Pubblico, per gentile concessione dell’autrice, un articolo che, pur traendo occasione e spunto da una mia piccola monografia, ha tutto il valore di un contributo originale.
A proposito del Pirandello di Matteo Veronesi (Liguori 2007), Emanuele Licastro notava come l’autore affrontasse l’opera pirandelliana da una prospettiva inusuale, nella programmatica rinuncia a un’ottica unilaterale, nell’assenza di un rigido e monolitico punto di vista. Veronesi entra direttamente nell’universo pirandelliano, si inabissa nelle sue pagine «e, dal di dentro, fa esplodere lampi che le illuminano e le connettono a molteplici aspetti della cultura europea del tempo. O, meglio, proietta il riflettore su idee e sfumature filosofiche, morali, estetiche a cui Pirandello ha contribuito, e da cui ha desunto la sua linfa vitale» (Pirandello fra Spengler e Wittgenstein, «Bibliomanie», 16, gennaio-marzo 2009). Attraverso uno stile – se cosí è possibile dire – vertiginoso che penetra i grandi temi pirandelliani con riferimenti e accostamenti a un primo sguardo iperbolici, con impressioni fuggevoli o formule definitorie. Mentre non esita ad inoltrarsi nella sconfinata profondità del tempo secondo un movimento concentrico, Veronesi, come Mario Puppo diceva di Petrarca, sembra promuovere «incontri attraverso i secoli, identità delle anime lungo il cammino della storia»: appaia autori disparati e focalizza la profonda ed essenziale omologia – una sorta di baudelairiana «universelle analogie» – che unisce le anime nel succedersi dei modelli e delle aporie della temporalità storica. È uno stile, di pensiero e di scrittura, che tende inoltre ad assimilare l’artista e il critico, e che mostra, realizzandolo, il procedere parallelo di esperienza creativa e di riflessione sull’arte. Di qui un tipo di saggistica che si insinua nell’arte quasi a mettersi alla prova come contenuto: per rifarci al Valéry di Situation de Baudelaire, se classico – ma il discorso vale soprattutto per la modernità – «est l’écrivain qui porte un critique en soi-même et qui l’associe intimement à ses travaux», altrettanto vero è che il critico è «artifex additus artifici».
L’opera di Pirandello, piuttosto che nella Historie, andrebbe per Veronesi (che qui riprende, a sua volta, una indicazione metodologica già fornita dallo stesso Licastro) inquadrata nella Geschichtlichkeit, nella superiore storicità che astrae dall’accadimento contingente, ma che rende un senso al casuale e al necessario quali costituenti dell’esistente e termini del profilarsi del latente che avvolge e condiziona il visibile. Segni entrambi dell’incalzare dell’elemento noumenico – dell’essenza intellettuale e conoscitiva – che, sotteso ai fenomeni, li sostiene e dà loro consistenza.
Tra storia e storicità, quella di Pirandello è una riscoperta della capacità di vedere, una nuova articolazione del rapporto tra eidolon e eidos resa nell’equilibrio sottile tra il processo della percezione e della conoscenza e la sua cristallizzazione nell’intellettuale e concettuale assolutezza dell’immagine-idea. È un tentativo di estrarre le proprietà essenziali – opache ma non per questo inespressive – della natura e delle esistenze per proiettarle sul piano di una possibile evidenza. Restituire una essenza al casuale è anche relativizzare ciò che prima poteva apparire assoluto. L’arte pirandelliana è una inchiesta sulle dimore del latente e sugli ambiti del casuale, dove lo sforzo di trarre il casuale dal suo stato non esplicito e di riconoscere quella verità fuori di noi, che si scherma nell’apparenza o che trascende le nostre facoltà di conoscere, comporta la stessa opzione proustiana della sospensione del soggetto mondano rispetto a quello della parola letteraria. È un io ulteriore, un «autre moi», quello che vediamo in opera; un io non storicizzato, né riverso nella propria esperienza biografica, e in forza di questo in grado di intuire il senso di quei lampi improvvisi che convertono il multivoco in prospettico, i diversi piani di verità in gradazioni di verità riconosciute come tali. Intuizioni che, in quanto disgiunte dal soggetto dell’esperienza, conferiscono esistenza autonoma al testo, all’analisi, alla narratività.
La modernità di Pirandello, Veronesi osserva, «riflette inquietudini e dinamiche esistenziali connaturate e consustanziali alla condizione umana nel suo essere-per-sé, nel suo essere-per-gli-altri, nel suo essere, in definitiva, per-la-morte». E l’orizzonte di una Geschichtlichkeit naufraga nella Nichtigkeit anche per via della concezione umoristica che «relativizza e sovverte, deforma e disgrega» ogni invalso presupposto, ogni costruzione accreditata, ogni contraddizione ricomposta («compone e nasconde: due cose che l’umorismo non può soffrire», Pirandello diceva). Cosí, la verità inseguita e il nulla ontologico, volto e maschera (e «maschera», in fondo, non tanto come travisamento, quanto occultamento della vacuità esistenziale, repressione di istanze antiveritative, costrizione dell’esuberanza del sottosuolo), culminano nella loro reciproca elisione. Siamo di fronte a una variante dell’ironia romantica circa l’infinita umana inadeguatezza rispetto alla realizzazione del fine, la sensazione di una prossimità vissuta come lontananza, l’infinito che si estingue nella forma. Una ironia – Veronesi scrive – «che svaluta, ridimensiona e guarda con distacco l’umano, il terreno, il temporale, pallide ombre nella luce imperturbata dell’Assoluto».
