Gianfranco Lauretano, Beppe Fenoglio. La prima scelta, collana “Profili”, Edizioni Ares, Milano 2022, pp. 168, € 15,00, EAN: 9788892982291
«Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti» (p. 24).
A cent’anni dalla nascita (1° marzo 1922) e a quasi sessanta dalla morte (18 febbraio 1963) sono sempre più evidenti la forza e l’originalità dell’opera di Beppe Fenoglio. Da poche settimane è in libreria un nuovo profilo scritto da Gianfranco Lauretano, poeta e traduttore, che già ha tracciato profili di Pavese, Rebora, Gozzano, Federigo Tozzi… L’editore è Ares, nella fortunata collana “Profili” che tanto mi ricorda – in versione meno “scolastica” – la “gialla” di Mursia “Invito alla lettura di…”. Immediatamente si coglie che Lauretano è “innamorato” di Fenoglio; lo dichiara esplicitamente (e il sottotitolo lo riprende): «E così, continuando a essere “il più solitario di tutti” compie la sua arte, diventando per noi il maggior narratore italiano del Novecento, la nostra prima scelta» (p. 47). A qualcuno una tale passione può destare diffidenza; a me – forse perché ne condivido il giudizio – pare invece che infonda una tonalità calda alla narrazione, che segue più la scrittura che la biografia di Fenoglio.
Del resto la sua scrittura è tramata del vissuto. E la partecipazione alla Residenza ne è stata l’atto centrale e anche l’occasione del disvelamento della sua vocazione di scrittore. Ma Fenoglio ha una chiarissima consapevolezza dell’arte e non intende certo fare “documentazione” (sebbene poi la sua narrazione della guerra civile sia la più attendibile). In un periodo in cui i resoconti della Resistenza erano fortemente politicizzati, «la partecipazione alla Resistenza è per lui soprattutto una questione militare da una parte, e ideale dall’altra, potremmo dire antropologica, una scelta rigorosa che evidenzia “il primato morale sulla politica”» (p. 32). In un’intervista di qualche anno fa il poeta Giampiero Neri affermò: «Il lavoro [di Fenoglio] distacca completamente il resto della letteratura resistenziale. Basta pensare a Uomini e no di Vittorini, la tipica opera di propaganda, condannata dal suo stesso titolo» (p. 37). Nessun manicheismo, nessuna retorica. La pochezza, l’impreparazione, la vanagloria di taluni partigiani narrate ne I ventitré giorni della città di Alba suscitarono le ire dei critici de “L’Unità”; eppure la verità rispettata sortisce l’effetto di renderci vicini quei ragazzi che, pur con tutti i loro difetti, ebbero il coraggio di scegliere.
«Fenoglio tocca e scandaglia tutti questi temi, a iniziare dalla Resistenza, ma, a essa collegato, anche l’amore (Una questione privata) o la fine di una civiltà (La malora). Lo fa rendendo universali il desiderio di senso e le domande eterne dell’uomo attraverso l’epica che la Resistenza è stata per chi l’ha vissuta. Per questo, paradossalmente, non bisognerebbe leggerlo unicamente come scrittore della Resistenza (sarebbe come dire che il valore di Omero consiste nella rievocazione storica della guerra di Troia)» (p. 54).
L’affermazione che “la più facile delle pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti” spiega quanto la questione della lingua fosse centrale nella sua arte. Qual è la lingua giusta per raccontare ciò di cui si tratta? «Ogni volta trova la soluzione modificando il suo stile: nella Malora, racconto della società contadina, forgia il suo vocabolario nella lingua popolare, sfiorando il dialetto; in Una questione privata, storia di un amore maledetto, ha toccato inedite punte liriche; nel Partigiano Johnny, odissea della guerra civile, poema creaturale e tragico di lotta con la storia e con la natura, la lingua cerca di diventare altrettanto epica e originaria, magmatica e pulsante» (p. 127). Piero Negri Scaglione, il suo principale biografo, così ne sintetizza il canone stilistico: «Limpidità del dire, esattezza di termini. Nulla di pleonastico. Oggettività assoluta nel raccontare. Semplicità». Molta della letteratura italiana è corrosa dalla retorica. Ma Fenoglio è innamorato della letteratura inglese (sua la bellissima versione italiana della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge). In un’autopresentazione rivela: «Primavera di bellezza venne concepito e steso in lingua inglese. Il testo quale lo conoscono i lettori italiani è quindi una mera traduzione». Questo lo stratagemma per fuggire dalla retorica della nostra modernità letteraria. Qualcuno ha coniato il neologismo “fenglese” e noi possiamo vedere il farsi di questo processo linguistico ne Il partigiano Johnny, incompiuto e ormai per sempre “opera in fieri”.
Nonostante le prime “selvagge stroncature” tutti progressivamente hanno dovuto ammettere la grandezza di Fenoglio. Ancor più con la pubblicazione postuma di Una questione privata (1963, pochi mesi dopo la sua morte) e de Il partigiano Johnny (1968). Nel 1964 Italo Calvino, ripubblicando Il sentiero dei nidi di ragno, aggiunse una lunga introduzione in cui inquadrava il suo primo romanzo dell’epoca in cui fu pubblicato. La nota si conclude con la consapevolezza del fallimento del romanzo neorealista e della mancata comprensione della guerra civile. E nobilmente riconosce che Fenoglio ha ottenuto ciò in cui gli altri avevano mancato. Con Una questione privata era riuscito a «fare il romanzo che tutti avevamo sognato […]. Il libro che la nostra generazione voleva fare, adesso c’è» (p. 42).