Convivere con l’Alzheimer, così potrebbe essere sintetizzata la storia raccontata in Still Alice da Lisa Genova, neuropsichiatra del Massachusetts, al suo primo romanzo, autoprodotto e distribuito porta a porta dalla sua autrice a partire dal 2007. Da allora il percorso letterario della studiosa di Harvard è stato tutto in ascesa. Non ti aspetti che una ricercatrice delle più insidiose e complicate malattie del cervello abbia anche un indubitabile talento per la fiction, ma tant’è: di passaparola in passaparola, il romanzo viene letto e apprezzato da una giornalista di un grande quotidiano americano. Poi si fa avanti Simon & Schuster, che lo ripubblica facendolo diventare un best seller.

Qui da noi era uscito, un po’ in sordina, nel 2010, col titolo di Perdersi, per la efficace traduzione di Laura Prandino, ma sulla scia della pellicola basata sul libro (interpretata da Julianne Moore che in seguito ha vinto l’Oscar come migliore attrice protagonista), è stato ristampato da Piemme lo scorso gennaio. In copertina la locandina del film e il ritorno al titolo originale in lingua inglese. Perdersi diventa una sottotraccia carica, a mio avviso, di significato, che ben evidenzia un bilanciamento di «visioni»: sta al lettore – in una storia che comunque non offre scappatoie – la scelta del bicchiere mezzo pieno, del porre l’accento su «quel che rimane di Alice» o partecipare con amarezza e una fatalistica rassegnazione a quello che del personaggio si va perdendo, senza rimedio.

Alice Howland, la protagonista, è una professoressa di psicolinguistica, una che ha imperniato la sua vita sul linguaggio e sui processi cognitivi. «[ […]] ripensò alle statistiche secondo le quali molte persone avevano più paura di parlare in pubblico che della morte. A lei invece piaceva. Le piaceva tutta la concatenazione di momenti che componeva un discorso di fronte a un pubblico in ascolto: insegnare, recitare, raccontare una storia, gettare le basi di un animato dibattito. Le piaceva la sensazione dell’adrenalina. Più era alta la posta in gioco, più sofisticato o addirittura ostile era il pubblico, più l’esperienza la esaltava». Donna brillante e in carriera, ospite di prestigiosi congressi internazionali, Alice comincia a perdere colpi: prima è una parolina smarrita nel bel mezzo di un discorso, e poi il disagio straniante di non ritrovare la strada di casa mentre fa jogging. Un itinerario familiare, che collega la sua abitazione all’università dove ha insegnato per venticinque anni.

All’inizio ti convinci con Alice che i sintomi di cui soffre sono «sfumati» e potrebbero essere riconducibili ad altrettanti, ragionevoli fattori: lo stress lavorativo, l’incipiente menopausa (la donna ha da poco raggiunto la cinquantina), l’insonnia e via discorrendo. Per il resto è in salute, il suo fisico è tonico ed efficiente. Ma forse è il caso di sentire un parere medico. Inizia così una trafila di test, molti dei quali le risultano assai familiari: l’Effetto Stroop, le Matrici Progressive di Raven, la Rotazione mentale di Luria, il test Benton per la valutazione della memoria visiva eccetera. Ma questa volta Alice Howland non era lì a fungere da dato di controllo. Era lei il soggetto da esaminare. E arriva quel momento, irriferibile, in cui uno specialista richiama all’appello la tua consapevolezza, con una spietata precisione professionale: i dati in suo possesso, il deterioramento della memoria recente che appare sproporzionato rispetto alla sua età, tutto propende per una diagnosi di Alzheimer precoce.

Lisa Genova

Il senso della vicenda di Alice, assimilabile per molte analogie alle tante storie di chi è colpito da una malattia incurabile, è nello iato tra le righe scritte. Una malattia subdola e misteriosa come l’Alzheimer, la cui diagnosi certa è possibile (al di là di riscontri che hanno comunque un altro grado di attendibilità) solo dopo il suo esito infausto, con una biopsia del tessuto cerebrale in corso di autopsia, getta nello sconforto. È talmente lacerante, questo perdersi più o meno progressivo, che la stessa Alice preferirebbe avere un cancro terminale in luogo della malattia che un brutale destino ha avuto in serbo per lei. Un tumore crea coesione tra gli affetti, ti rende simile a un martire; l’Alzheimer, invece, ti rende pazzo, e come tale sei visto dagli altri. Ti procura un esilio permanente da ogni relazione, colmabile in parte dalle attenzioni di chi ti vuol bene (o voleva bene a quel che eri) ma che non ti può essere di alcun sollievo quando hai perduto anche gli ultimi frammenti di memoria che ti restano. Anche il pensiero del suicidio, come ottica dell’autodeterminazione e del libero arbitrio, è qualcosa di aleatorio, che scompare rapido come la capacità raziocinante di inquadrare la tua vita in una prospettiva temporale.

Julianne Moore in Still Alice

Dopo la diagnosi, il romanzo diviene un estenuante conto alla rovescia, una lotta contro il decadimento, uno sforzo titanico per ritardare il processo, per tentare di convivere con la malattia, per contenere un’identità che si sfalda e ti scorre attraverso le dita, come una manciata di sabbia. C’è in Alice anche il ruolo della madre protettiva, sgomenta all’idea di aver trasmesso geneticamente la malattia ai suoi figli. Le indagini vengono condotte anche in questa direzione da chi l’ha in cura. Ma è difficile stabilire se il vecchio padre, che pure dava segni di demenza a partire dall’età che ha adesso Alice, sempre ubriaco fradicio e responsabile della prematura morte della madre e della sorella in un incidente stradale, avesse rivelato segni di decadimento cognitivo per l’Alzheimer o per la sua abitudine al vizio e all’eccesso. È straziante anche il rapporto che si configura tra Alice e la figlia più giovane, Lydia, disapprovata dalla madre per essersene andata a vivere a Los Angeles, col miraggio di diventare attrice invece di seguire un regolare iter di studi universitari. In questo la figlia è supportata dal padre John, che la mantiene a sue spese, contro il parere della moglie. Alice assisterà a un’interpretazione della figlia quando ormai la malattia l’avrà fortemente debilitata:

Julianne Moore in Still Alice

[ […]] «Avremo occasione di vederla in qualche altro allestimento quest’estate?» chiese Alice.

La ragazza fissò Alice per un tempo fastidiosamente lungo prima di rispondere.

«No, è il mio unico ruolo per l’estate.»

«È qui solo per la stagione estiva?»

La domanda sembrò intristirla mentre la prendeva in considerazione. Le si riempirono gli occhi di lacrime.

«Sì, rientrerò a L.A. alla fine di agosto, ma tornerò spesso a trovare la mia famiglia.»

«Mamma, è Lydia, tua figlia» disse Anna.

La scrittura di Lisa Genova è in terza persona ma abbraccia, soprattutto nella prima parte del romanzo, il punto di vista di Alice e la terribile scoperta della malattia. Se questo libro ha avuto un grande successo è anche perché l’autrice conosce molto bene la materia di cui parla e vi si accosta con grande verosimiglianza e rispetto, partecipe del dolore di chi è colpito dal male ma anche da chi gli sta accanto. La scrittura è scarna e diretta, mai debordante, non deraglia nel patetico, non si compiace di spiattellare realtà scomode o di rivelare le pieghe più disturbanti di una patologia che, con l’aumentare della vita media della popolazione, sta registrando, secondo le statistiche, un incremento.

Ho letto recensioni consolatorie su questo libro. Che leggerlo è un modo di avvicinarsi alle difficoltà di chi lotta contro la malattia, che si può capire come accettare e convivere con l’Alzheimer senza lasciarsi andare prima del tempo. Che possa fornire informazioni mi sta bene; una patologia come questa è qualcosa di troppo oscuro e vasto se non se ne ha nozione e poterlo circoscrivere nel recinto della nostra ragione ci rende in parte più saldi, meno inclini a farci soverchiare dal male. Ma dubito che si possa mai accettare l’Alzheimer, un morbo che prima o poi ti spazza via ogni ricordo, come se formattasse un disco fisso. È la tua memoria che si cancella, e non c’è ritorno. Ritardare il processo non dipende da te, ma da fattori esterni: la terapia, l’incedere del deterioramento, di quali facoltà puoi ancora disporre. Se le idee si possono comunicare, il dolore di una simile perdita non è trasferibile e non possiamo dirci preparati ad affrontarlo solo perché abbiamo letto un libro.

Julianne Moore in Still Alice

C’è un passaggio del romanzo che rivela molto, a mio avviso. Alice è in cucina, ai fornelli. C’è da preparare un arrosto e un budino di pane alla cioccolata bianca. In soggiorno ci sono i suoi famigliari; Lydia la sta assillando con un monologo sull’arte della recitazione; Anna sta cercando un cavatappi. Alice lotta per escludere le voci delle figlie, per concentrarsi sul suo esercizio mnemonico, ricordare nell’unità di tempo alcune parole estratte casualmente da un dizionario, con un ordine crescente di difficoltà. Quante volte aveva preparato quel budino? Eppure ora gli ingredienti le risultavano estranei. Prende in odio le uova e le scaraventa con tutte le sue forze nel lavandino. C’è in lei una caparbia volontà di opporsi, di resistere con tutto il vigore che ancora le rimane, all’incedere implacabile dell’Alzheimer. Questa è l’Alice che i suoi cari hanno conosciuto, quella che rimarrà, quasi foscolianamente, nel loro cuore e nella loro memoria, prima di perdersi, prima che a essa si sostituisca una donna folle e senza storia. Qui è ancora Alice, Still Alice, come ci narra così bene Lisa Genova, nel tentativo di raccontare il dolore di convivere con l’Alzheimer.

Pubblicato per la prima volta in Sul Romanzo il 09/05/2015