Fra due mosche
di
Edmondo De Amicis
tempo di lettura: 15 minuti
Un giorno d’agosto, nelle ore piú calde, una mosca spiccò il volo da una finestra della palazzina in cui viveva da tre mesi, discese nel giardino, e da un cespuglio a una rosa a un arbusto a una siepe s’andò a posare dentro un capanno rivestito di convolvoli, sulla spalliera d’un sedile di ferro; dove, con sorpresa, si trovò davanti una sua simile, non mai vista da lei prima d’allora, che pareva stupita e inquieta di trovarsi là, come un viandante smarrito in una foresta.
Subito ella mise le sue piccole antenne in contatto con quelle della sconosciuta, e con quei movimenti e tocchi leggerissimi, con cui le mosche si parlano, le domandò di dove venisse e che cosa cercasse.
Quella le rispose che era una mosca di campagna, e ch’era venuta sul dorso d’un bove in città con la speranza di menarvi una vita piú agiata e piú gaia che nella solitudine dei campi; e immaginando che la sorella cittadina sopraggiunta abitasse nella casa lí accanto, le espresse il desiderio di prendervi domicilio sotto la sua protezione.
La mosca di casa fu presa da un riso così forte che tutti e tre i segmenti del suo torace s’agitarono come per distaccarsi l’un dall’altro; poi crollò il capo in atto di compassione e disse alla sorella campagnuola: – Ah, disgraziata! Come caschi male! Che idea stramba t’è saltata in capo? Ah, tu pensi di venir qua a far la bella vita, a campar da signora? E io scappo da questa casa per non tornarvi mai piú, per andar a cercar la pace nei campi di dove tu sei fuggita. Segui il mio consiglio, sorella. Ritorna nella solitudine che hai abbandonata, e io verrò con te. Non t’ostinare in un proposito di cui saresti amaramente pentita prima di domani. Sarebbe minor disgrazia per te il perdere la proboscide aspirante che madre natura ti piantò nella testa –.
La campagnuola le rispose con un moto brusco delle antenne, che significava un’esclamazione di maraviglia; poi le disse: – Io credevo che tutte le mosche che vivono nelle case degli uomini menassero una vita felice.
— Se ogni casa somiglia a quella dove io son vissuta finora, tutte le mosche cittadine vivono una vita infelicissima.
— Per qual ragione?
— Perché gli uomini sono una razza trista feroce che ci perseguita senza pietà e senza tregua. E in quanti modi e con quale perfidia tu non puoi immaginare. Non con le mani soltanto, ma con ogni specie di strumenti e d’astuzie: con pennacchi, con mazzi di strisce di carta, con carte e polveri avvelenate, con liquidi dolci traditori che c’invischiano la tromba e le zampe, con certe trappole trasparenti in cui s’entra senz’avvedersene e si rimane annegate. Le case degli uomini sono covi d’insidie, dove si rischia la vita ogni momento e si vive in affanno continuo. Per questo io ne fuggo per sempre.
— E lasci senza rammarico la casa dove sei nata?
— Con rammarico lascio la casa; ma con gioia, i suoi abitatori, che son l’uno piú malvagio dell’altro –.
E alle domande che la mosca campagnuola le rivolse intorno agli abitatori, la mosca cittadina, movendo rapidamente le antenne, rispose: – Son sette, che i ragni se li divorino. Tre che mi paion maschi: il padrone, un figliuolo grande, uno piccolo; quattro, che mi paion femmine: la padrona, che non fa nulla; una figliuola che è sempre allo specchio; una che noi chiamiamo la femmina della polvere, perché è sempre in giro a spolverare; un’altra, che chiamiamo la femmina del fuoco, perché è sempre a lavorare attorno al fuoco. Sette, tutti congiurati a distruggerci. Non ti parlo d’altri che vengono in casa ogni tanto. E c’è un piccolo cane. Ebbene, il cane è il meglio di tutti.
— Un’odiosa razza, dunque.
