Fosforescenze.

di
Cordelia

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I.

In quella giornata afosa di luglio l’antico palazzo Grimani situato in una delle vie meno frequentate di Vicenza, pareva deserto e addormentato.
Le finestre che davano sulla strada erano chiuse ermeticamente, l’erba cresceva tra i sassi nel vasto cortile, nel giardino abbandonato le piante piegavano i rami avvizziti e la fontana di marmo annerita dal tempo non mandava più un filo d’acqua, come se la sorgente fosse rimasta esausta per sempre.
Soltanto quattro finestre al primo piano verso il giardino, aperte e riparate da tende color ruggine, mostravano che il palazzo non era del tutto disabitato. Difatti in una vasta sala, ridotta ad uso di laboratorio, il professore Giulio Grimani osservava attentamente un oggetto posto sotto alla lente di un microscopio.
Accanto a lui una bella fanciulla, Marcella Montecchi, laureata in scienze naturali, era intenta a togliere con uno spillo i visceri di alcune mosche; li schiacciava fra due piccoli pezzi di vetro e li porgeva man mano da esaminare al professore.
Una pace tranquilla regnava in quell’ambiente; intorno alle pareti alcuni ritratti d’uomini d’altri tempi risaltavano come bianchi spettri sopra un fondo cupo; se avessero potuto rivivere, si sarebbero meravigliati di vedere due grandi tavole piene di arnesi sconosciuti e la sala dove solevano ricevere principi e cavalieri, mutata in un laboratorio da alchimista, e sarebbero stati imbarazzati di spiegare a che cosa dovesse servire il lavoro della bella fanciulla che continuava a porgere al professore i vetri preparati per l’esame, movendosi lentamente, in quell’atmosfera calda e snervante.
Quando il professore avea terminato di osservare un oggetto, scriveva alcune note sopra un quaderno e si rimetteva al lavoro in silenzio, immerso nei suoi pensieri.
Pensava appunto quanto Marcella gli fosse stata utile dopo che era entrata nella sua vita, come assistente. Si rammentava, ch’egli non aveva veduto molto volontieri la donna introdursi nell’Università credendola un essere frivolo e poco adatto a seri studii, e sul principio anche con Marcella era stato severo come tutti i suoi colleghi, ma poi, essa avea studiato con tanto amore e con tanta intelligenza tutti quegli anni, s’era presentata agli esami un po’ pallida e affaticata pel lungo lavoro, ma agguerrita, sicura di sè, con idee chiare e precise, con risposte pronte che mostravano il suo studio non esser stato superficiale, ma che avea approfondito ogni materia, e ne rimase tanto sorpreso, che per quanto i colleghi volessero essere ingiusti per impedire alla donna d’invadere le carriere riservate agli uomini, piegandosi all’evidenza spezzò una lancia a favore della nuova dottoressa e non solo fu approvata a pieni voti, ma avendogli il governo concesso di scegliere fra i laureati un assistente per i suoi lavori tanto utili alla scienza e all’umanità, aveva nominato Marcella, trovandola la più meritevole d’esser preferita.
Ed ora sentiva che l’aiuto della fanciulla gli era necessario, ed essa era orgogliosa d’esser utile al suo professore maestro, a quello che aveva sempre riguardato come un essere superiore; era persuasa di aver imparato assai più nei pochi mesi che frequentava il suo laboratorio, che in tutti gli anni passati all’Università e provava una stretta al cuore, pensando che fra pochi giorni il professore sarebbe andato lontano in cerca di nuovi materiali per i suoi esperimenti, ed essa, per trovare un posto d’insegnante o d’assistente, avrebbe dovuto lottare contro il pregiudizio di coloro che non vogliono incoraggiare la donna a dedicarsi ad occupazioni intellettuali fuori dell’ambiente domestico, oppure ritirarsi sulla montagna in una casetta lasciatale dalla madre, dove avrebbe trovato un vuoto intorno a sè e priva delle lezioni del suo maestro la sua intelligenza si sarebbe arrugginita, e scoraggiata ed avvilita sarebbe stata molto infelice.
Immersa in questi pensieri sentiva come un peso sul cuore, e in quel silenzio le uscì dal petto quasi suo malgrado un profondo sospiro.
Il professore interruppe il lavoro e:
— Siete stanca, — le chiese.
Marcella fece cenno di no col capo.
— Avete dunque pensieri tristi, alla vostra età?
— Sì, — rispose, — penso che tutto finisce e dopo tanti mesi, un lavoro piacevole e tanto utile sarà interrotto per non essere forse ripreso mai più.
— E perchè? — disse Grimani; — avete così tristi presagi? Ora bisogna terminare il nostro lavoro sulle mosche e provare come esse siano il veicolo di tutte le malattie infettive che travagliano l’umanità.
— E poi vengono le vacanze e andrete lontano a raccogliere nuovi materiali per lo studio.
— Senza di voi! — esclamò Grimani, — è impossibile; ho bisogno di aiuto, mi avete abituato male, non ho più pazienza per certe minuzie.
Infatti Marcella era diventata il suo braccio destro, nessun assistente aveva saputo essergli tanto utile come quella fanciulla modesta e paziente, che una volta entrata nel suo laboratorio aveva preso per sè la parte più noiosa; lavoratrice infaticabile, lo seguiva nelle ricerche con ansietà, s’immedesimava del pensiero di lui, capiva a volo quello che desiderava, pronta a servirlo, a rendergli facili gli esperimenti provando, riprovando, quando non riuscivano subito. Egli sentiva che aveva bisogno di lei come dell’aria che respirava.
