Pubblichiamo volentieri questo intervento di Alessandro Cartoni sulla scuola.

 

Giovedì 30 ottobre 2008, tornando da Roma dopo la manifestazione degli insegnanti, nei vapori della stanchezza, un po’ osservando i corpi dormienti sul pullman, un po’ ascoltando le chiacchiere politiche dei colleghi, per una sorta di strana identificazione col carnefice, mi scopro a domandarmi: «chi sono i parassiti?» Naturalmente tale domanda, incongrua e politicamente scorrettissima, me la tengo per me, perché non potrei esternarla, ma cerco egualmente di prenderla sul serio. Immaginiamo, mi dico, di dar ragione a loro, ai nostri detrattori che nel Paese crescono a dismisura (giornalisti, politici, opinionisti ecc.) e se non avessero torto? Se di fatto noi tutti non fossimo altro che dei soggetti improduttivi, inutili e dunque superflui per le sorti dello sviluppo e quindi del futuro del Paese?


Allora, mentre ci allontaniamo dalla capitale in pieno crepuscolo autunnale,mentre osservo le nuvole che si diradano e mostrano un azzurro terso e levantino, provo a confrontarmi con l’ombra della cattiva coscienza. Che cos’è un parassita?
Intanto mi scontro subito col corno costituito dal fannullone. Brunetta fa il suo gioco quando, surrettiziamente, denunciando gli «imboscati», vale a dire quelli che fanno meno o nulla, lascia trapelare la possibile contiguità col parassita: colui che fa pocoo niente è anche molto vicino, sembrerebbe dirci, a colui che vive sulle spalle degli altri.Ecco come per lui, alla fine, non c’è differenza nella universalità della categoria, perché il fannullone è solo un detrimento, o un peggioramento, del parassita. Giocare sull’ambiguità significa anche togliere i limiti e i confini e quindi eliminare le possibili differenze. Il sillogismo del gioco al ribasso potrebbe essere questo: se anche i fannulloni fossero una turpe metastasi della categoria, poiché questi fanno comunque parte dei parassiti, allora anche i parassiti sono potenzialmente fannulloni. E il gioco è fatto: così si costituisce l’ideologia del fannullone che mortifica praticamente tutti.
Questo è quello che la nostra stampa respira e l’opinione pubblica amplifica, fa risuonare al mondo, dai trampolini mediatici alle chiacchiere da bar. Tuttavia dal punto di vista logico qualcosa non funziona, perché mentre la qualità del fannullone sta proprio nella virtù attiva del non fare (diremmo in una sorta di nolontà), quella del parassita è una condizione di fatto, una condizione dell’essere che esclude qualsiasi differenziazione etica. Il parassita, diversamente dal fannullone, è costitutivamente, ontologicamente, parassita, che lo voglia o meno.
Abbiamo allora fatto un passo avanti, perché se non altro abbiamo evitato di annegare il parassita nel mare dei fannulloni. Certo, non c’è da stare allegri lo stesso. Mi chiedo allora «perché siamo dei parassiti»?
Il parassita è un essere, di per sé deficitario, che si alimenta e vive alle spalle di un altro vivo, costitutivamente sano, completo, pieno e in salute, si direbbe.
E allora lentamente comincio a capire. Io, quale insegnante, e come me tanti altri impiegati del pubblico impiego, siamo incompleti, orfani per costituzione, bisognosi di completamento e di ragion d’essere. Diciamo in fondo che siamo soggetti a metà, deficitari e quindi parassitari. Se sono parassita, proseguo nel mio ragionamento silenzioso, allora mi manca qualcosa di fondamentale, una ratio essendi, una forma di autonomia . Che cos’è che non ho? Mi guardo dentro e guardo anche fuori di me, in uno sguardo di sorvolo osservo anche altri che parlano, leggono o ascoltano musica nel pullman. E mi chiedo: se ce lo avessero detto quando abbiamo scelto questo mestiere che saremmo diventati, leggeri, incompleti e trasparenti, chissà che cosa avremmo fatto? Certo, allora non potevamo saperlo, anzi qualcuno di noi si è gettato nella professione sicuro della vocazione sentimentale ed epica con la quale avrebbe cambiato il mondo, curato le anime, guarito le menti dall’errore e dalla superstizione.
Povero ingenuo masochista, ma almeno pararsi il culo in qualche modo. Invece no, molti di noi sono andati incontro al nemico senza nemmeno sapere che faccia avesse e di colpo hanno scoperto che il nemico era dappertutto: nello sguardo altero dei dirigenti, nel sorriso sornione dell’allievo, nelle parole irritate della madre, nel saluto a mezza bocca del vicino di casa, nella battuta divertita dell’amico imprenditore. «Ah, certo, fai l’insegnante» come a dire sei un fancazzista, un dopolavorista, una specie di teppista leggero del mercato del lavoro.
E qui casca l’asino, perché alla fine è in questo punto esatto che si illumina l’autocoscienza del parassita. Faccio un respiro profondo, guardo gli altriche dormicchiano e per un attimo mi appaiono eroici, perché almeno oggi hanno alzato la testa, hanno detto no alla campagna di diffamazione sociale che dagli anni Novanta si registra in Italia, no alla precarizzazionee alla pauperizzazione crescenti, no ai tagli della spesa sociale, no al gioco al massacro contro la scuola di tutti. Poi mi immergo nel buio della mia condizione per un ultima esiziale scoperta. Sono un parassita perché non produco nulla di socialmente rilevante: non costruisco merci, non realizzo servizi, non fornisco know how alle aziende, non trasporto, non riparo, non finanzio,non mi formo, non imparo, non gioco, non diverto, non organizzo; in definitiva: non sono.
Qualcuno obietterà che invece produco, magari il sapere. Ma il sapere è sostanza talmente volatile e invalutabile e ingestibile e trasparente e leggera da diventare superflua, e se dovessimo dar ragione alle statistiche PISA-OCSE, allora dovremmo, noi insegnanti, suicidarci tutti in massa.
In fondo c’è però una cosa che faccio, me lo ricordano a ogni piè sospinto, ed è in fondo quello che, nella mia vocazione di parassita, mi viene meglio: io consumo. Consumo di tutto: risorse statali, spesa pubblica, energie produttive, e poi soprattutto io spreco, sono una specie di buco emorragico senza fondo dove passa di tutto: dalle spese mediche, ai deficit finanziari, agli aiuti al terzo mondo.
Vivo addossato come una sanguisuga al corpo sano della nazione, cioè il mercato, e ne impedisco lo sviluppo, il balzo in avanti, il progresso. Del resto, gli unici strumenti che ho sono i gessetti e la famigerata penna rossa con la quale non faccio paura nemmeno agli apprendisti. Ogni tanto mi forniscono di cancellina con la quale mi affretto a far sparire le castronerie che mi capita di epigrafare sulla lavagna.
Io succhio, in effetti,il mio gesto quotidiano è la suzione delle sostanze altrui, soprattutto di quelle del mercato. Sono in regressione continua perché non ho mai superato la fase dello svezzamento ed è per questo che non ho autonomia.
Alla fine ho imparato parecchio osservando gli ultimi vent’anni in Italia, ho imparato che il mercato è buono e io sarò sempre cattivo, che il mercato si dà le leggi e io vivo nell’illegalità costituita dalla mia condizione di privilegiato, che la bontà di qualcosa non sta nelle intrinseche qualità ma nella capacità che ha di essere visibile e dunque appetibile. Ho imparato alla fine che non sono affatto appetibile, anzi semmai un po’ esecrabile e del tutto ingestibile.
Quando riemergo dalla autocoscienza c’è buio profondo nel pullman, i colleghi, stravolti dalla stanchezza, ronfano e si preparano a rincasare. L’Umbria è superata, fra un po’ saremo a casa. Io li guardo ancora una volta con un sentimento misto di pietà e simpatia, intanto mi preparo a scendere e a fuggire col mio segreto.

Alessandro Cartoni