— E disprezzabile. Ne giudicherei dal padrone, che conosco meglio degli altri, perché sta tutto il giorno in casa a far dei segni neri su dei fogli bianchi con una cannetta che intinge in un vaso pien di porcheria. Tu che non conosci gli uomini, non puoi immaginare quanto poco valgano questi grandi animali che stanno superbamente ritti sulle gambe di dietro, e paiono i padroni del mondo. Questo bestione smisurato basto io, cosí piccola e debole, applicandogli alla pelle la mia proboscide minuscola a sconturbarlo, come potrei fare con un moscerino appena nato. Ch’io lo tocchi due o tre volte nel viso, ed egli monta in collera, si percote il capo colle mani, e soffia e arrota i denti come cane arrabbiato. Ripetendo gli assalti, io gli faccio buttar via la cannetta con cui lavora, gli impedisco di dormire, lo costringo a saltar su dalla seggiola e a correr per la stanza sbuffando e smaniando come se avesse il fuoco nel corpo. Io gli intercetto la vista, gli tronco la parola in bocca, gli interrompo il cammino, gli faccio rigettare il boccone che s’è già messo fra i denti, io che sono un nulla appetto suo. Come me la godo!… (Ma sono le mie sole soddisfazioni, pur troppo). Vedi quanto è meschino questo colosso!
— Curioso! Non sono cosí impazienti i rari uomini in cui m’abbatto per la campagna: essi mi lasciano quasi sempre fare il comodo mio sulla loro faccia senza dar segno d’avvedersene.
— Saranno d’un’altra razza. E questo non è soltanto debole e violento: è ingiusto e irragionevole. Ti basti sapere che quando non riesce a cogliere e ad ammazzare quella di noi che gli ha dato molestia, ne ammazza, se può, un’altra qualsiasi, la prima che gli viene a tiro, o ne cerca una espressamente, anche lontano da lui, per vendicarsi e sfogarsi: pur che ammazzi! E la schiaccia mettendo un grido di trionfo, come se avesse riportato vittoria sopra un nemico terribile.
— Posso appena credere alle tue antenne.
— Ed è stupido per giunta. Ha visto migliaia di noi, ci vede di continuo, e non ci conosce, non sa come siam fatte. Egli pensa di coglierci di sorpresa, avvicinando a noi la mano aperta, lentamente di dietro, come se non la potessimo scorgere: non sa che i nostri occhi fissi hanno centinaia di faccette con cui vediamo da ogni parte, e che piú che la vista, ci avverte della minaccia della sua mano il movimento dell’aria ch’essa produce. E cosí noi riusciamo e godiamo a ingannarlo ogni momento, e a fargli picchiar le mani inutilmente sulle proprie mani e sulla propria faccia. Che ignorante!
— Mi ci godrei anch’io! – E ciò dicendo la mosca campagnuola fece con le zampe davanti incrociate quel movimento allegro che corrisponde alla nostra fregatina di mani.
— Ma tu non puoi farti un’idea – riprese la mosca di casa – della ferocia di questa razza. Nella loro stanza del fuoco io vedo strozzare e scannare, scorticare animali vivi, e gettarli nell’acqua o nell’olio bollente, dove si torcono fra cosí atroci spasimi che, a vederli, tutt’e sei le gambe mi tremano. Brandelli di carne, visceri, zampe, teste tagliate, da ogni parte: ogni giorno è una strage, un macello che insanguina tavole, panni, mani, ogni cosa. In questo modo si fanno da mangiare. Ma c’è di peggio. Tutta la crudeltà di questa gente si manifesta nel figliuol piccolo. Costui passa a volte un’ora intera a darci la caccia, e ci coglie a decine, perché fa con due mani, e col lungo esercizio s’è fatto destro. Ma non per liberarsi dalla nostra molestia: per il solo gusto di torturarci lavora. A quante n’acchiappa strappa le ali, le zampe e le teste, e queste, per gioco, ammucchia da un lato, quelle da un altro; le une infilza con uno spillo, le altre brucia alla fiamma d’una candela; ne stronca qualcuna e la lascia libera per vederla andar barcollando con le interiora fuor del corpo; e dei patimenti orrendi di tutte, che spia e indovina, gode, il piccolo mostro, tanto che gli scintillano gli occhi e gli fa la bava la bocca… E sai che cosa gli dicono, quando lo vedono all’opera orrenda, il padre e la madre? – Che non perda a quel modo il suo tempo! – Null’altro! Par che non pensino che noi soffriamo, perché siam piccole. Stupide bestie, che ragguagliano la pietà alla grossezza della vittima! –
La mosca campagnuola stese e agitò la proboscide in atto di sdegno.
— Trattano bene il cane – continuò l’altra – non già per bontà; ma perché è cosa loro. Vedo, in fatti, come lo trattano i loro simili fuori di casa, quando egli esce coi padroni, e io me gli metto addosso per vedere un po’ dì mondo senza faticare con l’ali. Qualche ragazzo, passandogli accanto, gli fa una carezza; ma i piú, se, non veduti dai padroni, possono tirargli un sasso, o dargli una strappata alla coda o allungargli una pedata nei fianchi, tanto da farlo guaire, lo fanno, e ci si spassano. Razza maledetta! E perché, se non dà noia a nessuno? Si può essere piú malvagi e piú vili? Ma vedo ben altro nelle brevi scappate che faccio nel cortile della casa o nelle strade o per i viali vicini. Vedo bastonar furiosamente o sfruconar le piaghe dei poveri asini stracarichi, e sferrar pugni nel capo e calci nel ventre a muli e cavalli sfiniti dalla fatica; vedo impiccare lucertole, ardere formiche, trafigger rospi, lapidar gatti, appender topi per la coda ai rami degli alberi per farne bersaglio alle frecce, a suon di risa e di grida di gioia; vedo rapire uccelletti dal nido e strappar loro le prime piume a una a una, adagio adagio, per prolungarsi il piacere di vederli morire! Capisci? Il ragno ci beve il sangue, il cane e l’uccello c’inghiottono vive; ma non godono a torturarci e a farci stentare la morte. O che ci ha nel sangue questa razza esecranda che porta una pelle morta sulla pelle viva? –
A questo punto la mosca di campagna tirò indietro le antenne, si prese il capo con le zampe anteriori, e lo scosse come per dire: – Che orrore! – poi, ricongiunte le antenne a quelle dell’altra, le disse: – Continua, è bene ch’io sappia tutto.
— E poi, che buffoni! – riprese la mosca di casa. – Tu vedessi le smorfie e il chiasso che fanno quando trovano una di noi nel latte o nel vino, dov’è caduta per disgrazia! O cos’è tutto questo schifo che hanno delle mosche? Noi siamo piú pulite di loro. Loro si lavano il viso e le mani una volta il giorno; noi lungo il giorno facciam pulizia mille volte, e non con le zampe davanti soltanto, ma con quelle di dietro, e non ci puliamo il capo solo, non è vero? ma il petto e il dorso e le ali; e tu sai se lo facciamo bene con le nostre zampine pelose, che valgon meglio dei loro stracci e delle loro spazzole. Forse perché ci posiamo su cose infette? Ma tu non puoi immaginare le porcherie che essi adoprano a ogni uso. La padrona si dipinge i capelli con un’acqua velenosa; il padrone si mette in bocca delle pallottoline che, per averne succhiata una, una volta, andai a rischio di morire. Si versano nei fazzoletti delle acque che ammorbano, puliscono i panni con un liquido che da una parte all’altra d’una stanza rivolta lo stomaco, accendono il fuoco con certi pezzetti di legno che, scoppiettando, rendono l’aria irrespirabile. Ogni momento si spandono in casa loro dei puzzi pestiferi, che ci fanno scappare. E non ti dico del loro fiato, ché ingoiano e ricaccian fuori dalla bocca certi nuvoli di fumo scellerato da far recere le budella a passarvi dentro di volo.
— Che roba! E hanno ribrezzo di noi! Ma… almeno mangerete bene.
— Che dici? Tu non hai idea delle sudicerie velenose che son mescolate a una gran parte delle cose buone di cui costoro si nutrono, e piú a quelle che hanno i piú bei colori. Non se ne risentono essi perché sono in piccolissima quantità quei veleni in rispetto alla mole dei loro corpi; ma ce ne risentiamo noi che siam piccole. Tu non puoi sapere che cosa sono certi loro liquidi chiari come l’acqua o color d’erba, d’oro e di sangue, che portan via la testa e mettono il fuoco nel ventre. E non ti puoi figurare quanti piccoli insetti repugnanti ingoiano con le frutta, coi legumi, col cacio. Ah, che schifo! E trattano noi come animali immondi!