Vi fu qualche minuto di silenzio. Marcella porgeva i vetrini al professore ed egli li osservava al microscopio macchinalmente, ma i loro pensieri erano lontani dal lavoro.
Dopo qualche minuto di silenzio, Marcella disse:
— E l’anno venturo avrà ancora bisogno di me?
— Ma certo, sempre, non posso fare da solo, sono stanco, mi sento vecchio, — sì dicendo si staccò dal microscopio e si lasciò cadere con abbandono sulla poltrona che stava dietro a lui.
Marcella lo guardò coi suoi occhi sereni e penetranti, e non disse nulla.
— Non so che cosa succeda in me, — riprese il professore, — ma mi sento nervoso, ho le idee confuse ed io che voglio trovare la ragione di tutte le cose, che pretendo d’indagare i misteri della natura, non capisco più me stesso e sono avvilito.
— Lavora troppo, — disse Marcella, — questo caldo snerva. Ha bisogno di riposo.
— Si, sì, riposerò, dirò addio ai miei esperimenti, andrò lontano, ma non solo; partiremo assieme, — soggiunse il professore con accento risoluto.
Marcella non disse nulla e alzò gli occhi increduli.
— Che c’è di male? — riprese il professore, — è una cosa tanto straordinaria viaggiare col proprio assistente?
— Non sarebbe una cosa nuova, ma è impossibile, — disse Marcella. — Fuori del laboratorio, non sono che una donna, bersaglio alle chiacchiere ed ai pregiudizii del mondo.
— Il mondo, il mondo, — borbottò Grimani, — c’è un modo di accomodare ogni cosa, — disse battendo le mani come se avesse fatto una scoperta interessante, — sposiamoci.
Marcella gli diede un’occhiata, si fece rossa in volto e non rispose.
— Non è una cosa possibile? — riprese il professore, — sono forse troppo vecchio?
La fanciulla lo guardò bene in faccia, poi disse corrucciata:
— È un brutto scherzo; vi burlate di me.
— Parlo sul serio, — soggiunse con forza il professore, — sapete; non so far tanti preamboli, e parlo come penso, francamente. Finora non mi sono occupato che della scienza, temevo che una donna nella mia vita potesse distrarmi dallo studio, ma con voi è differente, anzi è tutto l’opposto, io ho bisogno del vostro aiuto, noi ci completiamo e non possiamo viver lontani. Qualche minuto fa, quando si parlava di separarci, ho sentito quanto voi mi siete necessaria, ed ho osato dirvi il mio pensiero. Perchè imporsi una sofferenza, un sacrificio, quando è così facile trovare il rimedio?
Grimani fece tutto questo discorso senza guardare in faccia Marcella, la quale se ne stava confusa tremante senza fiato e senza parole per rispondere.
Il professore soggiunse guardandola timidamente:
— È una proposta assurda che vi ho fatta; sono pazzo, non è vero, pensare a certe cose alla mia età? Se è così, non parliamone più.
— È che sono sorpresa, confusa, — disse la fanciulla con un filo di voce. — Io che v’ho riguardato sempre come mio maestro tanto superiore a me e a tutti, che ho vissuto tutto questo tempo in ammirazione del vostro ingegno, mi par di sognare, ma sarebbe vero? Come avete potuto fissare la vostra attenzione sopra di me, povera fanciulla, microbo invisibile? Sarebbe una fortuna insperata; non può essere.
— Siete troppo modesta, mia cara; venite qui vicino a me e ragioniamo; prima di tutto non disprezzate i microbi che sono il soggetto dei nostri studii e che per tanti mesi furono l’argomento dei nostri discorsi, ma guardatemi in faccia, non sono troppo vecchio per pensare a certe cose?
— Vecchio! non me ne sono mai accorta!
— Ho trentotto anni.
Marcella diede in una sonora risata e disse:
— Un uomo a trentott’anni è molto giovane.
— E non ti troverai a disagio con un professore che vive coi suoi libri e il microscopio?
— E questa non è pure la mia vita? — disse Marcella, — ma sarebbe troppa felicità, non ne sono degna.
E chinò il capo confusa.
Il professore la trasse vicino a sè come per proteggerla e soggiunse:
— Io non so dire tutte quelle cose che piacciono alle donne, non ho avuto tempo d’impararle, ma sento che il tuo aiuto mi è necessario e procurerò di farti felice.
Marcella a quelle parole si sentì commuovere e quando potè parlare disse come in quei giorni era stata tanto infelice, perchè pensava ch’egli sarebbe andato lontano, e in mezzo ai trionfi si sarebbe dimenticato di lei, ed ora il mondo le pareva mutato, si sentiva rapita come in un bel sogno e temeva di destarsi.
Ma la voce di Grimani la rassicurava parlandole sommesso come se fosse stato in chiesa, le diceva che bisognava far presto, egli non voleva far la commedia del fidanzato, gli pareva ridicola, tutto dovea esser semplice, naturale come la loro vita.
Ed essa si cullava al suono di quella voce, che le andava diritta al cuore, e nel tepore di quel pomeriggio di luglio, nella sala silenziosa, le pareva di sentire un languore delizioso come se fosse trasportata su su in cielo da una schiera di angeli. Avrebbe voluto che quella giornata non avesse più fine, ma la terra segue imperterrita il suo cammino, non curando il desiderio dei suoi abitanti e già il sole sembrava spegnersi dietro le colline e l’ombra invadeva ogni cosa.
Marcella si riscosse, si alzò e disse:
— È tardi, bisogna andare, mia cugina m’aspetta, domani verrò più presto.
Il professore non voleva lasciare la mano che teneva imprigionata nella sua.
— Dunque sì? — le disse.
Essa alzò gli occhi, chinò il capo arrossendo, e fuggì via lasciando il professore che la seguì collo sguardo, contento d’essersi tolto il peso che l’opprimeva da tanti giorni e assicuratasi la compagnia di quella fanciulla che era divenuta necessaria alla sua esistenza.

