Il Piccolo trattato di epistemologia, di Maria Cristina Amoretti e Nicla Vassallo (ed. Codice, 2011), è un libro scritto «in difesa della conoscenza» (come si apprende fin dal titolo del primo paragrafo). Di tutta la conoscenza, tanto quella scientifica quanto quella cosiddetta umanistica, (nonostante non sia mai possibile adottare classificazioni recise nel caso delle branche del sapere), in quanto tutta la conoscenza è buona per l’uomo. Sempre, senza eccezioni (o quasi).
Anche quando non è utile a nulla (quando cioè non si traduce immediatamente in vantaggi pratici). E anche quando può rivelarsi pericolosa o sfavorevole all’uomo. Questa è la posizione delle autrici, che si prodigano nel difendere la ricerca umana dall’oscurantismo in tutte le sue forme. La libertà di ricerca (in generale, ma in particolare nell’ambito scientifico e tecnologico, che più facilmente provoca ripercussioni sulla vita dell’umanità e che quindi più spesso ne subisce paure e opposizioni) non dovrebbe venir limitata mai, «a meno che non si gettino individui nudi in acque gelide per «misurare» i loro tempi di sopravvivenza, come facevano i tedeschi-nazisti».
Questo appare il punto debole di un saggio peraltro fondato su una bibliografia nutritissima in gran parte in inglese e che si sviluppa con perizia e un incoraggiante equilibrio. Il problema sta proprio nella questione etica. Non perché si desideri sospettare dell’intero operato di singole scienze (si pensi alla genetica, da sempre ingiustamente accompagnata dal termine dispregiativo «manipolazione») o addirittura di tutte le scienze, bensì perché la questione etica è controversa e tuttora dibattuta e meriterebbe probabilmente una trattazione più ampia o almeno che insinui il dubbio sulla problematicità esistente. Mentre parrebbe che, una volta fatto il precedente esempio nazista, le autrici siano a favore di una ricerca sbrigliata, senza limiti (insomma, una «scienza per la scienza» che può fare a meno di valutare quanto essa sia «per l’uomo» e «per il tutto» – secondo il monito di Periandro di Corinto). Omettendo di affrontare il problema ad esempio della ricerca bellica (magari condotta senza metodi cruenti come invece nel caso dei nazisti), o di quella sugli animali vivi, e tralasciando di descrivere ciò che purtroppo non può essere dimenticato: l’incapacità dell’uomo di fare un buon uso della propria conoscenza. Non convince al riguardo la precisazione: «negli ultimi anni le obiezioni di matrice etica contro le scienze hanno subito una crescita esponenziale, ma non saranno prese in considerazione in questo proprio perché, come si è appena detto, esse coinvolgono non tanto le scienze in se stesse, quanto piuttosto le loro eventuali applicazioni tecnologiche. Dell’etica, insomma, necessita (in una misura che occorre peraltro valutare attentamente) la cultura tecnologica, non quella prettamente scientifica». Ciò tradisce l’ingenuità del mito del ricercatore «puro», figura che purtroppo non esiste; così come si può star certi che per ogni scienziato che studia con le migliori intenzioni le polveri da sparo, ci siano stuoli di tecnocrati pronti a fabbricare bombe. Non si può veramente pretendere di separare il sapere tecnologico da quello scientifico: non si può realmente pensare di studiare il modo migliore di creare un’arma di sterminio sperando al contempo, in cuor proprio, che nessuno la costruisca mai. Le scienze naturali, cui tanto cara giustamente sta l’esperienza concreta, non possono prescindere dall’esperienza storica di un’umanità che ha saputo pervertire ogni ricerca e abusare di ogni conoscenza. (In più, la citazione insinua un dubbio: l’idea che l’immersione in acque gelide di esseri umani debba essere vietata, è un limite della scienza o della tecnologia?).
Se ne potrebbe erroneamente concludere che – poiché potenzialmente qualunque scoperta può essere pervertita e utilizzata per il peggio – si voglia consigliare di non fare più nessuna ricerca scientifica. Ma non è questo il punto. Il punto è che la scienza è in grado di distinguere fra una ricerca potenzialmente non pericolosa (ma che potrebbe poi imprevedibilmente generare effetti indesiderati) e una ricerca intrinsecamente rischiosa (come quella nucleare o genetica). Una scienza che desideri il bene dell’uomo (e non il bene della ricerca in sé anche quando questo è sfavorevole all’uomo) deve porsi dei limiti (e ciò in completa autodeterminazione, senza delegare né subire alcuna filosofia morale eteronoma), che non sono delle castrazioni, ma dei punti di forza grazie ai quali condurre la ricerca nella maniera più salutare e benefica. Senza limiti – per principio – non si potrebbe neppure parlare del divieto di comportarsi da nazisti; un nazista in buona fede potrebbe infatti obiettare che le sue ricerche, per quanto discutibili nel metodo, potrebbero condurre alla lunga a scoprire una nuova cura per il cancro. Nessuno potrebbe escluderlo. Il punto è quale prezzo siamo disposti a pagare per avere il «progresso» scientifico.
Insomma, non riusciamo a sottoscrivere l’affermazione per la quale «se Rudolf Carnap affermava che in una scienza formale, quale la logica, non c’è morale, confidiamo che questa sua convinzione debba estendersi a tutte le scienze, naturali e umane». Condividiamo invece facilmente le altre convinzioni rappresentate nel libro, come quella che il sapere vada diffuso capillarmente verso tutti gli attori sociali, perché solo dei cittadini consapevoli e bene informati possono dar vita davvero a una democrazia matura (che non assomigli a una dittatura mediatica con elezioni periodiche). In più, sottoscriviamo con decisione l’idea che non vi sia alcuna opposizione tra filosofia e scienza.
«Tutti gli esseri umani aspirano per loro stessa natura alla conoscenza» scrivono Amoretti e Vassallo ricordando Aristotele. Purtroppo non tutti gli esseri umani agiscono parimenti per il bene comune. Va da sé che una scienza matura non deve lasciarsi paralizzare da questa evidenza, ma nemmeno può fingere che tale problema non esista o che riguardi qualcun altro. Una scienza matura deve saper tenere insieme tutte le esigenze e le aspirazioni umane, etica compresa. La grande sfida scientifica del III millennio non ha a che fare con l’ultimo ritrovato tecnico, ma con la complessità, la profondità, l’ambiguità dei problemi che abitano l’uomo.
M.C. Amoretti e N. Vassallo, Piccolo trattato di epistemologia, ed. Codice, Milano 2010, pp. 168, euro 18,00.