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Il romanzo, che è del 1928, porta questa dedica: «A Eleonora Duse/ che del suo genio e del suo amore/ in tutta la sua vita di esilii/ fece a se stessa alterne/ una luce di lampada/ una luce di rogo. L’idillio amoroso con la Duse era terminato nel 1904; qualche anno prima, il 1900, il poeta si era ispirato a lei nel romanzo «Il fuoco».
Devo ringraziare il prof. Giorgio Bárberi Squarotti che mi consigliò di prendere in mano questo romanzo, che considera tra i più belli di D’Annunzio.
Sin dalle prime pagine si respira un’aria insolita, infatti, prudente, compassata, rivolta all’indagine e alla riflessione. Le parole sono sapientemente misurate, le frasi trasmettono le emozioni con la serenità di una scrittura consapevole della sua forza. La vasta cultura dell’autore vi è diligentemente distillata, tale da far corpo con la narrazione: «L’anima in me è alta, sollevata da una specie di delirio stellare.»
Egli attende la visita di un lontano compagno di scuola, Dario (così lo ricorda: «pallore quasi diafano, labbra arcuate, occhi grigi senza cigli, scarsi sopraccigli, mento robusto, gote scarne, capelli fini e lisci, sopra un’alta fronte solcata di vene cerulee»), che ha vissuto in Inghilterra per molti anni ed ora ritorna in Italia perché gravemente malato di tisi. Fu il «compagno diletto». Teme però quella visita che sicuramente lo condurrà a rievocare gli anni dell’adolescenza: «Crepuscolo dell’adolescenza, pieno di musiche soffocate e di pensieri impigliati nelle vene inestricabili, come parlerò io di te?»
E infatti, il solo saperlo in arrivo, suscita in lui i primi ricordi e i primi bilanci: «La sorte ha voluto che io provassi la dolcezza dell’amicizia assai prima che quella dell’amore. Perciò m’è rimasto per tutta la vita questo rammarico insieme con quest’attesa. Di poi non ho mai conosciuto un sentimento più fresco e più franco di quello che mi riempiva il cuore quando, al rullo serale del tamburo indicante la fine delle tre lunghe ore di studio, mi levavo dalla mia tavola mentre Dario si levava dalla sua e andavamo l’uno incontro all’altro, fra il brutale clamore dei compagni, con un sorriso silenzioso, guardandoci negli occhi un poco abbagliati e stanchi dal lume della lucerna che troppo spesso faceva moccolaia.»
È, dunque, la storia di un’amicizia, così come «Solus ad solam» sarà la storia di un grande amore: «non ho mai dimenticato quel momento della nostra amicizia; che ora, nella memoria, mi splende d’una inesplicabile bellezza.»
Come toscano sono stato felicissimo di rinvenire nel romanzo parole che ho incontrato nella mia fanciullezza, come ad esempio: palanche, che sta per soldi; oppure bazza che sta per mento, o doventano che sta per diventano, per fare solo qualche esempio. La scrittura conserva, forse grazie proprio a queste parole vulgate, una freschezza cosparsa di profumi. Va annotato qualcosa di più: certe parole antiche, cadute in disuso (sentiere, vanita, addarsene, ninfolo, bastardigia, dormentorio, increscimento, carnovale, perlagione, capellatura, nudrita, candellieri, obiurgazioni, barbugliare, bisantina, orliquia, capegli, covertata, Inghilesi, affloscita, rimprocci, colmigno, oriuolo, bevero, ammansarono, perdimenti, e così via) cadono nel romanzo come gocce d’oro, tanta è la naturalezza con le quali l’autore sa collocarle nella scrittura. È una delle qualità rilevanti dell’opera. Raro trovarle così sapientemente usate e disposte presso i contemporanei. I suoi studi liceali a Prato («scolare della Cicogna»), in terra di Toscana, devono aver contribuito quasi certamente a maturare una tale sapienza: «la provvidenza di mio padre mi vietava la barbara terra d’Abruzzi finché non mi fossi intoscanito incorruttibilmente.» Del resto, uno dei suoi libri più amati e che custodiva gelosamente era la rarissima Grammatica del Padre Salvadore Corticelli: «Regole ed Osservazioni della Lingua toscana, ridotte a metodo per uso del seminario di Bologna», del 1745.
Tornando alla natura del romanzo, o meglio: ai segreti ed intimi motivi della sua ispirazione, occorre annotare che, circa le apprensioni che D’Annunzio prova alla vigilia dell’incontro con l’amico malato, egli scrive: «E fu la prima volta che mi si rivelò in confuso quel terrore della lesione improvvisa, che in certe epoche della mia vita m’ha poi così crudelmente incalzato.» Anch’egli soffrirà, infatti, nel 1916 la perdita di un occhio a causa di un atterraggio di fortuna. Aveva trascurato la ferita e questa si era infine infettata. Una tale straordinaria sensibilità e la stessa malinconia dei sentimenti che preludono all’accoglienza dell’amico, credo debbano qualcosa anche a questa dolorosa esperienza. Entrambi sono mutati; dopo vent’anni s’incontrano non più giovani, e nemmeno più integri, segnati dalla sventura: «vorrei enumerare le lesioni del tempo, esagerarle, apparirgli come un uomo esausto su cui sia sospesa la minaccia, ridiventargli compagno anche nella miseria e nella passione.» Ecco, dunque, che le gioie del passato, i ricordi dell’adolescenza, allorché era tutto un fiorire di speranze e di sogni, si ergono nel tentativo di proteggere quel poco di resistenza che rimane: «Or dietro quella tanta parte di noi sembrano andare due giovinetti a braccio, simili ai due che un giorno camminavano lungo le gore brune della campagna pratese.»
Allorché Dario giunge, e lo ha fatto accomodare su un divano «presso la finestra», nota: «Il volto è pur sempre quello, ma riscolpito dalla disperazione in una materia più trasparente.» Più avanti scriverà: «Gli occhi di Dario si velano d’una lacrima che sùbito sgorga, non avendo la palpebra cigli a trattenerla.» Attraverso Dario e attraverso i ricordi evocati insieme con lui, D’Annunzio sta percorrendo in realtà i sentieri più nascosti della sua anima: «Non esiste la vita che fu, non esiste la vita che i polsi misurano; ma qualcosa intorno a noi vige, che nessuno mai espresse, che nessuno esprimerà mai.» Sono riflessioni tormentate, a volte sembrano scontrarsi con altre, come questa, rispetto alla precedente: «Soltanto il passato e il futuro esistono; e il presente non è se non un levame per cui l’uno e l’altro fermentano. E v’ha un pianto d’uomo, ove si stempra più dolore che non ve ne infonda il piangente.» Dario è uno specchio («un tremendo specchio dalla larva di un’amicizia estinta») nel quale cerca di ritrovare e di riconoscere la propria intimità sofferente: «Gli occhi tuttavia non hanno cigli, come quelli del Bonaparte, ma sembrano pieni d’una inquietudine continua e di non so che spavento fisso.»; «Non sapevo più leggere nelle apparenze; e avevo un inquieto bisogno di leggere dentro di me, nel più profondo di me. Qualcosa di grave m’era avvenuto nel più profondo, qualcosa che mi valeva come la rivelazione della mia natura vera, della mia vera sorte.»
Prato, la città degli studi di D’Annunzio, ne esce esaltata dentro una cornice di rarefatte coloriture, intinte nella melanconia dell’autore: «Odo i battiti del mio cuore, odo i colpi sordi della mia ansia e del mio sgomento.» Il Carnevale («carnovale») e la suggestione del Duomo si mescolano in una composizione di altissima qualità: «Sul canto della piazza del Duomo, il vento era tanto rude che disperse anche la mia storia e ogni meraviglia. Salimmo al vecchio albergo del Contrucci, e ci mettemmo a una finestra per veder passare il corteo di Berlingaccio. Su la piazza ventosa l’aria era così tersa che ci pareva di poter prendere per mano un de’ putti del pergamo e condurre con lo stuolo il ballo tondo.»
Il timbro dei ricordi è tale che si potrebbe dire che nel romanzo si combatta la battaglia della vita contro la morte («l’occulto fragore della morte»), del rigoglio della speranza contro la marcescenza della fine: «Non so perché, io già sapevo che il mio destino era il più forte e che dovevo esigere dai miei prossimi la devozione cieca e l’intero dono.»
Il padre è consapevole della forte personalità del figlio: «Spirito tirannico quant’altri mai, egli aveva da tempo abdicata la sua autorità sopra me, solo attento a vigilare le mie tendenze e a spiare l’ombra de’ miei sogni. Più d’una volta l’avevo veduto domare la sua natura per non contrariarmi; più d’una volta aveva udito nel suo gran corpo il fremito del sangue contenuto.»
Sarà per il Vate una figura importante della sua vita: «sino al giorno della sua morte io non cessai di sentir viva in lui la mia radice.»
L’ammirazione per Napoleone è l’espressione esaltata di una tale focosa personalità. D’Annunzio era affascinato, stregato dalle sue gesta. Ne parla a lungo rammemorando episodi della sua vita. Perfino i suoi cavalli: Wagram, Tauris, L’ Intendan («che Napoleone non montava se non per fare le sue solenni entrate di vittorioso.»), Roitelet. Così lo ricorda in groppa a quest’ultimo: «il sauro era stato spinto dal cavaliere sopra un granata in punto di scoppiare ed era escito incolume dalla nuvola di fumo e di fiamma con in sella il dio sorridente tra il clamore dei soldati ebri.» Viene in mente Victor Hugo che ne «I miserabili» dedica pagine superbe alla battaglia di Waterloo.
Il padre acquista gli otto volumi della «Storia di Napoleone» di P. M. Laurent de l’Ardéche, e a lui pare di essere in paradiso, Ne beve con gli occhi le illustrazioni, insieme con l’amico Dario: «ricomponemmo con la nostra fantasia tutta la gesta, indugiandoci sopra gli argini dell’Adige, negli stagni della pianura veronese, fra le canne stroncate dal piombo austriaco, ove il giovine eroe dalla gota macra e dalla capellatura liscia ci appariva svelto e pieghevole come un leopardo.»
È l’occasione per ricordare quando al collegio (il convitto Cicognini) giocavano alla guerra, imitando i tempi del Terrore e della ghigliottina: esaltate descrizioni («esaltazioni eroiche») di ragazzi che non avevano altri pensieri che quelli suscitati dallo studio, a tal punto che la storia appresa sui libri si faceva nelle loro mani cosa viva: «Ah, questo Robespierre è insaziabile!»
I ricordi, infatti, si alimentano vigorosamente di tali studi. I libri diventano protagonisti non secondari della vita di D’Annunzio, radicandosi nella sua mente in maniera tale che i personaggi da essi evocati si trasformano in carne ed ossa alla stregua dei suoi compagni di collegio. Un esempio fra i tanti è il Modenese (notevole il ritratto: «un povero figliolo scialbo e di scarso ingegno, una specie di ravanello bianchiccio, niente altro che linfa stagnante. Aveva i capelli deboli e mal piantati sopra un cranio a pan di zucchero, non bruni né biondi ma d’un color di talpa; gli occhi chiarissimi come quelli degli albini, tra gli orli della congiuntiva arrossati; il naso per solito untuoso e punteggiato di nero; la bocca un poco aperta, col labbro superiore sporgente.»), il quale s’immedesima a tal punto nel re Carlo I Stuart (fatto decapitare il 30 gennaio 1649 da Oliver Cromwell) da rasentare la follia.
Ma le rievocazioni di D’Annunzio sono numerose; non dimentica nemmeno l’infermiere Cice, dal «capo di bue», né il bidello Carmagnino, che gliele dava vinte tutte; eppure il poeta aveva l’argento vivo addosso e non sarebbe stato male mettergli un freno: «vivevo solo pel divino piacere di rompere il divieto, facevo d’ogni mio giorno un gioco appassionato d’astuzia e d’audacia».
Dario è lì che ascolta, parla raramente; è diventato una figura senza corpo; il suo corpo e la sua voce sono quelli di D’Annunzio: «Te ne ricordi?», «Te ne rammenti?», gli si rivolgerà ogni tanto il poeta.
Attenzione, però: non si faccia l’errore di considerare quest’opera un libro di ricordi; è un libro, invece, che ci insegna come ricordare. Valga per tutti la rievocazione di un nido di rondine pellegrina, che comincia con quel bel: «Pendeva dalla rocca un nido non somigliante ad alcuno di quelli che tante volte avevo osservato nelle cornici della mia casa paterna e sotto le arcate della scuderia e della cantina, costrutti con la terra cretosa delle mie rive natali.»
I ricordi non sono mai fini a se stessi. Le riflessioni che li accompagnano sono chiavi che aprono scrigni celati, che il poeta viene a mano a mano scoprendo nei gesti dell’età felice. Difficile dimenticarlo allorché si descrive accovacciato sul tetto del convitto, fuggito dalla prigione in cui era stato rinchiuso per punire una sua fuga: «Risalii verso il colmigno; e mi sedetti, circondando con le braccia le ginocchia sollevate fino al mento, incurvando la schiena, piegando la nuca, quasi del mio capo facendo coperchio al serrame delle mie ossa.»
Allorché il compagno se ne va, «l’anima ode lo schianto del pianto, e si torce indietro soffrendo nell’attimo e negli anni.»
Si avverte una cesura, uno stacco: la partenza del caro amico, ormai vicino alla morte, è anche la fine definitiva di una parte della sua vita.
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A conclusione della pubblicazione di queste mie due letture dei romanzi di Gabriele D’Annunzio: «Solus ad solam» e «Il compagno dagli occhi senza cigli», desidero riportare quanto mi scrisse l’illustre critico Giorgio Bárberi Squarotti, con lettera del 19 ottobre 2009, a proposito dei due romanzi:
«Quanto a d’Annunzio, io penso che sia uno degli autori fondamentali fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento: nel mondo non ce ne sono molti altri di tale valore (Joyce, Thomas Mann, Faulkner, Hemingway, James, Proust e ben pochi ancora). «Solus ad solam» è in forma di diario la vicenda che d’Annunzio racconta nel «Forse che sì forse che no»: e il punto centrale è lo scontro tragico fra l’amore e la follia, la bellezza e la degradazione. Analogamente Dario e Gabriele rappresentano la drammatica contraddizione, che è anche complicità, fra malattia fisica e morale (Dario è malato a morte ed è un falsario, che ha falsificato la firma di Gabriele per sottrargli denaro) e dubbio, disperazione, dolore (in Gabriele).»