II.

Giulio e Marcella sono sempre nella grande sala intenti al lavoro, nulla è mutato intorno ad essi, ma non sembrano più quelli di prima.
Il professore pare ringiovanito, si muove in fretta, i suoi occhi mandano lampi attraverso le lenti degli occhiali, lavora, lavora per terminar presto e pensare poi al matrimonio.
Marcella è più pronta ad apprestare i vetri e porgerli al compagno, ha i movimenti più rapidi, la faccia sorridente, e malgrado il caldo si sentono entrambi dominati dalla febbre del lavoro.
In qualche momento di sosta, Grimani ha delle distrazioni, come non ha avuto mai, si sorprende ad osservare i capelli dorati che incorniciano la fronte di Marcella come un’aureola e li trova più interessanti dei microbi che attendono sotto le lenti del microscopio. Egli che non aveva mai pensato alla donna che come ad un animale grazioso ed inutile, confessa d’essersi ingannato e lo trova, invece, l’essere più bello della terra, che merita d’esser studiato, non solo nell’apparenza esteriore, ma nella parte più misteriosa del suo spirito; soltanto in quel momento capiva che esiste al mondo qualche cosa all’infuori dello studio e della scienza, capace di produrre delle sensazioni sconosciute e di dare all’organismo un senso di ebbrezza delizioso.
Avrebbe voluto far qualche cosa per la fanciulla modesta e devota che viveva rinchiusa nel cupo laboratorio, lo aiutava nei lavori faticosi, ne prendeva per sè la parte più uggiosa, lasciando a lui tutta la gloria.
Qualche momento, stanchi dall’intenso lavoro e dal caldo opprimente, si alzavano e tenendosi per mano andavano girando per le sale del palazzo.
— Andiamo a vedere, — diceva il professore, — bisognerà ben riordinare la vecchia casa perchè sia degna d’accogliere la giovane sposa.
Marcella rispondeva sorridendo.
— Le vecchie case sono sacre, serbano l’impronta delle generazioni che ci hanno preceduto, e mi sembrano più ospitali. Ma noi abbiamo bisogni e gusti diversi dai nostri antenati, — diceva Grimani.
Traversavano androni cupi dove si ripercuoteva l’eco dei loro passi, sale abbandonate, dalle vôlte delle quali pendevano le ragnatele, si soffermavano davanti alle pareti adorne di affreschi mezzo scrostati dal tempo che rivelavano qualche maestro del rinascimento.
— Non vedi che disordine, — disse un giorno Giulio, — bisognerà ritoccar tutto.
— Sarebbe una profanazione, — rispose Marcella, — e poi a che cosa servirebbero queste immense sale? si chiude tutto, il laboratorio sarà il nostro regno.
Poi andarono nella parte più abitata della casa e Marcella destinò una grande camera con alcova per camera da letto, un’altra coi palchetti di legno scolpito per camera da pranzo e:
— Qui, — disse entrando in un gabinetto pieno d’aria e di sole, — metterò i miei libri, i miei amici fedeli.
— E il salotto da ricevere? — chiese il professore.
Marcella si mise a ridere.
Chi mai doveva ricevere? E poi non bastava il suo studiolo?
Si rimettevano al lavoro, riposati da quella corsa attraverso la casa e ogni tanto l’interrompevano per parlare della loro vita passata.
Il professore diceva che la sua aspirazione era sempre stata di scrutare i misteri della natura, aveva dovuto lottare col padre che desiderava si fosse dedicato all’industria come suo fratello Paolo, il quale si era arricchito e viveva a Milano con un figliuolo, unica sua consolazione dopo che era rimasto vedovo.
— È stato tanto contento quando ha inteso del mio matrimonio, — disse. — Era il suo desiderio che venisse una giovane sposa a popolare la vecchia casa paterna.
Marcella invece gli narrava le lotte per poter applicarsi agli studii pei quali tutte le donne avevano trovato tante ostilità, prima in famiglia e poi a scuola; e lei rimasta padrona di sè vi si era attaccata come ad un rifugio per non pensare alla sua vita triste e solitaria.
— Guai se non avesse trovato un valido aiuto nel suo maestro, — soggiunse guardando il professore.
Ogni tanto egli le chiedeva se non era pentita d’averlo accettato per compagno della vita.
Ed essa gli diceva che era così felice che non poteva ancora credere a tanta fortuna.
Era stato come un raggio di sole, nella sua vita, unirsi all’uomo che riguardava con tanta riverenza, al suo professore: come avrebbe voluto aiutarlo, come si sentiva di amarlo!
Poi parlarono dell’avvenire: dovevano sposarsi tranquillamente, senza far rumore, e dar spettacolo agli indifferenti: prima sarebbero andati in qualche angolo tranquillo e solitario in mezzo alla natura selvaggia, poi in riva al mare dove la notte si vede illuminata da animali fosforescenti; dovevano nei primi tempi del loro matrimonio dare il bando agli insetti schifosi come le mosche e dedicarsi all’osservazione degli animali luminosi, doveva essere un periodo fosforescente anche nei loro studî.
Ogni giorno si rassomigliava in quel periodo, ma erano tanto contenti, e l’ora del tramonto li sorprendeva sempre negli stessi lieti propositi per l’avvenire.

III.

Il matrimonio avvenne come avevano destinato: senza feste, senza inviti, accompagnati soltanto dalla folla degli indifferenti; andarono a nascondere la loro felicità in mezzo alla natura selvaggia, e il palazzo Grimani rimase chiuso e completamente disabitato.
Vissero, per molti giorni, una vita di sogno. Il professore dimenticava le aspirazioni scientifiche, nella gioia di possedere quella fanciulla buona, intelligente e bella, colle guance rosee e gli occhi neri espressivi, ch’egli non si saziava mai di contemplare.
Non avrebbe mai pensato di poter dimenticare i suoi studii prediletti per i begli occhi di una fanciulla, e n’era sorpreso.
Marcella invece aveva paura della sua felicità, diceva di sentirsi tanto contenta, temeva che il cuore le scoppiasse per la gioia.
— È troppo, è troppo! — esclamava — temo di morirne.
Abituati ad osservar tutto con intendimenti scientifici, si studiavano a vicenda, procuravano di scoprire il mistero che li aveva uniti quasi inconsapevolmente.
— Peccato che non possiamo esaminare col microscopio quello che avviene nel misterioso laboratorio che è il cervello umano, — diceva Marcella.
— È meglio così, — rispondeva il professore; — il mistero è quello che attrae e affascina, analizzare e conoscere i nostri sentimenti non ci renderebbe più lieti.
— E se non si potesse continuare ad amarci così intensamente! L’avvenire mi spaventa, — diceva Marcella, — mi par di vivere in mezzo ad una luce abbagliante, che appunto perchè troppo radiosa, si possa spegnere da un momento all’altro.
— Sta in noi di tenerla sempre accesa, — non pensiamo all’avvenire che è nelle mani del destino, come non dobbiamo curarci della gente che ci circonda.
E così passavano quelle giornate indimenticabili sempre assieme facendo delle lunghe passeggiate, arrampicandosi sui monti, attraversando ghiacciai, rallegrandosi di ogni difficoltà vinta, d’ogni nuovo sentiero scoperto, correndo talvolta come scolaretti in vacanza sulle chine erbose dei monti, ridendo di loro stessi, non riconoscendosi in quella nuova vita giovanile che, repressa dalla serietà dei loro studii, scaturiva baldanzosa come limpida fonte alla quale sia stato tolto ogni impedimento.
E si dilettavano in quella vita che avevano riguardata un tempo come frivola, dimenticando tutto, nel timore che dovesse un giorno o l’altro finire.
— Eppure dovremo riprendere i nostri lavori, — disse un giorno il professore.
— Peccato! — rispose Marcella.
Ma intanto il tempo passava e non si risolvevano mai a rompere l’incanto di quelle giornate. Ci volle una bufera di neve a spingerli a lasciare le alte cime e ad avviarsi più giù in riva al mare.
Andarono a Napoli e in Sicilia: la temperatura calda, la luce abbagliante del mare azzurro diede loro un nuovo godimento; di giorno ammiravano la instabile superficie delle onde, le vele candide, i bastimenti formidabili; la notte si lasciavano cullare in canotto sull’onde increspate, dove l’ombra era più profonda ed osservavano la fosforescenza del mare che pareva illuminato per far loro festa.
Era una scìa luminosa che seguiva il solco del canotto, erano striscie che scendevano dai remi quali frangie d’oro o d’argento.
Marcella che vedeva quello spettacolo per la prima volta, ne era entusiasta ed ogni sera voleva goderlo nuovamente senza esserne mai sazia.
Una volta il remo andò ad urtare in una massa d’alghe marine e di pesci ed il mare divenne in un istante tanto infocato come se il sole si fosse immerso nelle onde tenebrose.
Marcella era in estasi; e il professore disse non esser vero che regni l’oscurità in fondo al mare, chè mille animali pieni di luce lo irradiano e molte sostanze fosforescenti lo inondano di raggi e scintille.
Egli che da tanto tempo desiderava studiare la fosforescenza del mare, da quelle passeggiate ne riportò come una suggestione e sentì sorgere nel suo spirito una volontà irresistibile di rimettersi al lavoro.
Ecco perchè una sera portarono all’albergo una bottiglia riempita di quell’acqua luminosa, e quando furono nella loro camera, tolsero dalla valigia il microscopio che aveva riposato sempre durante il viaggio, Marcella preparò i vetri con gocce d’acqua marina, e subito si misero ad osservare prima l’uno e poi l’altra lo spettacolo nuovo.
Scrutarono attentamente attraverso le lenti, poi si guardarono in faccia sorpresi.
Era possibile che tutto quello splendore venisse da animali in putrefazione?
Eppure era evidente, il professore lo sapeva, altri avevano studiato quel fenomeno prima di lui, ma egli voleva liberare quei microbi dai fermenti che li producevano e poi studiare la luminosità degli esseri che guizzano nelle acque del mare.
Ma in quella stanza ingombra erano troppo a disagio; bisognava decidersi a partire. Tutto a un tratto erasi ridestato in loro il desiderio di rimettersi al lavoro, e subito si diedero a preparare i materiali di studio; ordinarono venissero loro spedite ceste piene di pesci e molluschi, acquarii per poter avere vivi una varietà di animali luminosi, raccomandò che li pescassero la notte per scegliere i più risplendenti, e fecero le valigie allegramente pensando alla ripresa dei loro esperimenti e alla gioia di esaminare quelli esseri illuminanti i profondi abissi del mare: così avrebbero potuto rivivere a casa loro quelle gite notturne, quelle giornate incantevoli.

IV.

Il palazzo Grimani era in festa; dalle finestre aperte il sole entrava a rianimare i mobili antichi, e le vecchie cose sbiadite parevano rivivere alla nuova luce.
Nel giardino, invece dei rami aggrovigliati, dell’erbe invadenti, i cespugli fioriti sorridevano ai sentieri serpeggianti fra le macchie erbose e dalla fontana scendeva un fresco zampillo che gorgogliava nella coppa di marmo.
Dalla porta spalancata entrarono gli sposi anch’essi ringiovaniti dalla nuova vita e contenti d’aver quasi raggiunto la felicità.
Il primo pensiero di Giulio Grimani fu di dar sesto al suo laboratorio, perchè dopo tanti mesi di riposo era impaziente di rimettersi al lavoro, al quale voleva dedicarsi con maggior lena per aprir nuovi orizzonti alla scienza.
Marcella invece era preoccupata da altri pensieri, non aveva più per la scienza l’attrazione d’un tempo, si sentiva mutata e pensava che fra pochi mesi un nuovo ospite sarebbe venuto a rallegrare la vecchia casa, e voleva prepararsi a riceverlo degnamente.
Pensava che non avrebbe potuto più dare tutto il suo tempo agli studii del marito, e ciò la rendeva un po’ triste.
Il professore se ne accorse e le chiese:
— Non sei contenta della tua casa, ti dispiace ch’io l’abbia fatta un po’ ripulire?
— Non è questo che mi dà pena, ma temo che non potrò più aiutarti come prima nei tuoi lavori, e tu che m’hai sposato per questo scopo che cosa penserai di me?
— Non temere, ti ho ingannato e volevo ingannare me stesso, ma ti ho sposato perchè non potevo vivere senza averti vicina; eri il mio raggio di sole, la mia gioia, e accetterò il tuo aiuto come un dono, ma se non puoi, farò da me solo.
— Quanto sei buono! — disse Marcella, — come tutto è mutato: poco tempo fa mi davi soggezione, un tuo sguardo mi faceva tremare, ed ora provo per te soltanto amore e riconoscenza, ma ti aiuterò, sai, non come prima perchè avrò altre occupazioni; non ti dico di più, è un mio segreto.
E il segreto fu subito svelato quando si vide capitare in casa tanti oggetti minuscoli, della tela candida e sottile, e finalmente una piccola culla, che Marcella voleva adornare per il loro bimbo. Mentre Giulio preparava i materiali per i suoi studii, essa tagliava la tela e colle sue mani cuciva piccoli indumenti che parevano fatti per la bambola.
Il professore si meravigliava di vederla coll’ago in mano intenta a lavori donneschi.
— C’era bisogno di studiare all’Università per far dei lavori che tutte le donne possono fare? — le diceva.
— Sono per il mio bimbo, e voglio farli io stessa, sarei gelosa che se ne incaricasse un’altra donna, ma non temere, ti aiuterò e questo lavoro mi terrà compagnia quando andrai a Padova a fare le tue lezioni.
E così Marcella passò l’inverno alternando i lavori d’ago agli studii sulla fosforescenza ed era un po’ spoetizzata nel vedere che spesso l’origine delle onde luminose, che avevano reso sfolgoreggianti le notti del loro viaggio, non erano altro che residui in putrefazione: un tal pensiero quasi la disgustava.
Ma ad interrompere le ricerche scientifiche venne un personaggio importante, che fu un vero raggio di sole per Marcella, a riempire di grida la vecchia casa. Lo chiamarono Aurelio per dargli un nome luminoso come gli studii prediletti in quel tempo dal professore.
Marcella volle nutrire il piccolo Aurelio col proprio latte, e nel laboratorio si vide uno spettacolo nuovo; una piccola culla di vimini, imbottita di penne soffici come un nido in mezzo alla grande tavola, fra le fiale di vetro, i liquidi coloranti e le culture di microbi.
E Marcella su e giù sempre in moto, ora occupandosi del marito, ora del bimbo, si faceva in due per non perder tempo e badare a tutto.
Le rincresceva che il marito si curasse poco del bambino, e lo chiamava un padre snaturato; ma egli non aveva tempo di andare in estasi per un essere che non capiva nulla e non faceva che miagolare come un gattino.
Il fatto sta ch’era sulla via d’una nuova scoperta e non voleva distogliere l’attenzione dalle sue esperienze.
Ne parlava colla moglie spiegandole le sue speranze, ma essa lo ascoltava distrattamente, pensando che un sorriso del suo bimbo valeva più di tutte le scoperte del mondo intero.
Il giorno che l’udì balbettare la prima parola, non potè trattenere la gioia e corse a comunicare la grande notizia al marito; ma lui aveva altro da fare che occuparsi di Aurelio; appunto in quel giorno, avea ottenuto un risultato insperato, l’ipotesi s’era mutata in certezza, la luminosità d’alcuni animali altro non era che una schiera di microbi fosforescenti che avevano preso dimora nel loro fisico; ed egli volea studiarli, per aggiunger nuove conquiste alla scienza.
— Pensa, — disse alla moglie nel suo entusiasmo, — pensa alla gioia di poter illuminare il corpo umano e renderlo trasparente; nulla allora sfuggirà all’occhio attento dello scienziato, e finalmente la medicina sarà una scienza esatta, perchè si potrà vedere come agisca la macchina interna ed ogni piccolo guasto ci sarà rivelato con precisione.
— Ma quando le malattie saranno chiare come la luce del sole, potranno essere guarite? — chiese Marcella.
— Certo sarà un passo verso la guarigione, — rispose il professore; — ma questo non m’interessa; ho già un bel lavoro davanti a me, per accertarmi che i microbi che vivono e risplendono nei miei animali acquatici, potranno vivere e propagarsi in animali d’indole diversa; sicchè ora ci metteremo all’opera e spero che il signor Aurelio, che incomincia a parlare, ci lascerà lavorare in pace.
Legare il proprio nome ad una scoperta benefica era un miraggio troppo bello, e senza trascurare Aurelio, che o dormiva tranquillo nella culla, o seduto sopra un tappeto in mezzo ad una quantità di balocchi non disturbava, Marcella preparava i vetrini, ripuliva gli arnesi, faceva annotazioni come nei tempi in cui era la migliore allieva del professore.
Nel laboratorio c’era sempre una quantità d’innocenti animaletti che servivano agli esperimenti e divertivano molto il piccolo Aurelio, che andava loro vicino, li accarezzava colle manine, e quando riusciva a tener tra le braccia un piccolo coniglio o un agnellino era tutto contento.
Quelle povere bestioline in quel tempo non vivevano che di microbi luminosi.
Il professore voleva renderli trasparenti e vedere in quali animali i microbi inoculati si propagavano con facilità e l’effetto che ne risultava.
Gli animali dal lungo pelo non erano molto suscettibili ad essere illuminati; nell’oscurità davano appena una leggera fosforescenza e solo gli occhi ne apparivano lucenti, ma quando il professore incominciò ad inoculare i microbi luminosi ai ranocchi che popolavano la vasca del giardino, solo allora potè rallegrarsi dell’esito sicuro della sua opera.
Di notte era una vera fantasmagoria; sotto la pelle sottile si vedeva trascorrere un sangue luminoso ed i ranocchi illuminati che saltavano parevano animali fantastici, immaginati da qualche scrittore di racconti inverosimili.
E quello che maggiormente sorprendeva era che i ranocchi diventavano ogni sera più luminosi e più irrequieti, e a poco a poco la luce era divenuta tanto intensa da potervi leggere come in mezzo a una corona di fiammelle elettriche.
Per molte sere quegli animali luminosi servirono di spettacolo in casa Grimani, il professore n’era contento e orgoglioso come d’un trionfo, e Marcella meravigliata riguardava il marito con crescente ammirazione.