— Comprendo ora il tuo odio per codesta razza, e lo sento anch’io.
— Quella che odio di piú è la padrona, perché è quella che, freddamente, ci dà la caccia piú spietata. É lei che ha introdotto in casa l’uso di quella polvere infame, che ci ammazza a mucchi, ed è lei che la getta con non so che orribile strumento contro i vetri delle finestre, ogni giorno, con una pertinacia feroce. Per questo io perseguito lei di preferenza. Ogni mattina, ogni sera e piú volte lungo il giorno essa s’inginocchia nella sua stanza, col capo basso e con le mani giunte, e io colgo quei momenti per gettarmele negli occhi e nelle nari, a tormentarla quanto piú posso. E come la sento fremere! Che sinistra femmina, che non sorride mai, e tutti cessano di ridere al vederla apparire! E ha pure la triste abitudine di tirare a uccidere le mosche sul viso degli altri, piú spesso sul viso del figliuol piccolo, qualche volta su quello della femmina del fuoco, che in quei casi versa acqua dagli occhi, e io corro a berla e me ne satollo. E con tutto questo, vedi un po’! Essa ci perseguita vive, ma ci mangia morte.
— È possibile?
— Tutto è possibile a questa razza. Piú d’una volta ho veduto la femmina della polvere cogliere a volo una mosca, ammazzarla e cacciarla in fondo alla tazza di caffè che portava poi alla padrona, e questa ha ingoiato tutto. Senza dubbio quella le mette le mosche nel caffè perché sa che le piacciono.
— Abominevole femmina!
— L’abominiamo tutte. Per nostra fortuna sta poco in casa. Due volte il giorno esce e sta fuori un pezzo. Io so dove va.
— Come fai a saperlo?
— Me le poso sulle spalle, quando esce, come faccio col cane, per molestarla anche di fuori. Va in una grande casa oscura, dove c’è sempre gente inginocchiata o seduta, che non parla, e in fondo brillano molti lumi. Entrando e uscendo, mette la mano in un vaso pien d’acqua, che è accosto alla porta, e si tocca il viso e le spalle come fa in casa, quando di mette in ginocchi. Qualche volta, quando la gente è uscita, si va a inginocchiare dentro un casotto appartato, dove, attraverso un finestrino chiuso, sta a guardare per un pezzo un maschio tutto nero, ch’io conosco, e che siede dall’altra parte, dormendo.
— E chi è quel maschio nero?
— È uno che viene spesso in casa, a sedere a tavola, e quand’entra, il figliuolo piccolo e la figliuola gli premono la bocca sulla mano. Son contenta quando viene perché in quei giorni c’è sempre sulla tavola qualche cosa di dolce. Quando c’è lui, tutti quanti, prima di mangiare, si toccano con la mano la fronte e il petto come fa la padrona nella casa oscura. E mi giova che venga perché addosso a lui trovo il fatto mio meglio che sugli altri. Bevo umore a mia voglia sulla sua faccia grassa e senza peli e nelle pieghe profonde del suo grosso collo lucido e rosso. E ci ho anche il vantaggio di poterlo succhiare a mio comodo riparandomi dietro a certi occhi di veto che egli porta davanti agli altri due; onde fra noi mosche lo chiamiamo «quello dei quattro occhi» e facciamo a gara a ficcarci dietro a quei vetri. Oltrediché ha sulla sommità del capo uno spazietto nudo e rotondo, dove, dopo il pasto, possiamo riposare tranquille. È un essere quieto e buono, che non tira a finirci: non fa che mandarci via, quando lo secchiamo troppo, con un atto lento della mano, che non ci arriva mai. Fossero tutti gli altri cosí! Ma sono fior di canaglia –.
Detto questo si strofinò forte il capo con le zampe davanti, e il dorso e l’ali con quelle di dietro, e l’altra fece lo stesso. Poi, riavute, ricongiunsero le antenne, e la mosca di campagna disse all’amica: – Ti ringrazio. M’hai levato ogni tentazione di stabilirmi in una casa di città. Ne so abbastanza. Partiamo.
— Non sai tutto ancora! – riprese la cittadina.