La vita, Pirandello dice nell’Umorismo, è «un flusso continuo che noi cerchiamo di arrestare, di fissare in forme stabili e determinate». Ma in che consistono queste forme? Negli ideali ai quali vorremmo restare coerenti, nelle finzioni che noi stessi edifichiamo – sono espressioni esteriori di contenuti interiori, quindi relative. Il movimento vitale è incessante e talora deborda trascinandosi l’edificio delle forme e degli autoinganni – ridotti sul piano drammaturgico alla stregua di «maschere nude» quali emblemi del cedimento delle finzioni che avevano costellato l’esistenza del personaggio: accomunando infine follia, libertà e verità. Tuttavia, la forma è necessaria e fa inscindibilmente parte della vita, è ciò che pare, o che appare, della vita: «ciò che di me sapeste» – ricordando Montale – «non fu che la scialbatura, / la tonaca che riveste / la nostra umana ventura». L’arte deve riprodurre le antinomie del mondo, compresi i nostri «lampi di follia». L’umorista – è Pirandello a dirlo – respinge l’opera come «congegno ideale […] in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano». L’umorista scompone i caratteri, esaspera i contrasti, valorizza le ombre (ancora Pirandello: «quanto valga un’ombra l’umorista sa bene») a discapito dei corpi. Quante sembianze ogni singolo essere assume nel tempo? E come designare la diffrazione dei suoi cambiamenti?
In Pirandello l’antitesi tra la fissità della forma e della maschera e il divenire del tempo si risolve in una peculiare immagine della temporalità, in una eternità fluttuante, Veronesi scrive, «con cui tutte le esistenze […] anelano a ricongiungersi». In tal senso egli indica, attraverso la scrittura, «l’essere-per-la-rivelazione»: lo strumento linguistico subisce una deformazione, nell’intento di aggirare le consuetudini tradizionali, fatte di sintesi e di trasfigurazioni, fino a configurarsi nella narrazione del dramma del linguaggio, che vede una veste formale «divisa fra autenticità e convenzione, identità ed esteriorità, libertà e norma». E che tradisce il convergere dell’aspirazione al movimento con la cognizione usata dell’oppressione e dell’astensione paralizzante, dell’immobilità sia dell’azione sia dell’introspezione. È la messa in scena dell’assurdo, della inammissibilità stessa della tragedia. Qui Pirandello enfatizza il lato tragico degli esseri nella coesistenza del costituente fisico, che imbriglia il flusso dell’esperienza, e di quello spirituale che spinge l’umano ad emanciparsi da una fissità che sembra flirtare con la morte.
Se Pirandello è in qualche luogo ancora debitore della letteratura verista, in lui il fenomeno o il visibile non vengono mai elevati a valori supremi e fondati in sé stessi, assolutamente prevalenti, mentre al contrario viene accordato uno statuto di realtà ad ogni risonanza latente, al dato marginale che egli immette nel realismo tradizionale ad espandere quella coscienza critica che tutto relativizza e scompone, anche in virtú dell’azione sotterranea di elementi simbolici. Quello di Pirandello – Veronesi scrive – è un «verismo metastorico, un realismo trascendentale» in cui è implicito il rinvio ad altro, qualcosa che finisce per annullarsi e dissolversi nella sfera dell’incircoscrivibile.
Realismo e astrazione simbolista convivono, se pure alla fine si assista all’estrema dissoluzione dell’oggettivo in «mutevoli facce», in «fatti-ombra», in casualità, in oscura inconseguenza. Si erge e si staglia, sull’orizzonte dell’umano accadere, una superiore fatalità imponderabile: anche la forma è mistero, icona e spoglia nel dominio dell’invisibile. C’è una oscillazione, dalla causalità, da una configurazione illativa, alla casualità tipica di Zeno.
La poetica dell’umorismo è per Veronesi un caso paradigmatico del modo di fare letteratura e contestualmente riflettendovi – e sotto questo profilo Veronesi non è certo un neofita, a giudicare dal suo lavoro Il critico come artista dall’estetismo agli ermetici, cui si alludeva nel discorso di partenza. Il momento creativo è coessenziale alla riflessione estetica, e viceversa, fino alla sparizione dei contorni tra arte e riflessione, quindi l’arte diviene autocosciente. Nelle pagine pirandelliane, una meditazione, un criterio si insinuano, Veronesi dice, «nell’interstizio mobile, dialettico, contrastato e insieme impalpabile, inafferrabile, virtuale, che separa la vita dalla forma, il pensiero dall’espressione, la concezione dal suo tradursi in atto, in gesto, in parola». Giacché la riflessione in Pirandello non si esaurisce in uno specchiarsi inerte della coscienza, piuttosto ambisce ad attraversare lo specchio – e non è un caso che nella biblioteca europea dell’autore figurasse anche Through the Looking Glass.
Entrano in gioco le figure freudiane e dostoevskijane del doppio, del sosia, che «nell’opera pirandelliana ricorrono ossessivamente, sotto i simboli inquietanti dell’ombra e dello specchio», quali referenti incorporei della maschera imposta o autoimposta per la «recita del mondo», di una autoriflessione critica che disconnetterà le identità individuali di personaggi, appunto, umoristici. Come nell’idealismo romantico, ma introdotta in un contesto di modernità che vede l’umano conoscitore «dell’insensatezza ultima e fondamentale», esito estremo di un itinerario pur teso all’autocoscienza. È la narrazione del «vedersi vivere» (Gozzano, in diversi luoghi), Veronesi osserva, l’estraneazione come alternativa allo schopenhaueriano – ma anche darwiniano e verghiano – «vivere per vivere», sospinto da un cieco istinto di conservazione e di riproduzione. Guardarsi vivere, una «condizione contratta, soffocata, disincantata, amara, tragicamente ironica, dolorosamente scettica» di chi percorre fino in fondo la prospettiva della Nichtigkeit, tra autocontemplazione, nevrosi per la discordanza tra essere e apparire ed estraneazione totale. E il testo di Veronesi ridonda di richiami, dall’«Io mi comprendo dall’estremità del mondo fino alla mia parola silenziosa» di Monsieur Teste ai blancs che scandiscono il silenzio in Mallarmé, al «mio silenzio di cosa» di Serafino Gubbio. Ma alla fine in Pirandello nulla rimane delle idealizzazioni simboliste, la coscienza non è mai tautologica, chiusa in sé stessa, o riversa nella propria perfezione, e l’eccesso di consapevolezza si traduce in «deformazione grottesca e […] contorsione espressionistica», nel rictus dell’accettazione consapevole della condanna di un infinito che si ritrae e si irrigidisce nella forma.
Forma, wesen, nihilitas: Pirandello è «poeta della dialettica» in quanto umorista che investe di un carattere riflessivo l’istante in cui la vita si configura in una forma e nel contempo tenta di sottrarvisi, pur sapendo di dover di prendere forma per consistere. Ciò è evidente anche nella trilogia del teatro nel teatro, dell’opera come creazione di esperienze e commento, in margine allo spazio stesso dell’opera, in merito alle sue condizioni di possibilità e di pensabilità. Una opzione di scrittura che ha sé stessa come oggetto, contesto metateatrale o tragedia critica, cosí come di metanarrazione, di narrazione che parla di sé mettendosi in questione, almeno in modo implicito, si può parlare a proposito dei Quaderni di Serafino Gubbio.
Se l’idea di storicità era stata estromessa dall’universo pirandelliano, essa vi rientra, Veronesi scrive, «come persistenza di un umanesimo della parola», riflettendosi nell’ambito specifico del processo di enunciazione e delle scelte di carattere formale, nella affinità tra lo stile e la peculiare modalità nel vedere di cui si diceva all’inizio. Uno stile a suo modo classico, anche se con tratti espressionistici ed echi veristi, e tendente a una sorta di immediata – ma non per questo acritica e irriflessa – originarietà, a una antidannunziana essenzialità espressiva che colmi la funzione semantica. Che sfiora e lambisce, e nel contempo rimuove ed esorcizza, il silenzio come indifferenza ed emblema di annullamento.
La vita o la si vive o la si scrive. L’arte tende a sottrarre l’essere alla caducità, a disegnare l’identità scissa del soggetto, è deciframento di ciò che la realtà racchiude nella sua forma non espressa. Se l’arte è forma, la vita ha una forma, la quale costituisce la negazione dell’essere, la sua «morte-vita», in quanto, dice Pirandello, «perché l’essere viva è necessario che egli di continuo uccida ogni forma, nell’attimo stesso che la crea, cosicché ogni affermazione di vita è nello stesso tempo una morte». La prossimità di Pirandello alla filosofia dell’esistenza sta nella visione dell’uomo che il tempo riduce a una cosa come le altre. Non c’è catarsi nelle stranianti contraddizioni vissute dai personaggi pirandelliani, cui è dato testimoniare solo le verità, al plurale, perché la verità si para di parvenze opache e vincolate al tempo. Alla cognizione della «lucida follia» si giunge riflessivamente: nel riconoscere, oltre l’avvertimento del contrario, la tragedia o la triste commedia in cui l’esistenza si trova imbrigliata, inducendo la vita a mostrarsi a sé stessa (anche nella prospettiva, che Veronesi rileva, dell’«abisso nelle anime», di cui si dice nella pagina conclusiva dell’Umorismo). Atto da cui solitamente, per indulgenza, per timore o per falsa coscienza, essa rifugge. E al quale viene invece spinta, o forzata, dall’artificio e dallo straniamento, intenzionali e spietati, della parola letteraria e filosofica.