V.

Era sulla fine dell’anno scolastico, quando il professore Grimani invitò alcuni colleghi ed amici a passare una giornata a casa sua, dove aveva preparato loro una sorpresa.
Accettarono con piacere, certi di passare una giornata lieta in casa Grimani, dove c’era sempre un buon pranzo, e potevano chiacchierare colla signora Marcella delle più ardue questioni scientifiche, trattandola da collega, e ciò la rendeva orgogliosa.
Qualche volta essa si divertiva a far dello spirito sopra se stessa.
— Che antipatiche le donne sapienti! — diceva.
— Non è vero, — rispondevano quei signori, ai quali la scienza non aveva fatto dimenticare la cavalleria, — anzi, la scienza passata attraverso un cervello femminile riesce più amabile.
In ogni modo essa sapeva far molto bene gli onori di casa; si occupava di tutto e di tutti, e procurava di disporre ogni cosa con tanta arte che non soffrivano un minuto di noia.
Quel giorno la riunione in casa Grimani fu più interessante del solito. La sala da pranzo arredata severamente in stile antico, con mobili autentici di legno intagliato e le pareti ricoperte di damasco rosso, era rallegrata da ceste di fiori, e la tavola risaltava colla tovaglia candida e le stoviglie terse e lucenti.
Erano lieti di vedersi circondati da una schiera di persone elette dai nomi conosciuti e stimati in tutto il mondo, che parlavano allegramente come se volessero dimenticare gli studi severi e darsi un po’ di bel tempo, scambiandosi semplicemente le loro idee in quell’ambiente simpatico, intorno alla tavola bene imbandita, dove non mancavano nemmeno i vini generosi a metterli di buon umore.
Terminato il pranzo, scesero in giardino a prendere il caffè in un piccolo chiosco coperto di glicine, onicere, clematis ed altre piante profumate, e quando scesero le ombre della notte ed il giardino si fece buio, Grimani diede il segnale di alzarsi e condusse gli amici in un grande ambiente al pianterreno, che non si sarebbe potuto dire se fosse una vasta grotta, una cantina, o una stalla, ma aveva l’aspetto d’una cosa e dell’altra.
Era l’abitazione degli animali che servivano alle esperienze del professore: intorno alle pareti v’erano nicchie chiuse da cancelli di ferro, da un lato uno zampillo scendeva in una gran vasca che serviva per i pesci e gli animali acquatici e nello stesso tempo per abbeverare gli altri.
Prima di entrare il professore narrò i suoi studi sulla fosforescenza.
— Ma quello che ora vi mostrerò, — soggiunse, — è il frutto dei miei ultimi esperimenti, ho scoperto in alcuni animali acquatici un microbo luminoso che, date certe condizioni, si propaga e vive nel corpo di animali di specie diversa, e li rende luminosi e trasparenti; ora potrete vederne l’effetto coi vostri occhi.
Sì dicendo aperse la porta della vasta stanza, e apparve loro come una visione fantastica.
Tutt’intorno alle pareti e sulla vôlta c’erano bagliori indefiniti che mandavano raggi di tinte diverse: era quasi una danza di fiammelle che apparivano e scomparivano ad un tratto come fuochi fatui, poi strisce luminose, azzurre, rosse, infocate, che rammentavano albe e tramonti meravigliosi.
Al primo momento tutti quei scienziati e professori rimasero attoniti.
— Siamo nel regno delle fate, o vuoi farci assistere ad un racconto delle Mille ed una notte? — disse il professor Calvi.
— Siete semplicemente nel laboratorio sperimentale d’un insegnante che cerca di scoprire il meccanismo della vita e, qualche volta, ci riesce perchè ha un’assistente impareggiabile, — disse Grimani, guardando sorridente Marcella, poi soggiunse: — Ora venite con me, che è tempo vi presenti alla spicciolata i miei personaggi principali, — e, fatti entrare gli amici in una stanza accanto e sedere intorno ad una tavola, vi pose sopra alcuni ranocchi luminosi. — Ecco l’animale che pare destinato a servire la scienza meglio di qualunque altro; ha incominciato ad essere il collaboratore del grande Galvani, ed ora continua il suo cammino glorioso; nessun animale inoculato coi miei microbi, mi ha dato risultati migliori.
Infatti la pelle sottile di quelle rane irradiava una luce così intensa come se dentro ci fosse una fiammella elettrica, e osservando attentamente, si poteva distinguere tutti i movimenti interni del piccolo animale, i battiti del cuore, il sangue trascorrere nelle vene e il nutrimento attraverso il corpo, e quando l’animale era stuzzicato o tormentato, mandava raggi più vibrati, e tutti quei professori si strappavano di mano quelle piccole bestie per osservarle, come i fanciulli fanno coi balocchi.
Grimani mostrò poi delle cavie, dei conigli che non mandavano una luce intensa, ma una pallida fosforescenza, e soltanto negli occhi avevano due lucenti scintille; piacque molto un porcellino da latte che dava una luce rosea, e finalmente il professore versò e dispose sulla tavola una sostanza simile a un fiume d’oro e d’argento: sembravano raggi usciti dal sole e dalla luna che illuminassero la piccola stanza e le persone con riflessi insoliti e abbaglianti.
Il professore spiegò che tutto quel bagliore era effetto della putrefazione di alcuni animali ch’egli si era divertito ad ottenere in grande quantità, e mostrò come nei profondi abissi del mare, la vita, la morte e la dissoluzione si congiungano assieme per renderli luminosi.
I colleghi si congratularono con Grimani degli esperimenti, e, risaliti in casa, pensavano alle applicazioni utili di quella scoperta.
— Bisogna tentare sull’uomo, — disse Grimani, — e rendere il corpo luminoso senza bisogno di raggi X e di altri sisterni incompleti, e leggervi come in un libro aperto.
E regalò ai colleghi dei tubetti con culture di microbi luminosi perchè li facessero sperimentare nelle cliniche, mentre egli s’ingegnava di fare altrettanto, ed aveva fede che da tanti bagliori, potesse risultare un po’ di luce a beneficio dell’umanità sofferente.

