Nel 1943, durante l’occupazione nazista dell’Ungheria, quattro amici decidono di trasferirsi da Budapest a Budaliget, in periferia, presso la casa di campagna di uno di loro. Si tratta di quattro artisti, che sperano così di allontanarsi dal caos del centro, che inaridisce l’ispirazione, e di recuperare un po’ di serenità nel mezzo di un momento storico burrascoso. La situazione di isolamento e di contatto con la natura si presta a un’interrogazione sul senso della vita: i quattro amici passano molto del loro tempo a discutere sul senso delle cose e a porsi domande ultime. Un giorno, durante la conversazione, una di loro comincia a parlare con una voce diversa dalla sua, annunciando di non essere più lei a parlare ma qualcun altro, che farà loro delle rivelazioni circa il loro essere e il loro destino. Quest’«altro» che parlerà tramite lei verrà chiamato dal gruppo «l’angelo», ritenendolo in qualche modo loro guida e loro custode. Allo sterminio nazista soltanto una di loro, Gitta Malasz, sopravviverà e riuscirà a pubblicare le «rivelazioni dell’angelo» di quegli anni. Il libro si chiamerà Dialoghi con l’angelo e verrà pubblicato in dodici lingue, anche al di fuori dell’Europa.
Questa è la storia raccontata nel film di Gabriele Fonseca, scritto da Giulietta Bandiera, dal titolo omonimo (ed. Anima, 2009). Alle scene narranti la storia descritta sopra si intercalano brani del libri citato e interviste a personaggi più o meno noti e qualificati, tra i quali il regista Win Wenders e il filosofo catalano Raimon Panikkar, ma non di meno un’angelologa (cui viene riservata la maggior parte dello spazio).
Chi si attendesse da questo film delle rivelazioni – appunto – particolari, o anche delle illuminazioni sul senso della propria esistenza, rimarrebbe certamente deluso. Non vi è infatti nessun approfondimento filosofico o teologico: tutto si riduce a citazioni sparse, in forma di aforismi, di una genericità che potrebbe attagliarsi a chiunque e a qualunque occasione (il che purtroppo non ne qualifica l’universalità – come vorrebbero gli autori – ma soltanto l’inconsistenza. O, se si vuole, si conceda l’universalità: ma con lo stesso nerbo – e la stessa utilità – con cui si concede che tutti gli uomini universalmente mangiano, bevono, dormono). La situazione è peggiorata dall’ambiguità del linguaggio utilizzato, a partire dal termine del titolo, dove l’«angelo» sembrerebbe attingere alla tradizione cristiana, ma viene poi qualificato come la coscienza, il sé, la parte più profonda dell’uomo ecc., in maniera da risultare infine disorientante.
Per chiudere, l’idea di fondo che non tutto sia materia ma che vi sia nella realtà una dimensione ultra-materiale (spirituale, se si vuol utilizzare il termine) non solo non è originale, ma non ha neanche bisogno di «rivelazioni» particolari a singole persone che ne rendano testimonianza. Va sottolineato che l’intervento di Raimon Panikkar – nel quale il filosofo esprime convinzioni già abbondantemente riportate nei suoi scritti e che con il tema del film hanno ben poco a che vedere – dura una manciata di secondi. In definitiva, la storia di Gitta Malasz potrà anche essere biograficamente interessante al pari di quelle di tanti sopravvissuti al nazismo, ma a ciò ben poco vi è da aggiungere. Francamente dispensabile.