Nel Tunnel delle multe (Einaudi 2008) Maurizio Ferraris si soffermava, come indicato nel sottotitolo, sull’ontologia degli oggetti quotidiani e dell’attualità con frequenti riferimenti ai soggetti, cercando di decifrare aspetti, assurdità, iperboli, enigmi della vita ordinaria, sottolineando, con umorismo diffuso e sottile, la qualità arcana di molti stilemi del mondo contemporaneo. Lì esortava a tornare alle cose, elencando, catalogando quasi, tutta una serie di oggetti e metaoggetti, ai quali aggiungeva quelli che fingono di essere soggetti, come le opere d’arte. Analizzando e distinguendo, esimendosi comunque dall’operare discriminazioni aprioristiche: per meglio comprendere e delineare il modo d’essere e lo scopo dell’oggetto, il quale talora finisce per svelare la psicologia di chi ne usufruisce. E invitava – in Quisquilie e quiddità, il saggio che chiude il volume – a recuperare il legame con ciò che esiste a prescindere da chi pensa che esista per una positiva restaurazione della nozione di realtà, a percorrere una «controrivoluzione copernicana» per ripartire dalla Metafisica di Aristotele, dove il rilievo delle cose non era un dato marginale. Al di là degli intenti, si percepisce inoltre un altro antecedente: quell’Husserl dei Prolegomeni a una logica pura che postulava una continua ricerca di definizione delle questioni di principio. Questo, in Ferraris, per una esigenza di oggettività, per evitare di cadere nella generalizzazione del caso particolare, per ristabilire le basi per un pensiero giustificabile che – su uno sfondo troppo decostruito – riabiliti l’attuale cognizione di mondo propria di quell’ontologia ermeneutica che ha compromesso l’oggetto riducendolo alla configurazione del soggetto della conoscenza.
In particolare, in Quisquilie e quiddità Ferraris ribadiva l’esistenza di un mondo sociale che, benché dipendente dai soggetti, è tutt’altro che una costruzione soggettiva: l’oggetto sociale non esiste indipendentemente dal soggetto, esiste cioè nella misura in cui il soggetto pensa che esista. Allora, si dirà, soggettivismo sì e soggettivismo no? Di fatto, siamo noi a fare gli oggetti sociali, ma una volta istituiti in virtù della registrazione, e solo per suo tramite, essi diventano – fondatamente, non metaforicamente – reali, scritti, vale a dire per sempre, come i matrimoni, le lauree o le ricevute fiscali.
Tuttavia, perché ora ricordare Il tunnel delle multe? Per una associazione di idee, perché in molte sue pagine, persino nelle note più sperdute, abbiamo anche riso davvero, e davvero «di santa ragione». Cosa che solo isolatamente accade in Piangere e ridere davvero. Feuilleton (Il Melangolo 2009), in particolare perché qui il piangere e il ridere vengono sottoposti essi stessi a una escalation analitica in vista della definizione della loro veridicità, in una sorta di raffreddamento critico che orienti oggettivamente, delucidando a partire dall’esempio, l’inquisire una verità celata, talora persino imbarazzante. Misurandosi con la mutevolezza degli umani sentimenti e con la loro imprevedibile estensione semantica attraverso una accurata decodifica del caso particolare. In questo feuilleton filosofico Ferraris si inoltra in una antiaccademica (ma non troppo, in fondo anche quelle che qui incontriamo sono distinzioni sottili e cruciali) dissertazione sul carattere spesso incognito del pianto e del riso, li ontologizza ponendoli in relazione al contesto emotivamente sfuggente da cui essi traggono origine. Non abbiamo più a che fare – come nel Tunnel delle multe – con oggetti, benché talora soggettivamente connotati, ma con variazioni di stati d’animo contrari che spesso paiono inesplicabilmente complicarsi e implicarsi. Questa verifica dei sentimenti e delle loro condizioni di accertabilità viene condotta nella convinzione che una «normatività del piangere e del ridere» (p. 15) possa esistere solo in astratto per il carattere ermetico dello statuto di ogni piano psicologico, spesso totalmente nebuloso in quanto soggetto a un costante intervento di fattori che ci sfuggono.
Ma la domanda fondamentale alla quale si cerca di rispondere in questo libro è la seguente: quando si piange o si ride di qualcosa di non reale le nostre emozioni sono reali? Ferraris esordisce smontando la tesi del paradosso della finzione: ci commuoviamo per la tragica fine di Anna Karenina pur essendo consapevoli della sua inesistenza reale, ma credere nell’esistenza reale di ciò che muove la nostra commozione è la condizione indispensabile per provare delle emozioni vere; pertanto, se non crediamo nell’esistenza di Anna Karenina la nostra non sarebbe autentica commozione. Piangere sul serio per qualcosa che sappiamo essere finzione, come per il suicidio di Anna Karenina, costituisce un falso paradosso, perché «a contare nel piangere davvero non è la referenza» (p. 63), e i sentimenti che insorgono di fronte a un personaggio fittizio possono essere egualmente veri. Tanto che si piange e si ride davvero anche per delle simulazioni, e la veridicità delle cose «non rafforza il sentimento, ma lo trasforma» (p. 95).
Dal falso paradosso che vorrebbe interdire l’autenticità del pianto per la tragica fine di Anna Karenina (che indirettamente pone anche la vecchissima e fondamentale domanda se l’opera d’arte sia in grado di suscitare delle emozioni vere) il filosofo passa a interrogarsi su un pianto forse apocrifo che invece un referente l’avrebbe – ma che potrebbe essere frainteso per il travestimento di una altrimenti inammissibile indifferenza – dell’ex marito che segue il feretro della ex moglie, e su quello vero e «di santa ragione» del bambino minacciato da una madre incredula e d’altri tempi. Ma anche il «pianto fenomenologico», un pianto senza corrispondenza interiore simile a quello causato dal tagliare le cipolle (il cui equivalente è il sonno indotto, ma anche qui con le dovute distinzioni), può rivelarsi autentico, forse colui che piange mentre sta tagliando le cipolle ripensa a quando, con tutt’altro spirito, compiva gli stessi gesti nell’attesa di una donna, e l’improvvisa interferenza perturbante finisce per trasformare il suo pianto solo esteriore (il quale, osserva Ferraris, sarebbe più corretto definire un «lacrimare») in un pianto vero e di santa ragione. Questo esempio presenta una certa affinità con quello del condannato a morte, che all’apparenza piange per la morte di Diana Spencer mentre più presumibilmente sta piangendo solo per la propria sorte. Altrimenti, perché commuoversi per Diana Spencer – in fondo, un essere estraneo, o al limite una sorta di mito, almeno nella immaginazione popolare – e non piuttosto per la vittima del crimine per il quale sta scontando la pena? È un esempio che induce a una riflessione: quante volte capita di piangere (ma il discorso vale anche per i moti di ilarità) di un pianto autentico perché il nostro stato d’animo contingente è tale che in quel momento particolare ci fa esperire un pathos ingiustificato per qualcosa che in altro contesto ci avrebbe lasciati pressoché indifferenti? Quando, cioè, un oggetto viene assunto in maniera pretestuosa per dispiegare la nostra sofferenza per tutt’altre ragioni ? Come il carcerato, allora, siamo di fronte a una dislocazione o a uno slittamento dell’oggetto del nostro soffrire e non sempre riusciamo ad avvertirne lo scarto per l’inafferrabile statuto della sfera delle passioni, dei sentimenti, dei ricordi, dei rimpianti: dell’incoerente mondo sommerso della nostra anima. Definire la vita psichica è difficile, dice Ferraris, l’eco di circostanze esterne, di nostalgie, di rêveries vi si sovrappongono finendo per interferire sulla nostra capacità di afferrare e definire il senso esatto dei nostri stati affettivi. Contro ogni presunzione di oggettività, e sulla base dei raffronti addotti, veniamo invitati a non accondiscendere alla ovvietà e a riconoscere la dicotomia tra l’essere e il credere infondato.
Ferraris passa in rassegna il pianto fenomenologico, quello indotto dalla cipolla (al quale accosta il «riso fenomenologico», quello provocato dal solletico, che in alcuni casi è un vero e proprio strumento di tortura, e quindi in stretta contiguità con il pianto); il «pianto chimico» – esito di una eccessiva assunzione di alcool – che differisce da quello fenomenologico nella misura in cui sottende una tristezza vera, perlomeno in quel momento fortemente avvertita; il pianto del sogno, nel quale, seppure sia il nostro inconscio anziché la nostra mente cosciente ad avere certe visioni al risveglio resta comunque la sensazione del trauma e la memoria di immagini oniriche quali adombramenti di verità inespresse; il piangere per errore, per qualcosa che in seguito si rivelerà essere falso; il piangere di felicità, che è un pianto privo di tristezza, comunque vero perché le lacrime sorgono da una «passione dell’anima», e come tali hanno un valido e incontestabile referente.
Dunque, i nostri sentimenti sono autentici indipendentemente dall’esistenza reale dell’oggetto che li promuove. È il paradosso della tragedia che solleva l’argomento della paradossalità del commuoversi per la finzione: il paradosso della finzione dubita della sincerità della nostra commozione nei confronti di una situazione fittizia, quello della tragedia giudica illogico andare a cercare nella finzione ciò che nella vita tendiamo a evitare. Perché mai, infatti, l’utente insegue in una prospettiva finzionale la rappresentazione tragica di una realtà di per sé già tanto problematica? In tutto ciò, dice Ferraris, non v’è alcunché di eccentrico o di paradossale: nell’arte la tragedia viene ricomposta in un ordine e in un equilibrio superiori, dove «disgrazie e orrori sono ben raccontati» (p. 47) – altrimenti, potrebbero anche suscitare ilarità -, tanto che gli stessi fatti nella vita provocherebbero reazioni emotive di abominio e di disgusto. Sentimenti che insorgerebbero in noi qualora, per assurdo, scoprissimo che le vicende dei capolavori della finzione fossero vere. Insomma, dice Ferraris, «è dolce naufragare solo se il mare è inteso in senso metaforico (p. 57)». Ma soprattutto, sulla scorta di Aristotele, la rappresentazione tragica è catartica e liberatoria.
Sarebbe lecito domandarsi se sussista un paradosso della commedia. Se nel caso di rappresentazioni comiche non abbiamo problemi a dubitare dell’autenticità del nostro riso di fronte a situazioni fittizie, perché dovremmo comportarci diversamente nel caso di rappresentazioni tragiche? Riflettendo su tale interrogativo dovrebbero indebolirsi le basi teoriche del paradosso della finzione. Se ciò basta per neutralizzare il paradosso della commedia, resta da capire perché sorridiamo di cose risibili accadute a persone che in qualche misura consideriamo inferiori a noi. E per quale misteriosa ragione ricerchiamo nella finzione proprio quelle stesse situazioni che, con qual certo snobismo, evitiamo nella vita reale. E resta un’incertezza: chi di noi sarà veramente il tamarro? Il nostro atteggiamento derisorio nei confronti dei tamarri potrebbe avere carattere assolutorio, consistere insomma in una maniera trasversale per motivare speciosamente la nostra convinzione che i veri tamarri siano sempre gli altri.
Ferraris traccia inoltre una «ontologia della barzelletta» (pp. 75-86), dove il riso vero, anzi «verissimo», che essa suscita spesso non ha oggetto di riferimento, e dinanzi alla quale è consentito ridere benché prevalentemente vi siano contenute storie tragiche. Anatomizzando la barzelletta, che per alcune sue caratterizzazioni viene assimilata all’opera d’arte, fino al riconoscimento kantiano della libertà individuale del giudizio estetico. Ma assimilandola soprattutto al mito, dal momento che, analogamente al mito, essa si tramanda in assenza di un autore.
Il fatto di porsi la domanda se si pianga o si rida davvero è l’esito dell’aver posto la questione in termini errati, vale a dire basandosi sul presupposto per il quale la principale attività dell’uomo debba essere a tutti i costi «il giudicare, il decidere se le proposizioni sono vere o false» (p. 87), mentre in realtà non viviamo per giudicare ma passiamo la maggior parte del nostro tempo dietro alle consuete liturgie quotidiane, e pertanto «il giudizio non è la trama della nostra esperienza» (p. 88). Esiste dunque un’autonomia interiore, fluida e inconseguente, che non risponde a precetti normativi. La stessa consuetudine all’esemplificare, tanto stigmatizzata dai filosofi, è uno degli aspetti che ricorrono di più nella pratica quotidiana, visto che nella vita non incontriamo delle essenze, ma solo dei casi particolari, «delle analogie, delle somiglianze, dei pressappoco: tutte cose che si rendono con gli esempi» (p. 91). A questo punto Ferraris suggerisce di spostare la questione in termini meno convenzionali, sulla scorta di John Austin: qualora l’enunciato non sia constativo, qualora cioè non si limiti ad adeguarsi a una cosa (nel qual caso potrebbe essere vero oppure falso), esso è costituente, fondante, poietico, dà luogo a una res che prima non esisteva. L’enunciato performativo non può allora consistere in strumento giudicante che si attenga alla diade vero-falso: in questo contesto, l’atto linguistico sarà semmai un marcare il discrimine tra «felice» e «infelice».
Esteriormente, Piangere e ridere davvero non è un saggio ma un feuiletton filosofico, e anche così va letto. Ora – da feuilletoniste, diciamo – Ferraris tende a far reagire il meditativo puro con argomenti e considerazioni a noi noti, con tratti e referti della nostra stessa esperienza. E lo fa esemplificando, finendo così per glossare, e al tempo stesso per relativizzare, quelle controversie interiori che talora siamo portati a vivere in solitudine, riconducendole a una dimensione più umana, ora precaria ora quantificabile. E ristabilendo il carattere di «normalità», o di possibilità, al non esplicito, al non espresso, alle apparenze contrarie che destabilizzano. In una parola, alla complessità della vita, fatta anche di sottosuolo e di ragioni profonde che non si possono normativizzare, con un invito, laddove non vi sia certezza fattuale, a rassegnarci al montaliano «mezzo parlare», perché il parlare «per intero» è attributo della – «incomprensibile», «indecifrabile» – «lingua di dio».