VI.

Tutti i giornali parlavano della scoperta del professore Grimani, traendone lieti pronostici.
Egli era contento del modo con cui era stata accolta e dai colleghi e dal pubblico, e s’aspettava ben altro effetto che non fosse quello d’una semplice curiosità.
Aveva già fatto esperimenti sui malati negli ospedali, ma sul principio con pochi risultati pratici. Lo scheletro impediva la trasparenza, e soltanto nell’addome e nello stomaco, s’era ottenuto qualche effetto, ma poi per poter conoscere bene il funzionamento dell’organismo, bisognava far prove nelle persone sane, e nessuno voleva sottomettersi ad esperimenti di quel genere.
Grimani non si perdeva di coraggio: riuscire nella sua impresa era addirittura per lui una specie di fissazione; le difficoltà, invece di scoraggiarlo, gli davano un nuovo ardire; non solo voleva riuscire a leggere nel corpo umano, ma bensì a scoprire i movimenti del cervello.
L’ostacolo era la calotta cranica che avrebbe impedito il passaggio della luce, ma nella prima età non è del tutto rinchiusa, ed egli pensò che aveva il mezzo di continuare i suoi studi senza uscire dalla sua casa; non aveva il suo bambino? Non era suo figlio? Non era padrone di servirsene per i suoi esperimenti, non recandogli alcun danno? e l’avrebbe subito tentato se non avesse temuto di dispiacere a Marcella che non voleva si toccasse il suo figliuolo.
Una volta entrata quell’idea nel suo cervello, non ebbe più pace, amava la scienza più di tutto, e a questa doveva sacrificare tutto.
Incominciò allora una serie di sotterfugi per far le cose in modo che Marcella non avesse alcun sospetto; mostrò di occuparsi di più del suo bambino, lo teneva in braccio spesso e lo faceva giocherellare, interessandosi a’ suoi progressi, tanto che Marcella ne era sorpresa, ma nello stesso tempo contenta che il marito si compiacesse delle grazie del figliuolo.
Per molto tempo si contentò di servirsene di trastullo, ma un giorno che Marcella era fuori di casa, si decise al gran passo e inoculò nelle vene del figlio i microbi luminosi.
Non fu senza inquietudine, a dire il vero; ad ogni grido del fanciullo, tremava che si sentisse male; la notte si alzava per andare ad osservarlo, al punto che la moglie gli diceva che se prima non si occupava di Aurelio, ora poi esagerava, e temeva in cuor suo che il troppo lavoro gli avesse prodotto un po’ di squilibrio nel cervello.
Intanto Aurelio mangiava e saltava, ed era allegro; il professore continuava ad inoculargli segretamente i microbi e a metterglieli nel latte che doveva servirgli di nutrimento; secondo i suoi calcoli, fra poco tempo dovevano produrre il loro effetto, e non cessava intanto di osservarlo.
Una sera Marcella entrò per caso al buio in camera d’Aurelio, e fu colpita nel vedere un’aureola luminosa che aveva intorno al capo e lo faceva apparire come il bambino Gesù e gli angeli dipinti nelle chiese.
Provò un’emozione come se il suo bimbo fosse morto e non aveva coraggio di avvicinarsi al letto; poi si fece innanzi, si consolò sentendo uscire dalla bocca infantile un respiro leggero come un soffio, s’accorse del punto donde usciva la luce, e la verità le balenò subito alla mente.
Suo marito aveva osato servirsi del figliuolo pei suoi esperimenti? Non aveva dunque viscere di padre? E lo aveva fatto di nascosto, senza dirle nulla come se si trattasse d’un delitto? Sapeva dunque ch’essa non avrebbe mai permesso una simile profanazione. Era troppo! Il suo amore di madre si ribellava al fatto atroce, e un’irritazione le saliva dal cuore al cervello che la faceva tremare dal dispetto.
Non sapeva che cosa avrebbe fatto, ma sapeva certo che non avrebbe più lasciato il suo Aurelio vicino al padre, e tutto ad un tratto si sentì sorgere nel cuore un fiero odio alla scienza che rendeva gli uomini insensibili agli affetti più santi.
Senza por tempo in mezzo, avvolse il bimbo in una coperta, lo prese in braccio, e senza dir nulla a nessuno, uscì dal palazzo Grimani e si recò per quella notte dalla cugina, calcolando di partire all’alba per la montagna, dove avrebbe trovato un rifugio tranquillo nella sua casetta.
Quando il professore, ignorando quello che era avvenuto, entrò nella cameretta di Aurelio e la trovò deserta e seppe che la moglie era partita senza salutarlo e senza dir nulla a nessuno, credette che la sua vecchia casa fosse crollata e la sua felicità fosse sparita per sempre.
Scrisse una lettera alla moglie per iscusarsi, disse che era sicuro di non aver recato alcun danno al figliuolo che amava più di ogni cosa al mondo, si sentiva, è vero, colpevole di non averle detto nulla, ma n’era pentito amaramente.
Marcella fu inesorabile, non rispose; il marito l’aveva ingannata e non poteva più credere alle sue parole, il suo amore di madre era troppo offeso e non sapeva darsi pace.

VII.

Marcella era contenta di essere in mezzo ai monti, sola col suo bimbo, di poter passeggiare nei boschi, correre, giuocare, lontana da ogni pericolo; lo vedeva rifiorire in quella vita libera, a quell’aria salubre e imbalsamata, e non si pentiva della decisione presa.
Dopo qualche giorno si era calmata la sua paura, e nella solitudine e nel silenzio della notte ridestandosi la curiosità scientifica, osservava la testolina luminosa del figlio e si sorprendeva notando i movimenti del cervello, che mandava spesso scintille più o meno luminose, secondo le imagini che si succedevano e le impressioni che ne riceveva.
Aurelio cresceva come un fiore rigoglioso, e pareva che i microbi inoculati nel suo organismo gli avessero dato maggior vigore, al punto che Marcella era quasi pentita della decisione presa, ed incominciava a pensare al marito con vera indulgenza.
Essa non sapeva come egli fosse rimasto affranto dal dolore, vedendosi abbandonato dalla moglie che adorava: non sapeva che s’era ammalato gravemente al punto da dover chiamare presso di sè il fratello e il nipote, nel timore di non poter sopravvivere, e non volendo dar sue notizie a lei, che era stata tanto crudele da abbandonarlo.
— Se io muoio, sarà il suo castigo, — aveva detto al fratello, parlando di Marcella, — e ne avrà rimorso per tutta la vita.
E il fratello Paolo fu un vero consolatore per lui, e il nipote, mostrando molto interesse per la sua scoperta, pareva gli ridonasse la salute.
— Era forse un delitto fare sul propria figlio un esperimento innocente? — chiedeva il professore.
— Anzi, tutt’altro; io sarei glorioso, — rispondeva il nipote, — di poter esserti utile.
— Davvero? e ti presteresti ad un esperimento?
— Se credi, caro zio, mi metto subito a tua disposizione.
— Bada che sono capace di prenderti in parola, — disse lo zio, e rivoltosi al fratello chiese: — E tu permetteresti?
— E perchè no? — rispose Paolo, — mi fido di te interamente.
Il professore era contento; ciò avrebbe servito d’esempio anche alla moglie, se il fratello gli affidava il suo unico figlio, e poi poter studiare l’effetto dei microbi in una persona sana, era quello che desiderava da tanto tempo, e sarebbe stato un diversivo ai suoi dispiaceri.
Così, mentre Paolo scriveva alla cognata per persuaderla al ritorno, dicendole d’aver trovato Giulio molto ammalato ed avvilito, raccontava ch’egli aveva permesso a suo figlio, la sola persona che lo tenesse attaccato alla terra, di servire agli esperimenti del fratello, e che questi si effettuavano ogni giorno, ed Enrico si lasciava inoculare i microbi fosforescenti, ne ingoiava nel cibo, sorridendo e scherzando, contento di servire così alla scienza. Del resto, diceva che i microbi gli facevano bene alla salute, perchè dopo averne fatta la conoscenza, si sentiva aumentato l’appetito e avea il sonno più tranquillo.
Ogni sera, quando i lumi erano spenti, Enrico si guardava nello specchio per vedere se il suo corpo incominciasse a dar segni di fosforescenza. Dopo qualche giorno, forse per effetto d’immaginazione, gli parve già di risplendere nell’oscurità, e lo disse allo zio, il quale era certo che la sua cultura di microbi era d’esito sicuro, però voleva aspettare ad esaminarlo che il corpo avesse ottenuto la massima trasparenza, intanto si compiaceva di vederlo di buon umore ed in perfetto stato di salute.
— Possibile — diceva — che i miei microbi possano servire di farmaco? Non ti ho mai visto così florido!
— Non fanno male di sicuro, mi sento bene e pieno di forza.
Una sera però il professore, esaminando bene il corpo del nipote, si mostrò invece cupo e non ebbe più voglia di scherzare.
— Perchè fai quella faccia scura, — disse Enrico, — hai forse scoperto nel mio corpo qualche principio di terribile morbo?
— C’è qualche cosa che non so spiegarmi, vedremo meglio domani, — rispose il professore, ma rimase tutto il giorno svogliato e silenzioso.
Pareva che un nuovo dolore fosse piombato sul vecchio palazzo.
Paolo aveva un cattivo presentimento e non osava chieder nulla. Soltanto Enrico era calmo e sereno, si sentiva bene e non voleva inquietudini.
In seguito ad altri esami, quando il corpo del nipote, sotto l’azione dei microbi s’era fatto più luminoso, il professore non ebbe più dubbio, e fu convinto che un punto nero scoperto all’apice d’un polmone, era un principio d’una malattia che avrebbe potuto distruggere un’esistenza così preziosa, ma non si sentiva il coraggio di darne al fratello la notizia, pur riconoscendone il dovere.
Una sera che Enrico era andato a leggere nello studio di Marcella e i due fratelli s’erano indugiati in sala da pranzo a sorseggiare il caffè ed a fumare un sigaro, Paolo ruppe il silenzio e disse al professore:
— Ti prego di dirmi la verità, hai scoperto nel corpo di Enrico qualche cosa che non va bene e vuoi nasconderla?
— Veramente non sono sicuro di me stesso, la medicina è una scienza molto difficile, ed io la conosco in teoria e poco in pratica, e m’impressiono facilmente per cose da nulla.
— Ma in nome del cielo, che cosa hai veduto? — chiese Paolo.
— Semplicemente un punto nero, forse non è nulla, oppure basterà qualche cura semplice a farlo sparire. Ma vedi, ora sei diventato pallido ad un tratto, ti spaventi? Come sono pentito di quello che feci e d’aver parlato, ma sei stato tu a spingermi.
E da quel giorno non ebbero più quiete, fecero visitare Enrico da medici e professori, e tutti trovarono il punto nero. Chi diceva una cosa, chi un’altra, forse era nulla, un ingorgo al polmone con un po’ di congestione: chi suggeriva un rimedio, chi un altro, cose da far perdere la testa.
Paolo non sapeva più che pensare, ma il dubbio gli era penetrato nell’animo e non poteva darsi pace.
Il professore sentiva rimorso d’essere stato causa di quel dolore, e cupo, accigliato, non faceva più alcun esperimento e odiava i microbi, causa di tutti i suoi dispiaceri.
— Come, non vuoi più inocularmi i tuoi microbi? — diceva Enrico.
— Non ne voglio più sapere. Li odio, voglio gettarli nel pozzo.
— Allora inquineranno l’acqua e diventeremo tutti trasparenti, — disse Enrico. — Mi rincrescerebbe, vorrei io solo aver questo privilegio.
— Non l’avrà più nessuno, — disse Grimani. — A morte, a morte!
Sì dicendo, fece una fiammata sul camino e vi gettò tutte le culture dei microbi.
Fu un attimo; nè Paolo nè Enrico riuscirono a salvarne nemmeno un tubetto.
— Sei pazzo? — gli disse Paolo. — Dopo tante fatiche! te ne pentirai.
— Non m’hanno recato che dolori. Ora è finita, sono morti per sempre, — disse il professore.
Ma la sua voce tremava e chinò il capo per nascondere le lagrime che sentiva inumidirgli le ciglia.
Sul capo di quei tre uomini seduti nel vasto laboratorio, pareva che sovrastasse un’immensa sventura; non osavano parlare, temendo di rattristarsi colle parole desolate, e non si sarebbe potuto dire quali avessero maggiormente un aspetto spettrale se i tre vivi o i ritratti degli avi che spiccavano sulle scure pareti.
Ad un tratto un rumore di usci aperti e rinchiusi, un fruscìo di vesti femminili, e un suono di voce argentina, ruppe il cupo silenzio. Marcella si fermò sulla soglia, mentre Aurelio si precipitò colle manine aperte verso il professore.
— Papà, papà! — gridò la voce infantile.
Egli si scosse come da un sogno, e disse:
— Tu qui, Marcella? È il cielo che ti manda.
— Perdono, — disse la donna gettandosi nelle sue braccia, — ti ho dato un gran dolore, me ne avvedo dal tuo volto disfatto.
Poi ringraziò il cognato e il nipote, venuti a confortare il marito ch’essa aveva abbandonato.
— Ho fatto male, — soggiunse, — sono stata un’ingrata, ma lo sdegno è stato più forte di me.
— Non ti so dar torto, non bisogna voler strappare i segreti alla natura: il cielo nol permette.
— Perchè sei così scoraggiato? Mi fai pena, bisogna rimettersi al lavoro, anzi, guadagnare il tempo perduto. Aurelio sta bene, s’è fatto più robusto e intelligente, forse saranno stati i microbi.
— Ora sono morti, — disse il professore, — non turberemo più la loro pace.
— Come? — esclamò Marcella con uno sguardo interrogativo.
— Distrutti, — disse Paolo.
— E tu hai fatto questo? — chiese rivolta al marito. — Non ci sarà mai possibile rinunciare a studii così interessanti, ritorneremo da capo.
Il professore crollava il capo come per dire che tutto era finito.
— Pare che abbiano rivelato una grave malattia nel mio organismo, — disse Enrico. — Ecco il loro delitto.
— Una malattia? Non può essere, con quell’aspetto; ma so certo che non si può osservare con calma quelli che si amano. Se sapeste quanti mali, lassù nella solitudine della montagna, ho veduto sorgere e tramontare nel corpo del mio bambino quando era sotto l’influenza dei microbi! Ora son passati e sta bene; nella solitudine della vita campestre, i miei nervi si sono calmati e la verità è apparsa intera al mio spirito. Ho capito che è una scoperta che non solo ci mostrerà le malattie, ma forse potrà aiutarci anche a curarle.
Poi volle esaminare il nipote affermando che coll’esercizio continuato nell’osservare il piccino, la sua vista s’era fatta più acuta: lo condusse in una camera oscura e ne esaminò il petto.
— Che cosa hai veduto? — chiese al marito.
— Un punto nero.
— Hai dato corpo alle ombre, è proprio così, quel punto nero è un’ombra, non vedi? Mano mano che Enrico si muove, esso si sposta, eccone la prova più convincente.
— E gli altri? — chiese il professore.
— Sono stati suggestionati, ecco la verità: vi dò la mia parola di dottoressa, che Enrico sta benone.
Ella ordinò a tutti di andare a ritemprarsi assieme nella sua casa in montagna.
— Abbiamo sofferto troppo e prima di riprendere il lavoro, propongo di andare a scacciare i tristi pensieri e passare qualche giornata lieta.
— Approvato, — dissero tutti in coro.
— Non mi scapperai più via, — disse il professore a Marcella.
— No, ma devi promettermi di non far più esperienze sul corpo di nostro figlio.
— E nemmeno su quello di Enrico, ne puoi star sicura, ho sofferto troppo, — rispose il professore.
Paolo era ritornato di buon umore, e diceva che la scienza è pericolosa dopo che l’albero della scienza del paradiso era stato la rovina di Adamo ed Eva.
— Ma fu l’origine dell’umanità, — osservò Enrico.
— Infine non sappiamo nulla, — disse il professore, — intanto godiamo di questa tregua alle nostre ansie. Chi ci avrebbe detto un’ora fa, quando eravamo tanto tristi e abbattuti, che in poco tempo tutto potesse mutarsi? Ma mia moglie è ritornata a ridonare la pace e la serenità alla vecchia casa che pareva sul punto di crollare. Ora mi sento nuova lena per ricominciare il lavoro interrotto.
— Ed io non t’abbandonerò più, — disse Marcella.
— Lo credo bene, — saltò su Enrico, — colla tua scienza ci hai ridato la pace e fatto la luce.

Fine.


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TITOLO: Fosforescenze
AUTORE: Cordelia

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Verso il mistero : novelle / Cordelia. - Milano : Fratelli Treves, 1905. - 390 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici