho perduto una spilla l’altra settimana.
— Se non vuoi altro, anzi! sarò felice di aver qualche cosa di tuo sulla mia persona.
— Ecco qui, attaccato alla catenella dell’orologio, pare una medaglia, sta bene; domani me lo restituisci, non è vero?
— Ti do la mia parola.
— Sai, è un regalo di mio marito, poi porta fortuna.
— Se intanto oggi mi portasse centomila lire, bada che non te lo renderei più.
— Hai sempre voglia di scherzare, ma scappo, altrimenti perdo il mio turno: a rivederci domani.
E via difilata a casa tutta lieta, pensando alla burla che faceva al cugino, e disse al marito:
— Dimmi brava; vedi come sono tornata presto, nemmeno mezz’ora sono stata. E domani devo fare lo stesso per riprendermi il gioiello; ti prometto che ritornerò presto.
— Domani sarai spinta dalla curiosità di sapere, non ho bisogno di farti raccomandazioni.
Ma il giorno dopo quando Fania andò ad incontrare il cugino e gli chiese il suo gingillo, egli le rispose:
— L’ho lasciato a casa, vieni a prenderlo.
— Venire a casa? ma è un tradimento! voglio il mio porta fortuna.
Fania supplicò colle lagrime agli occhi, ma Giacomino non si lasciò commuovere; che poteva fare la piccola Fania?
Corse in fretta a casa ed entrò nello studio del marito colla faccia stravolta.
— Che contrarietà! — esclamò. — Come me l’ha fatta!
— Ma che è accaduto, si può sapere?
— Non mi vuol restituire il porta fortuna, vuole che vada a prenderlo a casa sua; come sono stata sciocca, ma lo voglio, andiamo insieme a prenderlo.
— Ti pare? se lo vedo il tuo Giacomino, gli do uno schiaffo, — disse il signor Zuccoli, — mi è diventato antipatico.
— E allora come si fa? Gli scrivo.
— No, gli scriverò io.
— Sì subito, con preghiera di consegnare al latore il porta fortuna, — disse Fania, — e se non vuol darlo?
— Se vuol tenerlo in ostaggio perchè tu vada a prenderlo, diremo al mio aiutante di portare il meccanismo interno perchè io devo introdurvi un’innovazione…. Già è quello che ti preme, l’involucro glielo lascieremo per ricordo.
— È naturale, non vado certo a prendermelo.
Così fecero e il messaggero non portò il gioiello, ma il meccanismo interno.
⁂
Fania era impaziente di mettere nel gramofono il disco pieno di segni cabalistici.
E, messo a posto il disco, stettero intenti ad ascoltare.
Prima Fania sentì la propria voce quando pregava Giacomino di tenerle il gingillo.
— Brava, — disse Cristoforo, — ben trovato.
Poi si udì qualche rumore confuso e la voce di un amico che, dopo averlo salutato, gli disse:
— Come! libero? e la tua dama?
— Oggi mi ha lasciato, questioni di abbigliamento.
— E sei a buon punto?
— Se volessi, ma non mi preme, mi diverto così per passatempo, e poi perchè mi dà importanza mostrarmi con una signora della buona società.
— Anche tu fai come la volpe.
— Non è vero, non è il mio tipo; è graziosa, ma è una sciocchina, buona per passare un’ora.
— E l’altra, l’artista come va?
— Quella sì è un boccone saporito, passerò là a momenti.
— Ma non sei solo ad avere i suoi favori.
— Tu come sai? Per tua regola, non vado mai ad approfondire troppo le cose, poi parli per invidia.
— Al caso, io starei per tua cugina, se la cedi.
— Che c’entro io, non è mia, ma in paragone all’altra è come una tazza di latte paragonata ad una coppa di champagne.
— Il latte è una bibita sana.
— Ma ti annoia e poi calma i nervi, mi può servire appena per un di più;… ma addio, vado a prendere un bicchiere di champagne.
Una pausa, dei rumori confusi, poi di nuovo la voce di Giacomino e una voce di donna.
— Luisa, come va?
— Non ti aspettavo a quest’ora.
— Ero impaziente di vederti.
— Bugiardo! La tua dama ti avrà lasciato in libertà!
— Non ho dame, sei tu sola nella mia vita.
— E quella colla quale passeggi?
— Quella non conta, una parente, poi è insipida, non c’è sugo.
— Davvero?
— Ti giuro. Ma lo sai che, quando si è avvolti nelle tue spire, non se n’esce.
— Sono un serpente.
— Forse!
— E allora lascia che ti avvolga nelle mie spire, e bada, ti strozzerò.
— Finirai per andare in prigione.
E una grande risata, poi più nulla.
— Oh, che birbante! — disse Fania, — è così che studia tutto il giorno, ed ora non si sente più nulla, che cos’è successo? s’è guastato.
— Non mi pare, si sarà fermato, oppure l’avrà deposto in un’altra camera.
— Vuol dire che si sarà tolta la catena, — disse Fania.
— Che cosa ti preme? non hai inteso abbastanza?
— Fin troppo! non voglio più vederlo.
— E farai benissimo.
— Ma prima voglio fargli sapere che ho tutto scoperto.
— Non c’è bisogno: che cosa t’importa di lui, se non vuoi vederlo? Non ti basto io?
— Sì, sì, caro Cristoforo, tu sei buono, e poi sei non un mago, ma un genio; ti ammiro; ma voglio dir qualche cosa a Giacomino, altrimenti scoppio. Ho trovato, lo chiamo al telefono.
Drin, drin, drin.
— Pronti.
— Giacomino.
— Sono io.
— Sono Fania. Ti lascio l’involucro del porta fortuna per memoria, perchè non ci rivedremo mai più.
— Come! non verrai nemmeno a passeggio?
— No, sono troppo sciocchina, insipida; resto col Mago Merlino che mi apprezza meglio di te.
— Non è vero, sei adorabile, rallegri la mia esistenza, vieni.
— No, non mi fai compassione; la Luisa ti consolerà; il latte è una bibita troppo insipida, ci vuole del vino di Sciampagna. Addio per sempre, buon champagne.
Drin, drin, drin; il campanello continuava a suonare, ma Fania tolse la comunicazione, e andò a sedere vicino al marito.
— Ora sono tutta per te, — disse, — non uscirò più di casa, imparerò anch’io a fabbricare dei meccanismi.
— Ti pare? con quelle manine, non lo permetterò.
— E che cosa farò della mia vita?
— Non rinuncerai alle tue abitudini; vuol dire che sarò io il tuo cavaliere, andremo insieme dal pasticciere.
— Come, tu lasceresti il tuo lavoro?
— C’è tempo per tutto, ed ho capito che, quando si ha una moglie graziosa e carina come te, bisogna dedicarle un po’ di tempo. Finora sono stato troppo egoista.
— Caro il mio mago, il mio Cristoforo, quanto sei buono! — disse gettandogli le braccia al collo. — E pensare che non me n’ero mai accorta del genio che avevo per marito!… ci voleva proprio il gioiello rivelatore!…
Fine.
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TITOLO: Gioiello rivelatore
AUTORE: Cordelia
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Verso il mistero : novelle / Cordelia. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 390 p. ; 19 cm.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici