Confessione
di
Guido Cremonese
tempo di lettura: 15 minuti
Avevo giurato a Mario Terlizzi un odio mortale; e finchè non lo ebbi ucciso, il mio spirito non trovò pace.
Io non credo di essere un delinquente, almeno nel senso volgare che si dà a questa parola. Non ogni omicida è di necessità un delinquente, come non ogni delinquente è per forza omicida.
Le passioni a lungo covate finiscono per esplodere in un delitto, e poi lasciano l’uomo, l’omicida, calmo, inoffensivo, ostile alla violenza: le uccisioni avvenute in seguito a provocazione grave, in uno scatto d’ira; i duelli voluti dalle convenzioni, ne sono una prova.
Ma certo è che, da letterato, da esteta, ho voluto vendicarmi del mio nemico in un modo nuovo: e di più, ho voluto dare al delitto una pubblicità, un seguito clamoroso, degno in tutto di un artista noto, come ormai io sono, da più anni.
Quel Terlizzi, d’altronde, lo aveva voluto!
Gretto di carattere, interessato, avido, egli ha sempre seguito le mie orme tutte le volte che sul mio cammino c’era qualcosa di nuovo e di grande da tentare, o qualche guadagno da intascare.
E allorchè ha potuto ghermirmi ciò che, nella lotta della vita, io consideravo come mia preda di pieno diritto, egli lo ha fatto senza scrupoli, aggiungendo poi, alla colpa, il dileggio.
Non possedeva le mie qualità intellettuali; ma aveva su di me due vantaggi che gli riconosco senza difficoltà: l’astuzia di farmisi creder buono, pentito, amico; l’abilità nel derubarmi.
Ma, a parte ciò, non gli riconosco nessun merito intellettuale, nessuna genialità: anzi dirò che, come tutti i furbi, era un tipo di degenerato e di mediocre: ed i suoi furti lo provano.
Quando lo ebbi ucciso, volli completare, incorniciare – dirò così – l’opera vendicatrice: ed in una delle mie migliori novelle, la migliore dal lato umano, per le profondità psicologiche che contiene, descrissi ogni cosa.
La novella fu pubblicata, due mesi or sono, dalla Voce dell’Arte: ed io la riproduco ancora una volta qui, sperando, alla fine, di trovare chi, nel fondo dell’opera artistica, scorga una verità confessata.
«MEMENTO MORI…
«Io ho ucciso Mario Terlizzi!
«Mi denunzio spontaneamente, perchè vedo che la polizia non riesce a scuoprire le tracce dei mio delitto.
«Perchè mi denunzio?
«Non per rimorso, certamente. È un acre bisogno di vendetta postuma: perchè io credo alla sopravvivenza delle anime; e sono certo che quella di Terlizzi, dannata ad aleggiare intorno a me con rabbia impotente, si sentirà di nuovo e più profondamente uccidere ora che, inchiodando lui alla gogna, io mi denunzio, ed al mio lego indissolubilmente la storia dei suoi delitti.
«Meglio ancora: io non ho più scopo nella vita; perchè, se il mio destino era quello di vivere legato a Terlizzi con una catena d’odio, ora che l’ho ucciso non ho altra finalità nell’esistenza, che quella di svergognarlo e di annientare tutto ciò che di buono egli può aver lasciato al mondo nella memoria di coloro che lo conobbero.
«Una volta ridotta allo sfacelo la sua figura morale nel ricordo di quanti lo udirono mai nominare, a me non rimane che morire.
«Quale è stata la fine di Mario Terlizzi?
«Dai rapporti dei giornali – che sono, pel contenuto, simili a quelli della polizia – risultano questi fatti.
«Alle ore dodici e mezzo del 24 luglio scorso, il custode dell’Accademia di Belle Arti, non vedendo uscire Terlizzi dallo studio, come era sua immutata abitudine, andò a bussare all’uscio per chiedergli se gli abbisognasse qualcosa.
«Non ricevendo risposta, girò la maniglia. L’uscio non era chiuso a chiave.
«Entrato, vide uno strano spettacolo.
«Lo studio di Terlizzi era una grande sala con finestrone ad abbajno, come sono tutti gli studi dei pensionati, all’Accademia di Belle Arti.
«Vi erano numerose tele incominciate, appese o appoggiate alle pareti; qualche gesso, una maschera di Beethoven, delle stoffe, delle armi.
«I mobili si riducevano a due cavalletti, un divano, tre sedie, un tavolino ed un grande tavolo.
«Terlizzi era molto amante della miniatura; e quel grande tavolo, e l’alto sgabello, reso più comodo da un cuscino di pelle, erano i suoi mobili preferiti, il suo luogo di elezione.
«Se ne stava delle ore intere a sporcare – non posso dir diversamente – delle pergamene e delle tavolette di avorio: ed il ricevere una visita in quella sua posa piena di pretese, sbuffando fumo dalla pipa e dimenando la testa ornata da un berretto raffaellesco, erano per lui i gaudii più profondi dell’esistenza.
«Il vecchio Nicola, adunque, nell’entrare, vide Terlizzi che, con gli occhi spiritati nell’enorme rima delle palpebre, ma privi di lucentezza e di espressione, col volto cereo, se ne stava appoggiato allo schienale dell’alto sgabello, con un gomito sul tavolo e con una mano penzoloni. La mano appoggiata sul tavolo teneva, fra le dita, la pipa inseparabile.
«Le linee di Terlizzi esprimevano il più profondo spavento: i suoi occhi erano rivolti verso la porta.
«Al primo momento, Nicola credette che, svegliatosi all’improvviso, si spaventasse della sua entrata o di qualche sogno lugubre: ma poichè l’immobilità di Terlizzi perdurava e l’espressione del suo volto era quanto di più spaventevole possa dare l’immagine dello sgomento, Nicola tremò.
«Avvicinandosi cautamente, con la vecchia esperienza dell’uomo che ne ha vedute d’ogni colore, comprese che Terlizzi era morto: e siccome la cosa era strana e impressionante, si volse per uscire, risoluto a correre al più presto dal commissario di polizia per togliersi d’addosso qualunque responsabilità.
«Ma, nel rifare la strada percorsa, uno strano cartello gli colpì l’immaginazione e lo fece rimanere lì, impalato, a bocca aperta, per alcuni minuti.
«Il cartello, a caratteri romani, scritto evidentemente da persona pratica nel disegno, diceva semplicemente:
«Memento Mori.
«Egli lo sapeva il significato di quelle due parole. Aveva sentito dire più volte che i trappisti, quando s’incontrano, non si scambiano altri discorsi: uno dice memento e l’altro risponde mori.
«Evidentemente, gli occhi di Terlizzi, nel momento in cui la morte lo fulminava, avevano guardato quel cartello.
«Con la crollata di spalle che è propria ai filosofi della sua specie, Nicola chiuse dietro di sè la porta, ne pose in tasca la chiave ed andò difilato al più vicino posto di polizia.
«La denunzia fu breve, e l’opera del funzionario più breve ancora.
«Si recò sul luogo con due agenti; diede un’occhiata allo studio; non vide nulla di anormale se non il cartello sulla porta: richiuse e se ne andò a fare il rapporto al Procuratore del Re, scrivendo press’a poco queste parole
«Il pittore Mario Terlizzi è stato trovato morto su uno sgabello, nel suo studio. La morte lo ha colpito mentre lavorava. Sulla porta vi è un cartello che reca scritto le parole memento mori, che il custode afferma di aver veduto oggi per la prima volta. Può darsi che, colpito da quelle parole che debbono attribuirsi ad uno scherzo di qualche compagno, essendo forse una persona impressionabile, il pittore sia stato preso da sincope. L’autopsia dirà se questa ipotesi è giusta. Null’altro, nello studio dell’artista, dà adito a sospetti su una morte non naturale».
«Poi, dopo aver fatta una infruttuosa perquisizione nella camera mobiliata ove Terlizzi abitava, e dopo una sommaria inchiesta sulle sue relazioni e sulle persone che potevano essere andate a visitarlo il giorno della morte, il commissario unì il nuovo verbale al referto precedente, e… per proprio conto si dichiarò soddisfatto.
«La sera i giornali riportarono la notizia della morte. Alcuni aggiungevano grandi lodi all’estinto, note biografiche in cui si ricordavano due invenzioni che lo avevano reso noto: un nuovo areoplano ed un potentissimo esplosivo.
«Queste due invenzioni sono mie, e Terlizzi se ne è impossessato al momento buono, e le ha lanciate come sue, non riuscendo però a cavarne il profitto che avrei saputo trarne io. È proprio vero che la farina del diavolo va in crusca.
«L’autopsia non rivelò nulla.
«Il giudice istruttore concluse che si trattava di una sincope dovuta a spavento prodotto in un individuo psicopatico da un cattivo scherzo di compagni; e non trovando nello scherzo l’estremo di un delitto, chiuse l’inchiesta, mandando i documenti agli atti, cioè a dormire in archivio il sonno dell’eternità.
«Ora – domando io – come si fa ad esser così leggeri nel condurre e soprattutto nel chiudere un’istruttoria senza aver ricercato certe causalità che dovrebbero star fitte nella mente di ogni magistrato inquirente?
«Ammettiamo lo scherzo di cattivo gusto – il cui autore sarei io, perchè io ho scritto e messo a posto il cartello. Che cosa doveva far pensare quel semplice fatto?
«Se realmente Terlizzi era uno psicopatico, e se uno scherzo di tal genere poteva condurlo a morte, non era presumibile che l’autore dello scherzo conoscesse la debolezza fisico-psichica di Terlizzi ed avesse tentato, a scopo delittuoso, di spaventarlo?
«Ma se lo scopo delittuoso c’era, non era ammissibile che vi fosse un perchè?
«E se qualcuno aveva una ragione per uccidere Terlizzi, non era il caso di cercare se, oltre quell’innocuo cartello, altri mezzi fossero stati messi in azione per toglierlo di vita?
«È ammissibile che, se un uomo vuol toglier la vita ad un altro, si contenti solo dell’opera di un cartello suggestivo?
«A dirla franca, signor giudice inquirente, potranno questi ragionamenti sembrar concatenati un po’ forzatamente; ma è certo che voi, che ordinariamente volete trovare il delitto in ogni caso dubbio di morte, dovevate – ammessa la prima ipotesi di una morte… naturale accelerata da una volontà esteriore – seguire il filo degli effetti e delle cause fino al… gomitolo. Perchè un gomitolo c’è.
«Ed allora, al vostro posto, avrei fatto una cosa… o piuttosto, ne avrei fatte molte: perchè voi non avete osservato bene, non già il cadavere, che i medici hanno rovistato fin nell’ultima fibra, ma gli oggetti, i mobili che stavano intorno ad esso: voi non avete fatto analizzare il tabacco della pipa, che poteva essere avvelenato; voi non avete fatto studiare la corrispondenza di Terlizzi (eppure molte lettere erano lì, in un cassetto del tavolino, e la più compromettente l’ho ritirata io, ieri, dopo chiusa l’istruttoria!) – voi, infine, non avete curato di sapere se Terlizzi avesse dei nemici, se avesse fatto del male, se qualcuno potesse desiderarne la morte.
«Eppure questi fatti erano notorii: I, che all’esame del pensionato artistico io aveva, oltre al mio – con un miracolo di sveltezza – fatto il saggio di Terlizzi, facendogli così guadagnare il posto interno all’Accademia; II, che fin dalla prima gioventù io e Terlizzi eravamo amici-nemici, avendo più volte questionato per gravi torti da lui fatti a me; III, che io mi ero spesso lamentato perchè due brutti quadri di Terlizzi, premiati per l’originalità dell’invenzione, erano due soggetti rubati a me; IV, che quantunque ci fosse una ruggine latente, ci vedevamo spesso – essendo costretti a lavorare sotto la stesso tetto – e talvolta ci facevamo degli scherzi pungenti ed anche… sanguinosi; V, che l’areoplano di Terlizzi era una invenzione rubata a me, che, per il mio carattere indifferente, non avevo fatto altro, contro al ladro, che protestare sui giornali; VI, che altrettanto era avvenuto per l’esplosivo; VII, che negli ultimi tempi io – io che ero lo studioso fra i due – facevo degli esperimenti su un terribile veleno; e che avevo questionato con Terlizzi per la sua inframmettenza.
«Perdio! Questi sono fatti notorii: ed avrebbero dovuto di per sè bastare – in un magistrato acuto – e far nascere dei dubbî e spingerlo a delle ricerche.
«E se voi, magistrato, aveste fatto delle ricerche, avreste trovato questi straordinari eventi.
⁂
«Risoluto a liberarmi di quell’essere vile, la cui vicinanza – divenuta odiosa per me – eccitava nel mio animo le più furiose passioni, io volli giuocare con quello spirito che il pubblico riteneva acuto: io volli fare di lui stesso lo strumento della mia vendetta.
«Nulla di più dolce che vedere un malfattore che vi ha derubato, un delinquente che si ritiene insuperabile nell’astuzia, cadere nella rete che gli tendete, e apparecchiare, complicare egli stesso, inconsciamente, la trama che sarà causa della sua rovina. Io il gatto; egli il sorcio fra le mie grinfe.
«Sentivo la vicinanza di quell’individuo come un alito pestifero: il suo occhio bieco e sfuggente, nel posarsi su me, mi dava la sensazione di una scarica elettrica: provavo il bisogno di sopprimerlo, ed allo stesso tempo il desiderio intenso di colpir prima l’anima – la furberia – uccidendo il corpo col solo strumento della sua stessa astuzia artificiosa.
«Cominciai a parlare a Terlizzi di una mia nuova invenzione. Non ci volle altro per farlo ridivenire un assiduo seccatore.
«L’invenzione consisteva in una nuova arma silenziosa, atta a sopprimere il peggiore nemico senza lasciar traccia del delitto.
«Terlizzi seguiva i miei ragionamenti: con attenzione avida quanto inutile, spiava le esperienze che io fingevo di fare e che davano sempre un risultato negativo.
«Finalmente un giorno gli dissi:
«— Tu solo puoi ajutarmi a raggiungere l’intento. Ma, da galantuomini, stavolta, divideremo gli utili.
«— Sta bene… – biascicò il ladruncolo, fissandomi avidamente.
«— Tu hai molte conoscenze all’estero…
«— Sì… persone d’affari.
«— Ne conosci qualcuno nelle Indie?
«— Sì.
«— Capace di soddisfare una tua richiesta?
«— Ho un amico carissimo che da dieci anni è a Calcutta, dove ha fatto fortuna. So di poter contare su di lui.
«— Ebbene: scrivigli subito che mandi al mio indirizzo ciò che gli chiederò.
«— Perchè non al mio?
«— Non mi fido più: ti conosco.
«— Dopo tutto, io non so in che cosa consistano i tuoi esperimenti. Non potrei, quindi, ingannarti.
«— Non importa. Siedi subito a quel tavolo, e scrivi la lettera. Altrimenti non se ne fa nulla.
«— Ma…
«— Non una parola di più: aut aut.
«Terlizzi, sotto i miei occhi, scrisse all’amico la lettera, fece l’indirizzo e me la consegnò aperta. Io vi insinuai un foglietto in cui chiedevo al più presto, per alcuni studi scientifici, una boccetta di veleno del cobra capello – il veleno di serpente il più terribile che esista.
«Sapevo, per averlo letto più volte, che una puntura, fatta con un ago intinto precedentemente in quel veleno, dà una morte fulminea. E, per di più, non lascia tracce all’autopsia. Ormai la mia vendetta era certa. Tesa la trappola, non mi rimaneva che aspettare pazientemente che vi cadesse la preda. E quando ebbi impostata la lettera di Terlizzi, aspettai con relativa calma la mia rivincita.
«Passò così un mese e mezzo. Ogni giorno che nasceva era per me il principio di un’ansia nuova. La vendetta a lungo carezzata, la speranza di una prossima realizzazione, acuivano in me l’impazienza e insieme la paura che il veleno desiderato non giungesse.
«E intanto Terlizzi era più che mai assiduo nel mio studio: e mi interrogava (a suo credere) abilmente: ed usava mille sotterfugi per istrapparmi il segreto della nuova invenzione.
«E con una freddezza, con una calma che mi compiacevo di analizzare in me stesso, provando gioje e dolcezze celesti, io lo invischiavo sempre più nel mio giuoco.
«Finalmente il giorno tanto desiderato giunse.
«In un pacchetto accuratamente confezionato l’amico mi mandava, come preparato fotografico, il veleno agognato.
«Craint la lumiére, portava scritto vicino all’indirizzo: ed in tal modo era passato senza diffidenze; e nessun curioso aveva osato aprirlo e vederne il contenuto.
«Un’ora dopo, Terlizzi, tornando al suo studio, vi trovava una lettera dell’amico.
«Entrò da me e mi chiese un po’ concitato:
«— È arrivato?
«— Eccolo! – esclamai trionfante, mostrandogli il pacchetto.
«— Fa’ vedere…
«— Non si può; vedi: c’è scritto craint la lumiére. Rassegnati. È un’operazione da farsi di notte. La luce rovinerebbe il preparato.
«— Ma sai che cosa mi dice l’amico?
«— Che cosa?
«— Mi dice che è un terribile veleno. Mi dice che tu stia attento nel maneggiarlo, badando se hai qualche scalfittura alle dita…
«— Sta’ tranquillo. So di che si tratta.
«— Mi dice pure che può essere usato a scopo delittuoso… e che non vuole che si sappia che egli lo ha mandato.
«— Brucia la lettera.
«— La brucerò. Ma…
«— Ma bada che ora ho in mano un’arma con la quale potrei sopprimerti quando mi piacesse… Per conseguenza, non seccarmi.
«Risi forzatamente di quello che voleva essere uno scherzo, e Terlizzi – presago forse – provò a sorridere, ma non disse altro.
«Cosa strana, anzichè perseguitarmi con le sue assiduità dei giorni precedenti, ora pareva quasi evitarmi.
«Con ogni precauzione io incominciai le mie esperienze. In cima alla canna da passeggio infilai uno spillo che intinsi nel mio veleno; e durante la passeggiata ebbi agio di constatarne l’efficacia col far cadere fulminati tre cani, dei quali uno grossissimo.
«La cosa era ormai sicura.
«Dopo cinque giorni, Terlizzi, in cui l’interesse prevaleva sulla paura, mi venne a trovare e mi chiese:
«— Ebbene?
«— Sono soddisfattissimo. Potrei ucciderti subito senza avere la minima noja. Il preparato dà una morte che non lascia tracce all’autopsia.
«— La scoperta è completa? – chiese con un riso forzato.
«— Completa e pronta.
«— Quando la lanceremo?
«— Subito: fra quattro, cinque giorni. Dipende da te.
«— Da me?
«— Sì: devi prima riconoscere, per iscritto e per mezzo della stampa, che mi hai derubato delle mie precedenti invenzioni e che devi a me il tuo posto all’Accademia.
«— Tu scherzi!
«— Parlo con la massima serietà. Bada che la tua vita dipende da un sì o da un no.
«Terlizzi rimase talmente impressionato dalle mie parole che, per un momento, non potè fiatare. Poi, con uno sforzo, dichiarò:
«— Sarebbe la mia rovina materiale e morale.
«— Più morale che materiale, perchè mi hai derubato e non hai saputo cavarne profitto. Morale, poi, per modo di dire: perchè un farabutto come te non ha morale.
«— Sono brutti scherzi! – protestò.
«— Ed io ti dico che non sono scherzi. Deciditi. Ti do tre giorni di tempo.
«— Dopo di che mi ucciderai! – rispose con un riso falso – Sta bene. Fra tre giorni, se ti sarà passata l’idea dei cattivi scherzi, parleremo dell’invenzione.
«E se ne andò senza aggiungere o voler udire altro.
«Ed ecco, allora, che cosa ho fatto.
«Finito il terzo giorno, non tornai a dormire a casa, come il solito. Durante la notte, quando fui sicuro che nessuno poteva notare i miei atti, uscii dal mio studio ed entrai in quello di Terlizzi.
«L’egregio magistrato avrebbe dovuto fare quest’altra osservazione: che tutti gli usci della soffitta dell’Accademia hanno la chiave identica!
«Entrai da Terlizzi: infissi un ago avvelenato nel cuscino del suo sgabello, misi sulla porta d’ingresso il cartello con la scritta memento mori, e me ne tornai nel mio studio, ove dormii fino alla mattina, facendo dei bellissimi sogni, con la tranquilla coscienza di chi ha compiuto un dovere.
«La storia è semplice; gli indizî si possono seguire, provare: ho ancora in mie mani la lettera dell’amico indiano a Terlizzi… Che cosa volete di più, egregio giudice?
«Arrestatemi!»
⁂
Qui finiva la novella. Vorreste crederlo?
Malgrado l’evidenza della mia narrazione, gli indizî, i fatti ben descritti, siccome era pubblicata in un giornaletto letterario, non si volle vedere in essa che una produzione letteraria.
E non mi si vuol credere assassino!
L’ho gridato, l’ho confessato a bassa voce, l’ho provato… Invano!
E siccome la mia missione è finita; siccome Terlizzi è liquidato, me ne vado da questo basso mondo, disgustato dalla cecità e dall’ingiustizia umana; me ne vado per fare io quella giustizia che altri non vuol fare; me ne vado in un altro mondo, ove spero di trovare Terlizzi, che, almeno, spero, mi crederà.
La posa della sua morte è stato il mio capolavoro artistico.
Mentre sedeva al tavolo per mettersi a lavorare, Terlizzi, colpito mortalmente dal veleno, vide il cartello, sentì la morte venire, e comprese che era mandata da me. Da ciò la espressione di spavento del suo cadavere. Si può immaginare vendetta più bella?
A voi, lettori, che ormai conoscete i dettagli, risulta evidente la bellezza di una vendetta a lungo covata, incorniciata da una morte così logicamente legata alla psicologia del morto, al mio odio, alla mia finalità ultima.
Ho compiuto il mio capolavoro, ed ho raggiunto la mia mèta.
Ed ora?
Prenderò in affitto una barca; me ne andrò in alto mare: e là, con un tonfo, mi abbandonerò ai profondi gorghi.
Io credo in un al di là: di più, voglio completa giustizia quaggiù.
Troverò forse, nell’estremo spasimo, la spasimante anima di Terlizzi, a cui, nell’agonia, farò un ultimo ghigno di scherno.
Fine.
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TITOLO: Confessione
AUTORE: Guido Cremonese
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le novelle dello scettico / Guido Cremonese. - Bari : Humanitas, 1913. - 304 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC019000 FICTION / Letterario