Dovere.

di
Emma Perodi

tempo di lettura: 14 minuti


Ogni anno ai primi di settembre compariva a Viareggio un giovane signore insieme con una donna anziana, accidentata, che egli conduceva a passeggiare sulla spiaggia in un carrozzino a ruote. La donna aveva un aspetto melenso, due occhi stupidi che parevano guardassero senza vedere. Il giovane aveva fisonomia intelligente e malinconica e guardava noialtri bambini con amore.

Viareggio in quel mese è spopolato; cosicché tutta la nostra attenzione era concentrata su quelle due persone che incontravamo ogni giorno sulla spiaggia. Il signore, vedendoci da lungi correre o far buche nella rena ci sorrideva e, giuntoci vicino, cessava di spingere il carretto, ci rivolgeva la parola e ci dava consigli per la costruzione delle case di sabbia e per il modo di ombreggiarle con rami di pino, ci portava bandiere dai colori vivaci, barchettine di scorza d’albero per mettere nei canali, nei quali facevamo giungere l’acqua del mare, e vicino a noi si rasserenava.

Ogni primo d’ottobre il nostro amico partiva baciandoci affettuosamente e noi non lo dimenticavamo negli undici mesi d’assenza. Un anno allorché noi eravamo già grandetti, tornò senza la donna anziana e si fece nostro compagno nei primi giorni che rimase con noi; gli domandammo come mai era solo e ci rispose che l’inferma era morta, ed accorgendosi che noi eravamo sorpresi vedendolo così poco afflitto, ci disse:

— Non era la mamma mia, non mi voleva bene, non me ne ha mai voluto!

— E tu l’assistevi?

— Era mio dovere!

Quella parola dovere la intendevamo male. Educati con amore, non c’era bisogno di richiamarci all’osservanza dei doveri. Il nostro amico si accorse che quella parola aveva un senso oscuro per noi e sedutosi sulla rena, mentre la nostra bambinaia leggeva poco distante di là, ci disse:

— Sono nato lassù sul declivio di quel monte — e c’indicava col dito il monte di Seravezza che fa parte della catena delle Alpi Apuane, così ricche di cave di marmo — mio padre possedeva una villetta isolata, nascosta fra i castagni ed era comproprietario di una cava. Era uomo taciturno, malinconico, credo dopo la morte di mia madre della quale neppur mi ricordo. In casa faceva e disfaceva tutto una sorella del babbo, brontolona, intollerante che non mi voleva bene né si curava di me. Ed io che me ne accorgevo, appena seppi camminare spedito andavo fuori e soltanto la voce di mio padre poteva farmi tornare in casa. Ero piccolo e non potevo allontanarmi molto; ma giocavo sotto i larghi rami de’ castagni, imparavo a correre per le macchie, inseguivo sull’erba i pivieri e le tollerine che strascicavano superbamente la coda come tante sovrane coronate, e portavo il mangiare ai conigli che il babbo allevava in un recinto poco distante dalla villa. Crescevo come una delle piante sotto le quali cercavo rifugio contro la pioggia ed il sole, non avevo altri amici che gli animali, i quali vedendomi solo ed inerme in mezzo a loro si addomesticavano con me.

Figuratevi che le lodole senza temermi scendevano dagli alberi per andare in cerca di bacherozzoli e formiche, a fine di nutrire sé stesse ed i loro piccini: che i merli guardandomi maliziosamente si posavano sui ginepri, e beccavano, trillando, le coccole aromatiche, e perfino i conigli, così paurosi e timidi come sono, scavavano in presenza mia gallerie nelle viscere della terra per celarvisi, o seduti al sole fra i ciuffi di stipa, mi fissavano con certi occhi in cui alberga sempre la meraviglia.

Tutto il mio sapere consisteva nell’imitare il fischio d’ogni uccello. Quando mi feci più grande incominciai ad allontanarmi maggiormente da casa insieme con Pastore, un bel cane da guardia, bianco come la neve, che mio padre mi aveva regalato; imparai a costruire balestre per insidiare gli uccelli, e reti ed ami per chiappare i pesci nei torrentelli. Sapevo che a mio padre piaceva la caccia ed il pesce, e non tornavo a casa senza portargli un po’ di preda che la zia ammanniva brontolando per cena, e non potendomi maltrattare in presenza di mio padre, sfogava su Pastore la collera che la rodeva. Ogni calcio che gli dava, mi faceva soffrire più che se lo avesse dato a me.

Mio padre, nei pochi istanti che stava a tavola, non apriva bocca. Tirava fuori di tasca un taccuino ed estraendo da quello cifre ed appunti, li riportava sopra un grande scartafaccio, faceva somme fra un boccone e l’altro e finita la cena accendeva la pipa e mi faceva cenno d’andare a letto.

Appena lo sentivo alzare la mattina mi levavo io pure, lo accompagnavo per un pezzo di strada seguito da Pastore, tenendo una mano sulla spalla del cavallo per andare di passo. Poi mi dava un colpetto sulla spalla, toccava col frustino il cavallo e lo metteva al trotto. Stavo fermo a guardarlo finché lo scorgevo sparire ed apparire tra i castagni, eppoi mi allontanavo insieme con Pastore, il quale vedendomi afflitto faceva lanci, mi leccava le mani come se volesse, con quelle dimostrazioni d’affetto, compensarmi della indifferenza di mio padre che tanto mi addolorava.

Se in quei momenti vedevo un uccello volare al nido e udivo il lieto pispiglìo col quale lo accoglievano i piccini, mi sentivo assalito da un bisogno immenso di carezze e d’affetto e, gittandomi per terra, abbracciavo Pastore, nascondevo il viso fra il fitto pelame dell’amico mio piangendo lungamente.

Una mattina scendendo di camera per accompagnare il babbo, trovai rigido e disteso dinanzi alla porta di casa Pastore colla bocca coperta di bava; lo palpai, era freddo. Detti un grido disperato e disteso sul cadavere dell’amico mio mi misi a singhiozzare. Il babbo e la zia udendo quelle grida, accorsero. Il primo cercò di consolarmi, la seconda sogghignò, e disse alcune parole che non capii. Ma un pensiero mi balenò nella mente. Vedendo quel sogghigno e rammentando l’ostilità che dimostrava a Pastore, le colpe che gli attribuiva sempre esclamai:

— Babbo, la zia lo ha avvelenato!

A quelle parole la zia sogghignò nuovamente e facendosi rossa rispose:

— Sì sono stata io! Mi strozzava le galline, i piccioni: era un canaccio che dava addosso a tutti…

Mentre essa parlava, mio padre le lanciò un’occhiata di acerbo rimprovero ed accarezzandomi la testa, disse al contadino di aiutarmi a scavare una fossa per deporvi il cane.

Quella morte mi faceva sentire l’isolamento in cui vivevo, inacerbiva il mio risentimento per la zia e mi faceva cercare in mio padre quel conforto che mi mancava. Ma mio padre doventava ogni giorno più cupo, pareva non accorgersi che mi mancava la istruzione necessaria ad ogni bambino e soprattutto che mi mancava l’affetto che ingentilisce il cuore. Una sera tornando a casa con un asino per la cavezza mi disse: — Mario questo è per te, divertiti con lui e dimentica Pastore!

Il ciuchino era grasso e forte ed io lo battezzai col nome di Benvenuto, tanto mi aveva fatto piacere il dono, non per la distrazione che poteva procurarmi, ma perché mi provava che il babbo aveva pensato a me. In Benvenuto riportai tutto l’affetto che aveva avuto per il mio bel cane, esso doventò l’inseparabile compagno della mia solitudine, il solo mio conforto. Appena aprivo gli occhi la mattina andavo nella stalla a strigliare o ravviare il mio Benvenuto, come il contadino strigliava e ravviava il bel cavallino sardo del babbo, sicuro su per le salite e per le scese come un vero abitatore delle montagne. Poi gli montavo a bisdosso ed accompagnavo il babbo per un pezzo di strada. Passavo il resto della giornata a far pascere Benvenuto nei prati dove l’erba era più tenera e più aromatica, e a passeggiare per le viottole che corrono sul monte. Un giorno che, abbandonatagli la briglia sul collo lo facevo andare dove voleva, mi condusse su per una viottola ripida che portava ad una segheria di marmi dove non ero mai stato. Benvenuto batteva volenteroso i ferri sul terreno coperto di frammenti di marmo, quando vedo venire in giù un ragazzo della mia età, pure a cavallo ad un ciuco. I due asini appena si scorsero da lontano incominciarono ad alzare il muso e ragliare ed il ragazzo, allorché mi fu vicino, accarezzò la mia cavalcatura dicendo:

— Prima era mio, ora è tuo questo ciuchino. Non lo strapazzare; è buono ed io gli volevo tanto bene.

— Non dubitare, è il solo amico che abbia.

— Non hai fratelli né sorelle?

— No, sono solo.

— Ma anderai a scuola?

— Neppure.

— Dunque non sai nulla?

Doventai rosso a quella domanda e non risposi.

— Come ti chiami?

— Mario! E tu?

— Io ho nome Bista, ma a casa mi chiamano Galoppino perché sono sempre in giro. La mattina andando a scuola a Sarzana mi danno uova, polli e anatre da portare a un rivendugliolo, dopo la scuola vado alle cave per sapere che cosa v’è da segare, la sera faccio le lezioni, vedi che non ho un momento di tempo nei sei giorni di lavoro, ma la domenica è un altro paio di maniche e mi diverto davvero. Ma addio Mario, addio ciuchino! — e dando una pedata alla sua cavalcatura, intuonò una allegra canzone allontanandosi a sbalzelloni.

Dopo le parole di Bista, m’invase un desiderio vivissimo di aver anch’io fratellini, sorelline, compagni di scuola, occupazioni. Benvenuto mi parve insufficiente a rallegrare la mia vita, ad occuparla intieramente. Bista aveva tutto ciò che mancavami e per questo era allegro, poteva cantare; io non avevo nessuno e dovevo piangere!

Tornai a casa, mi sedei in cucina nel canto del fuoco e quella sera i rimbrotti della zia, il suo brontolio mi parvero più insopportabili che mai, perché non solo rivolgeva contro di me il suo malumore, ma biasimava pure mio padre per aver preso in casa un fannullone di più: il mio Benvenuto. Essa soffiava con rabbia nel fuoco, masticava fra i denti parole sconnesse, ed un riso sinistro le faceva torcer la bocca, quello stesso riso che le aveva veduto sulle labbra allorché trovai Pastore morto. Rimasi così perplesso, dal timore che la zia preparasse all’asino la fine del cane, che non corsi incontro al babbo quando sentii il passo del cavallo che si avvicinava. Mio padre mi guardò distrattamente, non cavò di tasca al solito il taccuino e dopo aver mangiato due bocconi di minestra che pareva gli facesse fogo, respinse il piatto e disse: — Ho venduto la parte che avevo nella cava, e domattina parto. Starò fuori un pezzo, forse degli anni. La rendita di questo poderetto servirà per il vostro mantenimento. Da mangiare non vi mancherà. Io son rovinato, bisogna che vada a guadagnare altrove la vita, non c’è rimedio!

Egli figurava di sorridere, ma le parole gli uscivano a stento di bocca. Ritornò nel canto del fuoco, accese la pipa e fumò tutta la sera. La zia non si chetò mai. Brontolava di dover restare con un ragazzaccio come me, si lagnava che mio padre non avesse fatto meglio gli affari e lo rimproverava di aver messa un’altra bestia inutile nella stalla.

Egli le rispose secco secco che aveva venduto il cavallo, cosicché nel podere c’era da nutrire l’asino, ma vedendo che lei non si appagava di quella risposta, si alzò ed andò a letto senza darmi un bacio.

