Solus ad solamÈ un’opera poco conosciuta e postuma (l’autore era morto un anno prima, il 1 marzo 1938), che narra la tragica storia d’amore, iniziata nel 1906, tra l’autore e una donna sposata, la contessa Giuseppina Giorgi Mancini, chiamata Giusini («o Giusini dolce»), che comparirà ne «Le faville del maglio», tomo I, Treves, pagg. 636-653, con il nome di Amaranta. A lei dedicherà «La Nave» e a lei parteciperà le nuove opere composte sotto l’influenza del suo amore. Dopo vari indugi la sua amata, infatti, cederà al suo ostinato e assiduo corteggiamento in un giorno che D’Annunzio non dimenticherà mai più, e menzionerà continuamente nelle lettere all’amata: l’11 febbraio 1907, quando si trovavano nella villa La Capponcina, sita sul colle di Settignano in Firenze («l’Eremo sul colle di Settignano»), che il poeta aveva preso in affitto al tempo del suo amore per Eleonora Duse, finito nel 1904: «Ti ricordi della sera di febbraio? Era un lunedì, come oggi: era il giorno della luna nuova, l’undicesimo del mese. Eravamo stati nel ‘piccolo giardino’. E, finalmente, dopo tanto diniego, dopo tanta lotta, io t’avevo presa su i cuscini verdi; ma tu, nel tuo sbigottimento parevi inconscia.» L’opera destinata a ricordare questa sua passione e da cui è stato tratto il brano è, appunto, «Solus ad solam», composta dall’8 settembre al 5 ottobre del 1908, quando la interruppe poiché «l’amarezza mi soffocò». Essa fu portata a conoscenza della Giusini dallo stesso D’Annunzio in una lettera dell’11 novembre 1911, e a lei il poeta consegnò l’autografo a Roma il 26 maggio 1915, prima di partire per la guerra. Sarà Giusini ad autorizzarne, dopo la morte dell’autore, la pubblicazione.

La scrittura che vi s’incontra paga il pedaggio al tempo, lacrimosa, edulcorata; tuttavia, come fa notare la prefatrice, rappresenta una delle rare occasioni in cui si possano incontrare e riconoscere i sentimenti dell’autore. Egli è talmente affranto per la sua amata, che non li nasconde e non li domina, come avviene altrove.

D’Annunzio ha poco più di trent’anni (era nato il 12 marzo 1863), sa che l’amore della donna è conteso dalla sua condizione di moglie attesa nella sua casa. Spesso gli dichiara che deve tornare dal marito; teme di trovare, se la sera è troppo tardi, la porta sbarrata. A nulla vale la richiesta incalzante di lui di restare a vivere nella sua casa: «Chi ha mai posseduto una creatura umana come tu la possedevi? Non v’era un atomo che non ti appartenesse, in tutto il mio essere.»

Per solo dieci minuti, Gabri (così è chiamato dalla Giusini), arriva tardi ad un appuntamento (è la sera del 7 settembre 1908: «la sera della follia») e viene a sapere che la donna è stata condotta via da due uomini che indossavano una divisa. Che cosa può essere mai accaduto? Si mette alla sua ricerca, facendosi aiutare da un amico, Francesco. Niente: «Dov’eri? Dov’eri?»

Il diario ha la forza di un romanzo; i suoi ritmi coinvolgono il lettore. Dei due sconosciuti si viene a sapere che in realtà non erano affatto agenti di questura. E allora? Li ha mandati il marito, il conte Lorenzo Mancini? Si ha subito la sensazione di un rapporto d’amore tenebroso e contrastato. Lei è una debole amante; in una lettera del 31 agosto 1908 D’Annunzio le scrive: «non ho avuto se non una sola pena: quella di sentirti sempre esitante» (la parola esitante è addirittura sottolineata); lui, al contrario, non riesce a tenere a freno la sua passione. Nella stessa lettera del 31 agosto scrive: «stamani ho guardato più volte il mio revolver con un senso di liberazione.» E ancora: «Ricordati che dinanzi all’altare del Crocifisso di San Francesco, noi ci siamo sposati.» Si riferisce al loro viaggio a Perugia («Perugia, coronata di lune elettriche, splendeva sul colle») e pure qui le parole noi ci siamo sposati sono sottolineate.

Quella sera del 7 settembre, lei in mezzo alla strada, ancora incerta se recarsi all’appuntamento o tornare a casa, quei due sconosciuti l’hanno costretta a salire in carrozza e ricondotta al suo palazzo di via Benci, in Firenze. L’episodio ottenebra la mente della donna. D’Annunzio è informato del suo triste stato dal dottor Nesti, il medico di famiglia della poveretta. Non sa cosa fare per aiutarla. Scrive perfino al padre di lei, giunto a Firenze non appena venuto a sapere del fatto tragico.

Siamo negli anni in cui l’amore extraconiugale si doveva consumare nel buio, nel segreto delle alcove. Venuto alla luce, non v’era scampo per l’adultera e la società la metteva al bando.

L’opera mette drammaticamente in risalto questo aspetto doloroso del tempo, e il travaglio di coloro che ne erano coinvolti.

La donna poteva arrivare, come accade alla Giusini, a rasentare la follia. Una moderna lapidazione, un’agonia che durava tutta la vita. Oggi appare una vicenda davvero lontana, un reperto storico dei costumi: «l’amore non fu tanto grande da liberarla dei pregiudizi mondani», scrive un’amica del poeta, Maria Votruba.

D’Annunzio si adopera perché la Giusini non venga rinchiusa in manicomio. Il medico Eugenio Tanzi lo rassicura che «riacquisterà la ragione, guarirà in tempo non lungo.» Apprende che l’amata nel suo delirio lo considera un «nemico mortale» («non soltanto l’amore è morto ma s’è mutato in odio»), ha bruciato le sue lettere d’amore («Così potessimo bruciare chi le scrisse», inveisce una domestica della donna); il poeta fa di tutto per poterla vedere, ma il padre si oppone tenacemente.

Allorché dalla casa maritale viene trasferita nella casa del padre, in via Cherubini, non lontana dalla abitazione di D’Annunzio, questi più di una volta deposita sul davanzale di una finestra dei mazzi di ciclamini, che non giungono mai a destinazione. Non riesce a nascondere che, se ella l’avesse seguito, «di ritorno da Perugia», alla Versiliana, dove era ospite del conte Digerini Nuti «Ora saremmo felici, disdegnando tutto il resto: saremmo felici in una chiara villa sul Tirreno, coi nostri cavalli, coi nostri cani, con tutte le cose che amiamo, congiunti per sempre.»

Quando sente nostalgia della Versilia scrive: «Profumo della Versilia, fatto di pini, d’acque incanalate, di ginepri, di cuora, di alghe, qual profondità tu davi al mio respiro! Lunghe giornate di lavoro in cui non avevo se non una sola angoscia ma divina: l’angoscia della sovrabbondanza, l’ansia di scegliere fra troppe ricchezze! Ebbrezza del cervello, ebbrezza delle ossa e dei muscoli! Galoppi furibondi su la sabbia elastica ove erano le tracce delicate dell’onda ritratta, delicate come le righe dentro le fauci dei miei levrieri!» Troveremo altro spazio per la Versiliana in una delle lettere, quella pubblicata con la data 5 luglio 1906.

D’Annunzio ama andare a cavallo e portare con sé i suoi cani. Anche nell’Eremo di Settignano: «Rimonto a cavallo dopo circa tre mesi. Monto il buon Malatesta, il fedele, il sicuro. [ […]] Cavalco per le colline. Il respiro dell’autunno è nell’aria. La malinconia fumiga dalla terra bruna. Le piccole olive verdi mi sfiorano il viso, mentre passo lungo i poderi murati.»

È il D’annunzio migliore, libero dall’impeto e dallo strazio dei sentimenti. Il diario esprime il suo valore nei momenti in cui il poeta si libera del suo smarrimento e si guarda intorno. I luoghi in cui è stato con l’amata, Firenze in modo speciale, ne sono esaltati: «Cade l’ombra azzurra su la conca dell’Arno. Firenze è sotto un cumulo di cenere sfavillante. Cominciano a suonare le campane dell’Ave.»

Fa eccezione il ricordo di un’amica malata di un tumore ovarico, la marchesa di Rudinì, evocato sotto la data del 27 settembre 1908. La prosa è contenuta, il sentimento vi scorre lenito forse dal tempo trascorso: «Qui in questa casa, or è quasi quattro anni, vissi per mesi e mesi al capezzale di un’amica malata del più feroce male che possa devastare il grembo di una donna.»

Il libro si chiude con la pubblicazione di alcune lettere che D’Annunzio scrisse alla Giusini. Sono lettere da cui si scorge il fiorire a poco a poco di un rapporto più intimo. Il marito è nominato semplicemente con una L. Ci sono anche lettere indirizzate al dottor Nesti, medico curante della famiglia della contessa. Queste sono in sintonia con la disperazione del diario, e sono datate a partire da quel 7 settembre 1908 allorché la donna fu raccolta in strada dai due sconosciuti.

Giusini recupererà la salute mentale nel 1911. A quel punto si riavvia una corrispondenza tra i due. Alcune lettere di D’Annunzio sono riportate a partire dalla data del 10 novembre 1911. A poco a poco esse si accendono della vecchia passione, rievocando i giorni del loro amore: «E che darei stasera per averti qui, per cenare con te su quel divano come sul divano di lassù, quando le tue ginocchia erano coperte di rose sfogliate.»; «Tu sei stata veramente l’ultima mia febbre. Ora bisogna ch’io mi prepari a morire.» E ancora: «Ma tu sai che nella notte di Bùccari pensai a te; e a te penso molto spesso, con malinconia, con rimpianto, e talvolta perfino con speranza.» Nelle lettere si fa cenno al diario («giornale»), ossia a quello che diventerà poi «Solus ad solam»; «i quattro piccoli volumi che nessuno ha mai violato.» Continuerà a scriverle fino a pochi giorni prima di morire. Quel che è certo, è che fu un grande amore. Una testimonianza genuina di sofferenza e di disperazione.

D’Annunzio volle immortalare la sua amata nel personaggio di Isabella Inghirami del «Forse che sì, forse che no», l’ultimo romanzo che D’Annunzio scrisse, del 1910.

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