— Non t’ho anche detto tutte le astuzie inique a cui ricorrono per toglierci la vita. Ce n’è una, meno pericolosa delle altre per verità, ma che dimostra piú di tutte la perfidia degli animali ritti. Ci si mettono in due, e non so perché, sempre un maschio e una femmina. Quando una di noi sta sul petto dell’uno o dell’altra, si scambiano un segno, m’immagino, e con una mossa rapidissima congiungono i petti per ischiacciarla. Tentarono una volta di schiacciarmi in quel modo il padrone e la femmina del fuoco; piú volte il figliuolo grande e la femmina della polvere. Un giorno fece anche un tentativo con la figliuola un giovane che frequenta la casa, e che vi porta spesso dei mazzettini di fiori; ma la figliuola, non so perché, si tirò indietro vivamente nel punto che stavano per cogliermi. Io scappai sempre in tempo. Una volta sola corsi un grave pericolo con la femmina del fuoco e uno sconosciuto che aveva un pennacchio sul capo e dei bottoni luccicanti sul petto. Mi trovavo sui petto di costui. Mi lasciai cogliere. Credetti giunto il mio ultimo momento. Per fortuna riuscii a ripararmi dentro uno dei bottoni, che era rotto e mezzo vuoto, e mi salvai la vita. Ma come s’accanirono a premere per esser ben sicuri d’avermi disfatta! Volai via, quando si separarono, ma rimasi male per un pezzo. Si può dare una scelleraggine piú vile? Mettersi in due per accoppare a tradimento una mosca! Ma pare n’abbiano vergogna essi medesimi, perché non fanno mai quella vigliaccheria che quando non c’è altri presenti. Molte di noi, da principio, ne rimasero vittime. Poi provvedemmo alla difesa di comune accordo. Si convenne che quando ci troviamo in due o piú sul petto di qualcuno, e che ci sia un altro vicino, una stia sempre in guardia, e al primo segno di pericolo avverta le altre con un rapido colpo di antenna, che vuol dire: «Si salvi chi può!». In questo modo salvai dalla morte parecchie sorelle, e piú d’una volta fui salvata io stessa.
— È una trovata che vi fa onore. Ma non correste mai pericolo fra padrone e la padrona, che son quelli che piú v’odiano?
— No: mai fra loro. Le rare volte che il padrone fa quell’atto, la padrona indietreggia, rifiutando il suo concorso; ma non per pietà, certamente, forse per ribrezzo di macchiarsi il petto del nostro sangue. Ma non sente ribrezzo la malnata al vedere il pavimento nero di cadaveri delle mie sorelle, uccise dalla sua polvere esecrata. Ella sorride allora, e sono le sole volte che sorride. Ah, che orribile mondo! Partiamo!
— Partiamo dunque.
— Un momento… Sento mover l’aria. Qualcuno s’avvicina.
— Sento anch’io.
— È lei. La vedi?
— Vedo una grand’ombra.
— Viene a seder qui, a prendere il fresco. Eccola seduta.
— Sento altri.
— To’! È quello dei quattro occhi.
— Che le si siede accanto.
— Voglio fare alla tiranna un ultimo tiro. Vieni anche tu. Ci andiamo a posare sul suo petto, dove ha il vestito aperto, ci facciamo una provvista d’umor di carne per il viaggio, e poi le lasciano un imbratto per nostra memoria. È intenta a discorrere. Non ci disturberà. Vieni –.
Spiccarono il volo tutt’e due e s’andarono a posare sulla pelle nuda della signora, sotto la fontanella della gola.
— Ci sei? – domandò la mosca cittadina.
— Ci sono – rispose l’altra.
— Forza con la tromba! –
E si misero a succhiare tutt’e due.
A un tratto la mosca cittadina la tromba e d’un colpo fulmineo delle antenne disse alla compagna: – Si salvi chi può! –
E volaron via l’una accanto all’altra.
— Anche loro! – disse tra sé la mosca cittadina, seguitando a volare. – Ma è stata l’ultima volta, corpo d’un ragno –.
Fine.
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TITOLO: Fra due mosche
AUTORE: Edmondo De Amicis
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Cinematografo cerebrale / Edmondo De Amicis ; a cura di Biagio Prezioso. - Roma : Salerno, \1995!. - 105 p. ; 17 cm.
SOGGETTO: FIC009040 FICTION / Fantasy / Brevi Racconti