Mi destai all’alba sognando che mio padre era partito. Corsi in camera sua; non c’era. In cucina, nella stalla neppure! La zia che dava al solito il becchime ai polli mi disse:

— Ora riga diritto, perché sei affidato a me!

Capii che ero solo, che mio padre non aveva avuto il coraggio di dirmi addio, e feci a me stesso la promessa di diventare un uomo.

Andai incontro a Bista sulla vallata da cui doveva passare per andare a scuola, ci salutammo come vecchi amici, gli dissi quanto avevo sofferto per la partenza del babbo, quanto desideravo d’imparare e di lavorare. Mi invitò ad andare subito dal suo maestro ed infatti lo accompagnai per un pezzo di strada, ma quando fummo vicini alla scuola, mi venne fatto di domandare se era una scuola a pago.

— Di certo! — rispose Bista — Nessuno fa nulla per nulla! Si pagano cinque lire al mese.

Quelle parole mi gelarono e facendo a Bista un cenno colla mano voltai briglia per tornare a casa. Quando entrai in cucina, la zia stendeva sulla spianatoia una pasta frolla di cui era ghiottissima e cantava. Vedendomi fece il broncio.

— Voglio andare a scuola, le dissi.

— Senti come dice voglio! Pare che sia il padron di casa. Se hai quattrini da buttar via serviti pure — e senza badare più a me, si mise a tagliare la pasta.

La sera spiai il passaggio di Bista e mettendo Benvenuto accanto al suo somaro, gli dissi tremando:

— Guarda se il tuo babbo m’impiega nella segheria. La zia non vuole pagar la scuola ed io voglio imparare.

Bista si commosse per la mia risoluzione, mi dette un colpo sulla spalla e mi disse:

— Saremo sempre amici.

Il padre suo era davanti all’uscio di casa, che stava a veder caricare sopra un barroccino tante lastre di marmo, e tre bambini piccoli lo circondavano. Essi batterono le manine riconoscendo Benvenuto e, appena fui sceso, lo presero per la briglia e lo condussero nella stalla.

Bista intanto aveva parlato di me al babbo suo. Questi squadrandomi ben bene, mi disse:

— Che cosa vuoi che ne faccia di te? — Arrossii e chinai il capo. Si accorse di avermi fatto pena e riprese: — Se però vuoi attaccare il ciuco ad un carretto ed andare a caricar rena al torrente, a pagarti la scuola ed i libri ci penserò io.

Il cuore mi fece fare un balzo e non ebbi forza di articolare una parola.

Da quella sera non passò giorno che non mi trovassi alla segheria in mezzo alla famiglia di Bista. Mi alzavo all’alba per istrigliare Benvenuto ed andare a scuola, poi caricavo la rena, ritornavo in sul tardi ed a casa solamente a notte. Là, invece di buone parole mi aspettavano rimproveri, scapaccioni ed un piatto di minestra ghiaccia. Ero sempre stanco morto, soffrivo il freddo, ero fradicio mezzo quando pioveva, ma mi pareva d’essere meno infelice che per il passato. La speranza di potermi sottrarre mercé il lavoro al giogo della zia, di riunirmi a mio padre, mi sosteneva e mi consolavano pure l’allegria di Bista e le belle domeniche che passavo in mezzo ai suoi.

In capo a tre mesi sapevo leggere, scarabocchiavo qualche quinterno e baciavo e ribaciavo una lettera che mio padre mi aveva scritto da Genova, nella quale si scusava di avermi lasciato e mi prometteva che ci saremmo riuniti presto.

Con quella lettera sotto il capezzale mi coricai una sera lieto e fiducioso, ma la mattina dipoi quando andai nella stalla per dare il buon giorno a Benvenuto, provai un dolore intenso trovando il suo posto vuoto. Non andai neppure a cercarlo, tanto ebbi subito la convinzione che la zia aveva voluto togliermi l’unico conforto che avessi.

Uscii senza fiatare, corsi a nascondermi dietro un castagno e là, piansi a lungo. Capivo che senza il mio ciuchino non avevo più mezzo di guadagnare il necessario per la scuola, capivo che dopo quella cattività della zia non avrei più potuto vivere nella casa di mio padre.

Calmato un po’, andai a casa di Bista e narrai tutto al suo babbo, il quale era commosso udendo quanto avevo sofferto. Gli vedevo spuntare le lagrime sugli occhi, mentre accompagnava il mio racconto con esclamazioni di stupore.

Mi consigliò a tornare a casa e mi promise che si sarebbe occupato di me. Che in tanto continuassi ad andare a scuola.

Dopo alcuni giorni mi collocava da un suo conoscente che aveva uno studio di scultura a Sarzana. La zia contentissima di non avermi più dintorno, dette subito il consenso necessario.

La mia occupazione consisteva nel tenere in ordine lo studio, gli arnesi, e nell’aiutare lo scultore mentre modellava. A tempo avanzato egli m’insegnava il disegno, nel quale feci presto rapidi progressi. Ogni domenica per altro mi dava libertà ed io andavo alla segheria ed intanto, passando dalla villa, sentivo se c’erano notizie del babbo, ma mi trattenevo poco perché la vista della zia mi rammentava cose troppo penose. Essa brontolava meno, era diventata pigra, grassa e non pensava ad altro che a mangiare.

Una sera d’inverno il contadino che abitava vicino alla villa, venne a Sarzana correndo per chiamare il medico e me perché la zia moriva. Aveva avuto un colpo apoplettico e non dava più segni di vita.

Quando giungemmo lassù, aveva ripresi i sensi, ma le gambe erano rimaste paralizzate. Vedendo quella donna, che era sorella di mio padre, immelensita, paralitica sentii svanire tutto il rancore che le portavo e provai un senso di profonda commozione.

Intanto io aveva imparato a sbozzare il marmo, guadagnavo qualche cosa; presi una donna che assistesse la zia e continuai a lavorare con maggior ardore di prima.

L’approvazione di mio padre mi era di stimolo a fare. Incominciai a modellare in creta, guadagnai meglio e scrissi a mio padre di venirmi a raggiungere, perché ero uomo ed avevo mezzi sufficienti per bastare al mantenimento di noi tre. Per tutta risposta ebbi la notizia della malattia di lui e poche ore dopo quella della sua morte.

Una cara speranza svaniva sul punto di realizzarsi! Non mi rimaneva altro parente che la inferma ed a lei tanto bisognosa d’aiuto mi dedicai intieramente, incoraggiato in ciò da Bista e dalla sua famiglia.

Avete conosciuto la zia negli anni passati. Vi assicuro che io avevo imparato a volerle un po’ di bene ed essa a momenti fissava su di me gli occhi come se volesse chiedermi scusa di avermi amareggiato l’infanzia e l’adolescenza; ma poi la naturale durezza riprendeva il sopravvento e mi faceva spostature e boccacce se non la contentavo in tutto. Stette un momento silenzioso e quindi ci domandò:

— Sapete ora che cosa significhi la parola dovere?

— Si! risposi io prontamente. Cure, abnegazione senza speranza di ricambio, ed avvicinandomi a lui gli accarezzai la mano.

Raccontammo la storia dell’amico nostro alla mamma ed insieme con lei visitammo lo studio di Mario a Sarzana. Allora il nome del nostro scultore era noto soltanto agli artisti della piccola città che dette un tempo asilo all’uomo dalle quattro teste che i contemporanei ed i posteri chiamarono divino: a Michelangiolo. Ora quel nome è noto anche al di là dei confini del nostro bel paese, ma Mario non è cambiato. Lavora con cura, con abnegazione, si dedica all’arte come si dedicava alla zia, senza desiderio di onori, di lucro, e il lavoro stesso gli serve di ricompensa.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Dovere
AUTORE: Emma Perodi

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.

SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti