Carogne

di
Cesare Pavese

tempo di lettura: 39 minuti


I.

Neanche uno dei tre detenuti poteva sentire lo sciacquio del mare che quel giorno doveva esser un olio, ma tutti e tre stavan buttati sulle brande come nuotassero a morto. A occhi socchiusi, lo strepito e le voci dalla strada giungevano intrisi di sole e di sabbia e riempivano di mare torrido le muraglie della cella.
I cassoni tenebrosi di legno che vestivano all’esterno le due inferriate, spalancavano in alto due anguste losanghe di cielo pallido e, sotto, il legno crivellato e screpolato smagliava di impercettibili forellini luminosi. La penombra diceva la rabbia del sole contro la parete.
— Arriva il treno, – esclamò Nanni buttando i piedi scalzi gií dalla branda.
Gli altri due non si mossero. Nanni, reggendosi i calzoni, corse alla finestra. Tese l’orecchio al cielo esterno, e si volse all’altra inferriata. Si sentí un tonfo tintinnante e uno scroscio, e con un gemito Nanni si chinò su di sé.
— Guardalo il porco. Te la faccio leccare, – gridò il Biondo, rizzandosi a sedere sulla branda.
Nanni si stringeva la punta del piede saltellando. – Chi lascia il bugliolo in giro? – ansimò curvo. – Te la pigli con me? Io mi sono azzoppato. Parla ai gelati.
II Biondo, fítta un’occhiata all’orinale prontamente raddrizzato da Nanni, tornò a sdraiarsi sulla branda, arcuando nella maglia rossa il torace e stirandosi fino a scricchiolare.
Nel silenzio la voce del terzo, tutto in bianco, disteso con le calze nei piedi e la barba grigia in aria, disse: – Ma che attende la grazia, questo ragazzo, dal treno? Tutti i giorni a quest’ora comincia a schiumare. Non è naturale. Se non impara a starsene tranquillo in carcere, dove imparerà?
Il Biondo si mostrò sogghignante. – Quando uno ha la coscienza sporca, – disse, – tutti i treni sono per lui. Verranno a prenderlo con le manette, lo isseranno sul treno, farà un viaggetto al buio, e poi entrerà in gabbia con due carabinieri, dove gli leggeranno la sentenza ai lavori forzati. Guarda che viso fa. Li radono, Nanni, li vestono di sacco e li incatenano al piede. Quanti polli hai rubato, Nanni?
— Ho rubato un asino che sei.
Il Biondo dalla gioia menò un calcio all’aria e un sandalo slacciato gli partí dalle dita dei piedi e schizzò sul letto del vecchio.
— Di’, gelati, – fece allegro ficcandosi le palme sotto la nuca e accavalciando le gambe, – oh che ve ne porteranno ancora di cicche?
— Qui non si dorme piú, – sbottò il vecchio, girandosi verso l’uscio.
— Perché non ci venite col carrettino e la bottega? – continuava il Biondo. – Per sei giorni che fate si starebbe allegri. A voi la vostra vecchia, a me l’anguria in ghiaccio e a Nanni costí la gelateria per curarsi la terzana. Vedilo come stringe.
Nanni era rimasto aggrappato all’inferriata e si sentiva attraverso il fustagno il bruciore della parete cui aderiva: senza veder nulla fissava gli occhi nel bagliore d’una fessura del cassone e tendeva l’orecchio al brusio esterno. Cominciava il ritorno dei bagnanti dalla stazione, dove andavano a godere il primo fresco e salutare il passaggio del treno. Ora tornavano alla spiaggia i signori in bianco, donne dai sandali a capo scoperto, vocianti, giovanotti, bimbi, ragazze che ridevano. Nanni non vedeva nulla: si sforzava di immaginare come fosse fatta quella strada davanti al carcere che scendeva al mare, ma non sapeva nemmeno se c’erano alberi o case basse o siepi di fiori. Entrando, non aveva pensato di guardare.
Nanni si volse, tutto sudato per esser stato in piedi, e un frastuono di voci e di tonfi, uno scarpiccio numeroso, si udí di là dall’uscio, nell’entrata.
Anche il Biondo s’era rizzato sul gomito, volgendo gli occhi inquieti. Echeggiavano voci insolite.
A un accento piú forte anche il gelataio levò la barba svogliato, torcendosi verso i due. Si guardarono in faccia. – Oh Biondo, potrebbe essere per te il viaggio, – osservò ghignando. – O per Nanni? Bazza a chi tocca, viaggerà sul fresco e starà al fresco. Le carceri della provincia non sono quelle mandamentali.
— Sangue della Madonna, neanche in prigione si sta tranquilli, – bestemmiò il Biondo, saltando dalla branda.
Nanni fissando l’uscio, osservò adagio: – A quest’ora il treno è già lontano. Gente che arriva, non che parte.
Il vocio continuava. Qualcuno salutò e se ne andò. Si sentiva adesso Ciccia parlottare e dar ordini. Poi, lo sciacquio dell’acqua in un catino, i tintinnii e gli sbruffi di chi si lava.
— Chi vuoi che arrivi col treno in questo buco? – diceva il Biondo. – Secondo me, sono venuti a far la barba a quello scemo.
— Non ce l’ha ancora la barba, – disse il vecchio.
— Avrà tempo di crescergli in galera, – ghignò il Biondo.
— Avranno preso qualche altro: è di un paese che non si fermano al primo morto.
Sferragliò un giro di chiave, scattando il paletto. Comparve Ciccia di fianco, spingendo col sedere l’uscio. Nanni fissò il vano luminoso.
— Non c’è altro posto, reverendo, si metta qui per ora, – brontolava Ciccia tra i baffi. – Non avrà dove dormire, ma giuro al cielo che qualcuno sgombrerà… per una notte…
Apparve sulla soglia, nella repentina corrente, un uomo scuro, strizzato in una giacca sudicia di tela grigia. Ma in faccia era scarnito e girava intorno, socchiudendoli, due occhi pesti e luccicanti.
— …Si metta in libertà, reverendo, altri letti non ci sono, bisognerà bene che qualcuno le ceda il suo… il piú giovane… Nanni. Vedremo piú tardi… ora penso all’assetato… abbiamo un assetato. Voialtri, fate posto e non dite sporcizie, il reverendo vi sente… Abbia la bontà…
L’uscio si richiuse. L’uomo dal viso scarno venne avanti di qualche passo e levò una mano. – Vi saluto, tutti, – disse piano. Il Biondo s’era alzato, passandogli alle spalle, e gli guardava in testa.
Anche il gelataio s’era alzato e si lisciava la barba.
— Sarebbe un prete travestito, lei? – sbottò finalmente il Biondo, tornandogli a fronte senza perderlo d’occhio.
— Sí, sono un sacerdote, – rispose quello senza muoversi.
Il Biondo gli menò un’occhiata e si lasciò cadere sulla branda. – E, scusi, che viene a fare qui?
— Andiamo, via, non ci badi, – intromise il gelataio, – stattene zitto, scalzacane. Il reverendo è giunto col treno? Chi sa che sudata, eh?
— Scusatemi, figlioli, – disse il prete serrando gli occhi, – sono accecato da quel bel sole che c’è fuori. Non distinguo bene. Spero di non disturbarvi. Riparto domani all’alba.
— E dove va? – chiese il Biondo.
— Mi portano al confino. Alle isole.
— Anche i preti?
— Perché no? – disse il gelataio. – La giustizia si attacca con tutti.
— Confino? Che cosa bisogna fare per andare al confino?
— Quando uno non lo possono mettere in carcere, lo mandano al confino, – spiegò il gelataio.
Gli occhi del prete stavano ormai fermi. Nanni che si era avvicinato, gli vide le guance chiazzate di una barba di tre giorni e, malgrado la stanchezza che gli sbatteva le occhiaie, un luccichio energico sotto la fronte.
— E questo che non parla? Ma sei ancora un ragazzo, – disse il prete, costernato.
— Nanni è per i polli, – spiegò il Biondo. – Rimase in tagliola l’altr’ieri.
— Hai rubato? – esclamò il prete. – Debbo crederlo? Ma non c’era la mamma che pensasse a te? Toccare la roba degli altri?
— Vede, reverendo, – disse il gelataio, – lei ha ragione: non dico per il Biondo qui, che si merita questo e peggio, però a una famiglia come quella di Nanni non si dovrebbe incarcerare il ragazzo. Siamo giusti: tiravano avanti con quei polli.
Nanni indietreggiò con gli occhi abbagliati di lacrime e urtò, muto, le spalle nel muro. Quando il tempestare del sangue si fu calmato, tornò a distinguere innanzi a sé la cella e il vecchio barbagrigia seduto accanto al prete su una branda.
Il prete ora fissava terra e non levava gli occhi in faccia a nessuno. Una camicia dal colletto bianco sfilacciato gli chiudeva il collo, senza cravatta. Teneva le mani appoggiate sulle ginocchia vestite di panno nero pesante, e le maniche scarse lasciavan scoperti gli avambracci. Nanni lo colse a un tratto che, sogguardando furtivo, si sfregava un polso. Abbassarono la fronte tutti e due.
— Hai viaggiato coi ferri? – chiese il Biondo.
Scattò il paletto un’altra volta e ricomparve Ciccia. Teneva in mano una pagnotta e sotto il braccio le coperte che posò sullo sgabello. Nanni gli vide gli occhi lustri.
— Ciccia, almeno al reverendo farete assaggiare quel vinetto che vi bevete tutto solo, – disse il Biondo.
— Sicuro, e perché non a tutti? perché non a tutti? non siamo mica alla taverna. Apri e chiudi, apri e chiudi, tutti comandano come fossero signori. Non sono mica io il carcerato. Non dico a lei, reverendo, questo non la tocca, dico a questi lazzaroni. E ci chiamano ancora carnefici… Dunque, come si trova? mala compagnia, eh? Che vuole, siamo in carcere. Qualcuno le cede la branda? Aspetti…
Faceva per uscire e il Biondo gli gridò dietro: – Lo spiraglio, Ciccia, lo spiraglio per il reverendo –. Ciccia rientrò subito con l’aria tonta, succhiandosi i baffi. – Non confondere, – brontolò. – Cercavo le coperte e sono già qui –. Tirò a sé lo sgabello e vi si sedette con un sospiro, addossato allo spigolo della parete, socchiudendosi l’uscio alle spalle.
— Per lei non c’è posto e per me non c’è pace, – disse sogguardando il prete. – Anche l’omicidio ci voleva, non bastavano queste buone lane. Sí, da ieri abbiamo un assassino. Tutta la mattinata non fece che chieder acqua: neanche volesse annegarsi. Sarebbe meglio per lui e per tutti.
Il prete, che aveva ascoltato a testa bassa, levò d’un tratto due occhi fissi.
— Signore! – disse giungendo le mani. – Quest’uomo sta peggio di noi tutti che siamo qua. Dov’è? chiede del sacerdote?
— È ben probabile quando gli fuma ancora il fegato per la rabbia che l’hanno preso, – disse il Biondo.
— Ma che ha fatto? chi è? – incalzò il prete.
— Chi fosse, prima di ieri nessuno sapeva, – disse Ciccia, – è dei villani della bassa montagna, pare sia stato a lavorare alla Spezia. Quanto al delitto, tre coltellate nella pancia a un tale, storie di donne, non sappiamo; ma c’era di mezzo del vino, perché in tutto il giorno non ha mangiato e solo chiede da bere, e non è gente che patisca febbre… Avete dato al reverendo acqua fresca?…
— Ma è dunque giovane?
— Pare fosse di leva quest’anno. Tutte cose che non vuol dire neanche al maresciallo: le dirà alla Spezia…
Nanni vide il prete alzarsi corrucciato e dirigersi rapidamente alla finestra. Fece appena in tempo a chinarsi e spingere sotto la branda l’orinale, sguazzando il piede nell’acquaccia versata. Senza vederlo, il prete si volse e tornò indietro. Poi rifece la strada, seguito dagli sguardi di tutti. Poi ancora, su e giú, a braccia conserte stringendosi i gomiti sul petto, sussultando le labbra, a capo chino. Tutti gli guardavano la chierica, finché il gelataio non ruppe il silenzio, volto a Ciccia:
— Se dimostra di avere ammazzato nel vino, può cavarsela con la dozzina…
Il prete si piantò avanti a Ciccia:
— Ma è solo al mondo? Nessuno lo visita?
Ciccia sbalordito levò un occhio socchiudendo l’altro. – Bella cosa da visitare. Toccherà al giudice a suo tempo.
— Ma la famiglia non sono venuti? Non ha donne in casa? Quel disgraziato ne ha necessità. Il curato non visita il carcere?
Il gelataio e Ciccia esclamarono insieme: – Non si può senza permesso –. Poi Ciccia continuò: – Le donne verranno purtroppo. Si piantano davanti alla porta coi bambini in braccio e non si può piú fare un passo che vi pestano i piedi. Una volta il maresciallo…
— Ma il curato? non viene il curato? È suo dovere.
Ciccia allungò le labbra: – Mai visto.
Disse il Biondo che, disteso sulla branda, sbocconcellava un pezzo di pane: – Alla Spezia c’è un frate che voleva confessare un mio amico. È un’altra città, la Spezia.
Il prete agitatissimo abbassò gli occhi sui piedi di Ciccia. A Nanni faceva l’effetto che dovesse sputare qualcosa. Le guance tese s’arrossavano. Poi, come ricacciasse un boccone, rialzò il mento.
Ciccia lo sogguardava e ammiccò al gelataio. Alzandosi a fatica dallo sgabello e crollando il mazzo di chiavi, disse al prete: – Confessi questi giovanotti, reverendo, non è sovente che vedono un prete, li confessi. Quell’altro me lo confesso io, gli ordini sono ordini. Torno ancora per l’acqua.
Appena fu uscito agganciando la catena sullo spiraglio, il Biondo saltò dalla branda e mirò la porta scagliando il tozzo di pane. – Carogna, a noi l’acqua e a lui vino. Che non gli dite niente, gelati, per i toscani che vi sgraffigna?
In quell’istante un uscio sbatté, corsero passi, una voce inarticolata e un tintinnio di chiavi passarono. Rimbombò un urtone all’uscio e per la fessura balenarono i baffi di Ciccia che con un gemito insinuò: – Qui no Poi lo sentirono correre fuori, battere la cancellata, e gridare, crollando le chiavi.
Il prete s’era riseduto sulla branda e si fissava il pavimento tra le ginocchia, assorto. Nanni vide il Biondo correre all’uscio e gridare, agitandosi, qualcosa all’esterno. La voce stravolta di Ciccia rispose. E, a un tratto, un altro urtone all’uscio respinse indietro il Biondo e sbatte lo spiraglio: chiusero a chiave.

II.

Stupefatto, Rocco spinse l’usciolo che si spalancò senza cigolare. Nell’entrata piena di luce non c’era anima viva e per il vano della cancellata si vedevano i ciottoli abbaglianti della strada. Si poteva camminare fin là.
Nella toppa del cancello c’era la chiave e Rocco la girò accompagnandola in punta di piedi. Da dietro uno degli uscioli ferrati venne una voce concitata. Rocco si precipitò fuori d’un salto.
In fondo alla viuzza, contro il cielo, lo spigolo bianco doveva essere la caserma dei carabinieri, e Rocco si cacciò dall’altra parte, pronto a correre e svoltare, occhi abbagliati e spalle raccolte: di secondo in secondo attendeva una fucilata.
Nella strada traversa non vide un’anima. Gli giungeva uno strepito di voci e di spiaggia, uno scampanio lontano, echi di musica. Si sentí sfiorare il collo da qualcosa di vivo. Alzò il capo: era l’aria libera; e di là da un ciuffo chiaro di verzura sopra un muricciolo rosso vide una zona di cielo piú sbiadita, immobile.
Lo guardavano lungo tutta la strada interminabili persiane abbassate nel sole. Giunse, rasentando i muri, a un viottolo per cui andavano e venivano bagnanti alla spiaggia. Rocco serrò gli occhi come per tuffarsi, e andò a urtare contro una donna grassa che coi piedoni nudi nei sandali pesti passava trascinando una bimba gialla. Rocco si prese una secca gomitata senza rialzare il capo o ascoltare, e saltò dall’altra parte. Qui una bella automobile grigia premeva e strombettava, ingorgando tutti. Rocco scattò via, a corsa pazza.
Si fermò solamente davanti alla porta di Petro. Entrò rinculando, fissando il vicolo, e nell’ombra fresca si volse, saltò su per la scala. Bussò, col cuore in gola.
Venne ad aprire una ragazzetta bianca nella penombra. Petro non c’era, che voleva? Rocco le posò una mano sulla guancia e avanzò, tirandosi l’uscio alle spalle. La bimba lo seguí nella piccola cucina. – Oh che vuole? – diceva.
— Aspetto Petro. Vengo fin dalla Spezia. Non vedi come sono sudato? Perché non c’è Petro?
La bimba lo guardava tra spaventata e impertinente.
— Lei è quello che hanno arrestato?
A Rocco gelò il sudore.
— Che cosa ne sai tu?
— L’ha detto Petro stamattina. Lei è Rocco perché porta i baffetti. Se lo vedesse la mamma! fortuna che è dal nonno a raccogliere i fiori.
— Petro non c’è?
— Petro lavora al «Nettuno». Perché non lo va a cercare alla spiaggia?
— Che cosa diceva Petro?
— Allora lei è davvero Rocco e non viene dalla Spezia come ha detto, ma è stato in prigione?
— Che cosa diceva Petro?
— Petro ha solo detto che l’hanno arrestato, ma la mamma ha gridato tutta la mattina che quelli erano gli amici di Petro e che lei l’aveva sempre saputo e che sarebbe capitato anche a Petro se andava ancora alla Spezia invece di lavorare. Ma Petro non l’arrestano mica?
— Senti, neanche me hanno arrestato, – disse Rocco fissandole gli occhi. – Vedi che sono libero. Voglio soltanto parlare a Petro.
— Allora vado a cercarlo, – disse la bimba saltando all’uscio.
— No, – gridò Rocco correndole sopra, – ho tempo, aspetterò. Quando ritorna?
— Col primo buio quando si chiude lo stabilimento.
Rocco si sedette presso la finestra che l’ultimo sole riempiva di pulviscolo obliquo e si fece schermo di un battente dell’imposta. Cosí nascosto, come dietro l’inferriata coperta, non vedeva che un tratto di cielo, ma spostando un po’ il capo poteva scorgere nel bagliore luminoso la costa arida e fiorita del monte strapiombante. La bimba era tornata alle sue faccende del tavolo e tritava vigorosamente con la mezzaluna una poltiglia di verdura. Di tanto in tanto si voltava a rimenare nel fumo piccante una padella che friggeva.
Rocco cercò una sigaretta che non aveva. Si tolse allora la giacchetta pesante di fustagno e, prendendosi le gote tra le mani, continuò a fissare il cielo. Lentamente il riverbero del sole si andava smorzando e l’aria si faceva piú serena.
Rocco rabbrividí a un tratto e fissò ferocemente gli occhi a terra. Sentí la bimba dire:
— Non è mica malato?
— C’è la luna, stanotte? – chiese Rocco.
— Oh sí, andremo in barca coi pescatori. Viene anche lei?
Rocco sorrise e le fece cenno di tacere.
La stanza era semibuia e la bimba tornava dall’entrata reggendo a due mani una lampada a petrolio per accenderla, quando si sentí bussare alla porta. La bimba posò in fretta la lampada e ricorse nell’entrata. Rocco alzò il capo, col cuore in gola. La bimba gridava: – C’è Rocco, c’è Rocco, – e a passi concitati entrò Petro.
Era in maglietta scura, a braccia nude. Rocco balzato in piedi, gli intravide appena la faccia nell’ombra.
— Sono venuto a cena, – balbettò.
— Ti hanno lasciato andare?
— Ho trovato la porta aperta.
— Ti hanno messo fuori? sei libero? – ansimò Petro.
— È facile che mettano uno fuori. Ho trovato la porta aperta e sono uscito.
— Ma allora l’hai ammazzato davvero? sei scappato?
— E perché non lo dovevo ammazzare? Certo che l’ho ammazzato. Vorrei non fosse, per ammazzarlo un’altra volta. Sei anche tu come la gente?
La bambina li stava a guardare con la faccia sollevata. Petro, sobbalzando, disse rauco:
— Accendi il lume, Mina, va’ di là.
La bimba ubbidí e Rocco saltò a chiudere l’altra imposta. La piccola cucina accecava. Mina abbassò adagio lo stoppino.
— Fila, fila, – esclamò Petro.
Mentre la bimba usciva, Petro fissava la parete. Sulla maglia turchina stava scritto «Nettuno». Stringeva la bocca e guardava di traverso, come fosse lui Rocco. – Ti hanno veduto entrare qui? – chiese bruscamente, a voce soffocata.
— Sono scappato di nascosto, – disse Rocco.
— Ma perché sei venuto qui?
— Dove dovevo andare? Non conosco nessuno. Era giorno. Ma stanotte andrò via.
— Parla piano. Non si scappa di giorno. Hai rotto l’inferriata?
— Si vede che non sei mai stato dentro, – grignò Rocco. – Le inferriate sono di ferro. Sono passato dalla porta. Si vede che quel vecchio dai baffi ha creduto di chiudere e invece ha girato a vuoto. Ma sta’ tranquillo, questa notte vado via.
Si sentí la vocetta di Mina tra l’uscio: – Il condimento brucia, – e la bimba corse al fornello.
Petro passeggiò lungo il tavolo, guardando per aria. Rocco s’era di nuovo seduto con le spalle alla finestra. Stettero zitti, mentre la bimba s’affaccendava su una pentola. Dalla strada saliva un brusio attutito.
Rocco disse: – Hai una sigaretta?
— Mangia anche Rocco stasera? – chiese Mina. Petro non rispose. Rocco sporgendo le labbra e la sigaretta al cerino, lo vide tentennare la mano e, per spegnere, dimenarla rabbiosamente. Stettero zitti un altro poco. La bimba acciottolava piatti sul tavolo.
— Chi è questa donna? – ruppe Petro.
— Che donna?
— Tutti sanno che vi siete attaccati all’osteria per una donna. Sta’ a vedere che gli sei saltato addosso perché si soffiava il naso.
Rocco levò una faccia intenta. Mina riabbassò gli occhi sui piatti.
— Se nessuno lo sa, tanto meglio, – disse Rocco adagio. – Ho bisogno che nessuno lo sappia. Le va bene e le va male. C’è la luna stanotte?
— Che c’entra la luna?
— Con le donne c’entra sí. Vanno d’accordo. È molto chiaro, queste notti?
— Ma perché?
— Perché debbo uscire, tonto, e con la luna mi prendono –. Rocco abbassò la voce sull’ultima parola. Mina lo guardava ancora, incantata.
— Non so proprio che puoi fare, – disse Petro agitandosi. – Imbarcarti, sai bene che è impossibile.
— Lo so, – disse Rocco piano.
— Vuoi tornare alla montagna dai tuoi?
— Troppo lontano e inutile, – disse Rocco. – È il primo posto dove verranno a cercarmi.
— E allora perché sei scappato? – sbottò Petro. – Dovevi pensarci prima. Vuoi fare la morte del topo qui dentro?
— Farò quella del gatto, piuttosto, – disse Rocco, stringendo le labbra in un brutto sorriso.
Mina posò sul tavolo peperoni e pomodori rossi, togliendoli grondanti da una secchia. A un cenno brusco di Petro, Rocco accostò la sedia al tavolo. Finiva la sigaretta e intanto Petro, affettando un pomodoro, chiese l’olio, irritato, alla bimba. Questa posò olio e sale, evitando gli sguardi di Rocco, e poi si volse al fornello, a infarinar pesci.
— È via tua mamma? – chiese Rocco, buttando la sigaretta. – Te la passi bene, vedo: quanto ti danno al «Nettuno»?
— Miserie. Mangia.
— Niente pomodori, là dentro, – disse Rocco a bocca piena. – E fa un caldo del boia. Come qui, – disse voltandosi alla finestra. – Sembra d’essere in prigione.
— Apri le imposte, – ordinò Petro alla bimba. – Non voglio crepare. Tanto non ci vedono.
Nel fresco tumulto che salí dalla strada mangiarono tutti e due in silenzio. Mina tolse i pesci sfrigolanti dal fuoco e, posandoli sulla tavola, si sedette al lato libero.
— Io tutto capisco meno fare questa stupidaggine per una donna… – cominciò Petro masticando.
— Senti, mi hai conosciuto bene alla Spezia, – tagliò Rocco, – vengo dalla montagna ma non sono il piú quadro. Chi ti ha detto di stare attento quando facevi lo stupido con quella troietta di Rosa? Quella tirava alla paga. Chi ti ha detto… – Si fermò guardando Mina che, piantata sui gomiti, ascoltava. – Ero io, no, allora, che capivo le donne? E dunque lascia stare: avrò avuto un motivo.
— Ma le volevi bene?
Rocco non rispose.
— La volevi sposare?
— Se le avessi voluto bene, avrei ucciso lei, – disse Rocco stringendo le labbra.
Petro girò gli occhi sul piatto, vide Mina e le gridò: – Tu che fai? Fila fuori.
— Lasciala mangiare, – disse Rocco. – È meglio che resti qui… fin che ci sono io.
La bimba che era saltata indietro gli diede uno sguardo spaventato. Rocco le sorrise. Senza smettere la sua aria grave, la bimba lo fissò supplichevole.
Petro finí di mangiare in fretta, poi scattò in piedi e passeggiò per la stanza.
— Allora, eri ubbriaco, – riprese convinto. – Che cosa ti ha fatto insomma quel disgraziato? Lo dici tu stesso che non t’importa…
S’alzò anche Rocco, cauto.
— Adesso vado via, – disse piano. – È notte.
— Se non la volevi sposare, che senso ha? Si lascia correre…
— Mina, è ora di andare alla spiaggia. I pescatori ci aspettano. Sei già pronta, tu?
Mina agitò il mento di sotto in su, stralunando gli occhi verso Petro.
— Verrà anche Petro. Io debbo andare, Petro.
Petro imbarazzato si fermò fissando terra.
— E dove andrai? – balbettò. – Se ti vedono…
— Non avere paura, uscirò in un momento. E non tornerò piú. Una maglietta di colore non ce l’hai? Ti lascio la camicia e la giacca.
Petro esitava.
— Per non esser conosciuto… Ti lascio la giacca.
— Storie, – disse Petro. – La giacca non la voglio. Non è per il valore, tra noi, ma se poi ti conoscono la maglia? Sai che scoprono tutto. Chi vuoi che ti veda di notte?…
Rocco raccolse la sua giacca. Se la buttò sulla spalla e guardò intorno la stanza. Andò al tavolo e prese una pagnotta. – Questa me la darai, – disse ficcandosela nella giacca.
— La strada è libera? sono pronto.
Mentre Petro si volgeva all’uscio, Rocco stese rapido la mano a un coltello sul tavolo e se lo ficcò in tasca. Incontrò gli occhi stupefatti di Mina e le fece un sorriso.
— Ciao, Mina, – le disse, – non contare mai a nessuno che son stato a trovarti, – poi uscí dietro Petro.
Scendendo la scala a tentoni, tutti e due tacevano. Giunti alla porta, Petro si sporse nel tepore palpitante e bisbigliò: – Questo marciapiede è in ombra. Sull’altro, guarda, batte già la luna. Aspetta, passa qualcuno.
Rocco, dietro il battente, osservò a bassa voce: – Pensare che anche tua sorella fra qualche anno è una donna.
— Presto, – disse Petro, – ora. Tieniti al muro.
Rocco uscí d’un salto, nella penombra.

III.

— Sono quello dei gelati, – diceva il vecchio in bianco. – Noi si capisce una disgrazia, reverendo. Sconto sei giorni di carcere a saldo della multa che il pretore ebbe la bontà di infliggermi per un certo latte…
— Si faccia raccontare com’è che non gli sequestrano mai il carrettino, – interruppe l’altro.
— Semplice come un ovo. La moglie possiede e il sottoscritto delinque.
Un caldo tremendo, non piú di riverbero ma della pietra stessa e dell’aria, affogava la prigione. Il reverendo se lo sentiva sul viso e lo respirava appena, addensato di fortore umano e del lezzo di muro sotto il sole. Nanni lo scrutava sempre di sottecchi, fiatando appena l’atmosfera immobile.
— Non arriva fin qui aria di mare? – chiese al vecchio.
— Aria di mare al carcerato, – rispose la voce di scherno. – Ci tolgono anche quella di terra che ha fatto il Signore.
— Siamo i capponi nella stia, – disse il Biondo. – Solamente, non siamo davvero capponi e viviamo a stecchetto.
S’intravedeva la pelle stirata e sudicia di costui mentre ammiccava scoprendo i denti. Con uno sforzo il reverendo rialzò il capo e lo fissò.
Il vecchio chiese: – Lei non viveva in paese di mare?
— Vengo da Alessandria, sono della campagna.
— E… sono Loro che l’hanno messo in borghese?
Anche Nanni dalla branda ascoltava attento.
— Sia come vuole Iddio. Darebbe scandalo, l’abito, – disse il reverendo.
— Però uno è sempre prete, no?
— Certamente, – e il reverendo girò gli occhi. – L’ordine è come il santo battesimo: il sacerdote è sacerdote davanti a Dio, qualunque cosa accada; come chi è fatto cristiano dovrà rispondere a Dio della sua fede, qualunque cosa accada, e specialmente se l’avrà rinnegata. Non si deve credere che nessun peccato ci stacchi da Dio: è un peccato gravissimo credere questo, il peccato di Giuda…
Il Biondo rimasto in piedi, curvo e dinoccolato, ascoltava sornione.
— …ma dobbiamo ricordarci che la Sua misericordia è infinita e ci tende le braccia proprio quando l’abbiamo offeso e rinnegato piú bestialmente…
Il Biondo ascoltava con un risolino. Il reverendo intravide Nanni nella penombra e si sentí il fiatare del vecchio sulla spalla. Abbassò gli occhi.
— …e qualunque cosa ci accada, perdonare sempre gli altri come il Signore ci perdona. Perdonare per essere perdonati. Perdonare noi stessi negli altri, perché il male esiste anzitutto nel cuore di ciascuno, e qualunque cosa ci accada – qualunque ingiustizia – la colpa è sempre nostra prima che degli altri.
— Si sente dall’accento che lei è piemontese, – disse il Biondo. E, volgendogli le spalle: – Ehi, Nanni, non si scopa stasera che c’è il reverendo?
Mentre Nanni, saltato giú, si chinava d’impeto al pavimento nero, menando le due braccia, il vecchio si piegò confidenzialmente dalla branda.
— E come mai si trova qui? Inimicizie?
Il reverendo si riscosse a quella faccia scura e raggrinzita dove brillavano tra i peli occhietti grigi.
— Qualche parola di troppo?
Il reverendo vide i due giovani guardare dalla sua parte – il Biondo staccava allora le labbra dalla ciotola dell’acqua – e pronunciò con voce piana, senza esitare:
— Ho avuto torto in ciò che ho detto e fatto. Quanto mi accade, lo merito.
— Già, – disse il vecchio nel silenzio, – sanno metter uno dalla parte del torto. Ma lei che può, perché non si difende? Un esposto a chi di dovere…
— Quando impariamo a tenere la penna, eh, gelati? – interloquí il Biondo.
— Sta’ zitto tu, forca: ai miei tempi non c’insegnavano a leggere e scrivere, ma a stare a suo posto. Per il servizio che ti ha reso, saper leggere!
Il reverendo sentiva quelle voci urtargli le tempie nella chiusa immobilità. Brusii remoti, dall’esterno, non giungevano. Di là dai tavolati neri c’era ancora aria e luce.
— Creda a me, – diceva il vecchio, – se uno offende la legge, lo mettono in carcere. Lei non è carcerato: non ha offeso la legge. Avrà offeso qualcuno.
— Vorrei potervi dire migliori parole, – rispose il reverendo, – e con altra autorità. Spero soltanto non pigliate scandalo per ciò che vi appaio e per quanto vi dico. So che nel carcere nessuno è colpevole, c’è sempre un errore; ma so anche che nessuno è innocente nella vita. Siamo poveri uomini, siamo peccatori; perciò abbiate pur ragioni da farvi, ma ascoltatemi. Se vi dico che merito quanto mi accade, non è per falso orgoglio d’umiltà. E nemmeno nel senso che tutti siamo peccatori e tutti meritiamo qualunque cosa ci accada. Benché ciò sia sacrosanto…
— Ma che ha fatto, insomma? – tagliò il Biondo.
— Una cosa cattiva e stolta, ragazzo: ho mormorato contro un mio superiore che mi era parso ingiusto.
Nanni e il Biondo, pallido nell’ombra, si guardarono. – Ebbene?
Il reverendo non senti piú il sudore. – Ma vedete, – esclamò agitandosi, – voglio ammettere che lo fosse, ingiusto; che la persecuzione che avevo sofferto fosse immeritata: avevo per questo il diritto di guerreggiarlo, di cercare soccorsi, di scrivere memoriali che, delle due l’una: o erano falsi, e allora non si discute; o erano veri, e offendevano ugualmente quell’autorità che, badate, ha ogni diritto di pretendere il mio ossequio, e quando comanda va ubbidita, pena scandali sempre piú gravi?
— Tu, Biondo, sta’ zitto, – cominciò il vecchio, meditabondo. – …La capisco, reverendo, non è sempre cosí facile far memoriali, specialmente se c’entra la curia. Ma mi vuol spiegare come diavolo allora è capitato qui? Lei viaggia coi carabinieri, no? E cos’hanno a che fare le manette coi suoi superiori?
Il reverendo piantò gli occhi nell’oscurità del pavimento.
— Questa è la conseguenza di ogni azione cattiva, – disse adagio. – Da ciò potete conoscere come sia fonte di male ogni mormorazione, ogni risentimento temerario, sia pure in difesa della propria giustizia. La parrocchia da cui ero stato allontanato, ha creduto alle mie giustificazioni e si sono avute parole, tumulti in mio nome, di cui la colpa ricade in verità su di me, benché sa Dio se avrei voluto impedirli.
— Tumulti? – suonò la voce di Nanni.
— Sangue della Madonna, – esclamò il Biondo, – sono volate busse e lei si lamenta?
Rimbombò dietro l’uscio lo sbattito del cancello. Nel brusio del silenzio vago ansimarono sotto la finestra voci vicine. Qualcuno camminò nell’entrata. La faccia del vecchio, l’unica ancor visibile nell’oscurità, si ritrasse in un sospiro.
— Che succede, reverendo? ci lasciano al buio stasera.
Nanni disse: – Quello è Ciccia.
— Ehi, Biondo, – esclamò il vecchio, – informati quando ci porta l’acqua e ci accende la luce. Che gli sia successo qualcosa quando gridava?
— Gli avranno rubate le chiavi, – ghignò il Biondo e corse all’uscio.
Cominciò a darvi dentro manate, lanciando richiami. L’uscio stridette e s’aprí lo spiraglio, illuminandolo. – Che succede? – vociò Ciccia.
— Che succede a voi? Ci sbattete sul naso la porta e ci lasciate allo scuro di tutto e senz’acqua. Qui si crepa. Fate il dovere vostro.
L’uscio rimbombò.
Il Biondo, volto agli altri, diceva: – Viene un odore di fritto di pesce dal cancello, che mette voglia d’osteria…
La porta tornò a sferragliare. Si spalancò stavolta in un fiotto d’aria luminosa ed ecco Ciccia con la brocca. La posò senza parlare: aveva un viso sbattuto, perfino i baffi scomposti, e gli occhi che scappavano. Si volse, torvo com’era entrato, e uscí mettendo la catena. Una sudicia luce giallastra inondò la cella, dal soffitto. Tutti si guardarono.
Ricomparve Ciccia. – L’avete preparato il letto per il reverendo? – chiese bruscamente.
— Non ancora, – balbettò Nanni, dritto nella luce, cercando con gli occhi le coperte.
— Allora venga con me, lei, c’è un letto migliore già pronto.
—Io?
— Sicuro, dormirà da solo in una branda. Qui, restare piú di tre non è sanitario.
— Oh perché ce lo portate via? – uscí il vecchio. – Si faceva buona conoscenza.
— Non perde nulla a perder voi. Guarda che letamaio.
— E dove diavolo volete metterlo? – chiese il Biondo. – Ve lo pigliate in casa?
— Per pulire aspettavo la luce, – disse Nanni.
— S’è fatta libera una cella: se n’è andato quell’assassino, – biascicò Ciccia tetramente.
— L’han già tradotto? – esclamò il vecchio.
— S’è tradotto da sé: partito, – disse Ciccia.
— Morto? – gridò il reverendo.
— Partito, perdio, scappato, tagliata la corda. Non mi faccia bestemmiare che non ne ho bisogno. Sono cose che Dio non dovrebbe permettere –. Gli lustravano gli occhi e ballavano i baffi. Tirò un’occhiataccia agli altri tre, rimminchioniti nella luce, e cacciò un gemito che era un rutto.
Il reverendo, sorto in piedi, apriva la bocca per dir qualcosa, quando Ciccia lo interruppe. – Venga su, li saluta domani: cotesti non scappano, non ho tempo da perdere.
Mentre il vecchio senza scender dalla branda gli faceva un ghigno e Nanni immobile lo guardava, il Biondo lo seguí fino all’uscio. – Preghi che non riprendano il detenuto stanotte, reverendo, altrimenti si torna fra noi. A buon rivederci.
— Che soltanto lo prendano e lo ficco in cantina, – disse Ciccia chiudendo.
— Attento al vino, – canzonò soffocata la voce del Biondo.
Ciccia armeggiava sull’uscio della nuova cella. Cercava sempre terra con gli occhi.
— …Se mi fanno l’inchiesta. Loro han solo bisogno di un reo. Se fosse giustizia, cercherebbe l’assassino. Chi va di mezzo è il carceriere, invece. Io l’ho commesso il delitto? Eppure, è la legge. Domando: la legge è fatta per gli assassini o per noi? Ecco che serrature. Ci pagano con la fame, celle che fan pietà, non si possono aprire né chiudere, verrà che li mettono in una cabina di spiaggia e noi dovremo rispondere. Gente che dà di coltello e si hanno ancora riguardi. Tre volte gli ho portato l’acqua, neanche fosse mio figlio – crepare bisogna lasciarli – uno gira la testa un momento e rovinano un galantuomo. Che gli serve, domando? Per loro, ammazzare e scappare non c’è differenza, purché facciano del male…
Schiuso l’uscio, Ciccia apriva e chiudeva con scatti esasperati la grossa serratura.
— Avrà voluto rivedere i suoi, – disse il reverendo, riscotendosi.
— C’è il maresciallo che già lo aspetta, a casa sua. Ma che vuole che torni? Non ha sentimenti un evaso. Dovunque vada, è appostato. Si butterà alla macchia, perché salvarsi non può, e tornerà come una bestia, affamato e graffiato, in mezzo ai carabinieri. Mi avrà levata la pace per niente. È già successo. E allora sentiremo se la colpa era mia –. Spalancò l’uscio, continuando: – A meno che faccia resistenza e non lo stendano al suolo.
Nella cella regnava la stessa pallida luce dell’altra. Sulla branda, contro la parete scalcinata, era il lenzuolo tutto sudicio e schiacciato. Per terra una striscia d’acqua; e la brocca, sopra lo sgabello, panciuta. L’aria immobile opprimeva di calore. Una pagnotta bruna, abbandonata sul cuscino, pareva una chiazza di sudiciume.
Quando tacque il trambusto della molteplice mandata che Ciccia dava dall’esterno e s’allontanarono i passi pesanti, il reverendo, fermo in mezzo alla cella, si riscosse. Guardò intorno a uno a uno quegli oggetti, oppressi dalla luce, sotto le pareti nude e le sbarre accecate. Venne alla branda e, presa con le due mani la pagnotta ruvida, l’andò a posare sulla brocca. Poi, tornato alla branda, vi appoggiò la mano inginocchiandosi in terra, si fece il segno della croce e, nascondendo il volto tra le mani, piegò la testa sulla sponda.

IV.

Rocco s’arrampicò per il sentiero degli ulivi, di fianco alla villa. Non si distingueva fra i tronchi e i riflessi, sotto la luna. Quando il precipizio del mare fu scomparso a quell’altezza dietro le foglie, Rocco rallentò e spaziando gli occhi sui luccichii giallognoli, sentí nel fresco il sudore.
Si volse e sdrucciolò giu dal poggetto verso la casa buia. Gli era parso di udire voci vivaci nel giardino di là dalla villa; la cucina e la stanza di Concia eran spente: tutti erano al cancello. Rasentando il buio degli ulivi, girò l’angolo e spinse gli occhi fra i cespugli tenebrosi del giardino, che il fascio dei fari di una macchina presso il cancello spaccava e abbagliava sotto la luna.
Rocco intravide figure concitate di ragazze e giovanotti in bianco, e un ragazzo e altri, che scorrevano in quella luce vociando. E laggiú presso la macchina c’era Concia, che porgeva qualcosa. Era Concia. Rocco si mosse appena poggiandosi a un tronco e respirò il buon profumo del grande giardino bruciato tutto il giorno dal sole.
Finalmente i padroni di Concia furono in macchina e, girando i fari sulle piante e nel cielo, partirono. Negli orecchi di Rocco restarono gli ultimi rombi e anche Concia pareva là ferma in ascolto. Sul giardino era tornata la penombra della luna.
D’un tratto Concia prese la rincorsa e fu sui gradini della villa prima che Rocco uscisse al chiaro. Perché lei saltellava tenendo levata la testa e buttando le lunghe gambe senza guardarle, Rocco la fissò senza pensare a muoversi. Era scomparsa.
Di corsa Rocco tornò nel cortile degli ulivi dietro la villa e uscí nella luna. Quasi subito s’accese la luce al primo piano nella stanza. Rocco s’addossò al muro, tremando. Si tenne a malapena da fischiare.
Stava per entrare risoluto in cucina, quando l’uscio in fondo alla stanza s’aprí e Concia, dritta nel vano, cercò l’interruttore. Rocco disse: – Non accendere, Concia, – e saltò a ghermirle il braccio, che si divincolò di scatto. All’ansito di terrore di Concia, Rocco ripete: – Non accendere, sai. Vieni avanti, – e la tirò riluttante in mezzo alla cucina.
— Mi fai male, – disse Concia ansimando.
— Lo so, – mormorò Rocco.
Concia cessò di resistere a un tratto e gli abbandonò nella mano il braccio molle.
Si fissarono ansanti. La testa nera di Concia si profilava scuramente sul chiarore della porta esterna. Rocco indovinò il naso fremente, i denti, gli occhi dilatati. La sentí trarre il fiato e gonfiare le spalle. Riserrò nel pugno il polso sudato.
Concia tornò a divincolarsi, inutilmente. Rocco la spinse con le ginocchia, coi gomiti, fino alla parete presso la porta. Sentendola urtare, staccò il corpo dal suo, senza sprigionarle il polso. Concia si abbandonò su di lui, cercando di aderire, rilassandosi, ma un’altra ginocchiata la respinse al muro.
— Perdonami, Rocco, – gemette buttandogli il braccio libero al collo. Rocco non rispose e le prese il braccio per staccarlo. Allora Concia levò da sé il braccio e gli menò un’unghiata in viso. Lottarono in silenzio e Rocco tornò a sbatterla contro il muro, inchiodandola col peso di tutto il corpo. Per le narici graffiate senti l’odore forte di lei.
Concia lanciò un strido acuto che gli fendè le orecchie. – Sta’ zitta, – ansimò Rocco, tappandole i denti, – sta’ zitta, puttana, nessuno ti sente –. Concia gli morse il pugno e s’afflosciò un’altra volta.
— Sta’ zitta, – disse Rocco staccandosi, – sta’ zitta, altrimenti ti scanno –. L’ultimo strillo di Concia s’arrestò a mezz’aria, e di nuovo furono a scrutarsi fiatandosi addosso, nel repentino silenzio.
— Se qualcuno ha sentito… – balbettò Rocco.
— Credi di farmi paura? – sussultò la voce di Concia.
— Se qualcuno ha sentito…
Fuori cantavano i grilli e la luna s’allungava di qualche lastra sulla soglia, abbuiando la parete dov’erano addossati. Rocco lasciò il braccio di Concia e si piantò fra lei e la porta. Se qualcuno veniva, bastava un salto. Nell’angolo d’ombra discerneva appena la lunga macchia bianca del vestito, ma né gambe né volto. Non veniva nessuno.
Concia, immobile contro la parete, aveva un singhiozzo nervoso. Rocco si sentí colare sulla gota una lacrima tiepida. Si forbí con la mano: era sangue. – Mi hai ferito, – brontolò.
Concia cacciò una risata stravolta.
— Colpa tua, – disse. – Lo sanno che sei qui?
— Chi, lo deve sapere?… E tu lo sai, di dove vengo?
— Mi hanno detto che ti han messo in prigione. Che hai fatto? Hai picchiato qualcuno?
Rocco scrutò nell’ombra. – Vieni subito, – disse. Avanzandosi Concia, le prese il braccio e la tirò alla porta, sotto la luna. Comparve il viso bruno, gli occhi bianchi e una smorfia che le scopriva i denti. Senza abbassare le labbra la smorfia lampeggiò un sorriso rapido e gli occhi si socchiusero alla luna. Rocco buttò quel braccio e le afferrò il viso tra le due mani. Senti il tremito del corpo e vide gli occhi dilatarsi, dibattersi, mentre le braccia lo cingevano al collo. Respinse col ginocchio il corpo che cercava il suo, ma serrò tra le dita quel viso.
— Sei piú falsa di Giuda, – le fiatò nel respiro. – Bisogna vederti la faccia e conoscerti. Ti ho scannato il genovese e lo sai… Credi serva a qualcosa, stavolta?
— Baciami… vigliacco, – mugolò Concia, occhi chiusi.
Denti a denti, Rocco ansimava: – L’ho scannato e lo sai… – Ma Concia incollata a lui con tutto il corpo, non staccava la bocca e mordeva e diceva: – Sei stupido… stupido… perché non mi prendi?
Rocco d’un tratto la cinse alla vita, brancicandola come un insensato. Concia, appesa al suo collo, non smetteva di dargli dei baci, tra i singulti nervosi. Rocco la strinse tra le braccia, sollevandola, e ciecamente, a tentoni, traversò la cucina, aprí l’uscio, urtò nel muro, salendo la scala. Senza parola spalancò la stanza, e si buttarono sul letto.
Quando Concia, stendendo il braccio nudo, spense la luce e si voltò dall’altra parte, Rocco seduto nel letto batté gli occhi nel buio. Per la finestra aperta a poco a poco entrò un barlume – la costa pallida degli ulivi sotto la luna – ma il davanzale era nero. Mosse un poco la gamba e subito Concia trasalí.
— È tardi, – brontolò.
Concia non disse nulla.
Allora saltò dal letto e sentí, subito represso, un movimento di Concia. Si chinò nel buio, sulle mattonelle fredde, tastando per i suoi calzoni. Infilandoseli trovò con la mano un largo squarcio tra le due gambe e intanto sogguardava a fior del letto, dove il corpo scuro di Concia era gettato immobile. Venne presso la finestra e quel respiro lo seguiva.
— Piantala, – disse iroso. – Si sente bene che non dormi.
Concia emise un lungo sospiro e stirandosi sorse a sedere nell’ombra.
— M’ero assopita, Rocco: che c’è? – gemette sbadigliando.
— Sei piú falsa di un gatto, ma non vale la pena. Chi te le insegna? Le tue padrone?
Concia piagnucolò: – Perché mi umilii?
Rocco si volse alla finestra. – Guarda qua, – disse seccamente. Teneva in alto il coltello. – Guardalo bene, ero per dartelo nel collo. E tu lo sapevi. Ma non vale la pena. Guarda bene –. Strinse la punta fra le dita e lo lanciò luccicante in alto, tra gli ulivi. Tese l’orecchio al tonfo, ma le fronde stormirono e non distinse nulla.
Concia non s’era mossa. – Vèstiti, maledetta. Nascondi quelle poppe. Dovresti aver vergogna anche dell’aria.
Concia saltò dal letto. – Se ti sentono, Rocco –. Venne a passi scattanti fin presso la finestra, Rocco fissava terra. Concia levò le braccia come a tenersi in equilibrio, poi girò su se stessa, volgendo la guancia a guardarlo. Ritornò senza un fruscio e si sedette sulla sponda del letto.
— Rocco, – susurrò nell’ombra. – Perché mi volevi ammazzare?
Rocco non rispondeva.
— Per fare il paio, Rocco? Uno non ti bastava?
Rocco stridette i denti.
— Parlo sul serio. Questi versi falli prima, vanno bene. Ma se non torni a letto, non farli; rispondimi. Ti credi la mia casa un cinematografo?
— Bada, Concia, – disse Rocco strozzato. – Lo sai che ti ho visto. E l’ho visto dal bosco mettersi la giacca a questa finestra. Se non sono salito a strangolarti, è per tua mamma vecchia.
— E allora hai ammazzato questo… chi dici che è? Sicuro: gli uomini vengono a mettersi la giacca alla mia finestra…
— Concia, non ridere. L’ha detto lui. Gliel’ho fatta sputare e lui se ne vantò.
— E tu per questo ammazzi un uomo? Non ho mai visto quel disgraziato, ma che il Signore gli perdoni… – Concia cercò sul letto il vestito e, tiratoselo avanti, si segnò.
Rocco seguí la mano pallida nel gesto. Balbettò piano: – Gli perdono anch’io. Non ne ha colpa, se ti ha conosciuta.
— Fa freddo, Rocco, – disse vivamente Concia, e s’infilò il vestito. Poi, camminando a piedi nudi, girò intorno al letto a rincalzare il lenzuolo. Rocco, appoggiato al davanzale, tremava ancora nei precordi. Chiese esitante: – Non hai da fumare? – Concia levò la testa: – Ma come non ci pensavo? subito al mio cattivo –. Corse a un cassetto e rovistò. Mentre accendeva, comparve il suo viso avvampato e smarrito, biancheggiando gli occhi. Stette intenta nel fumo di lui, godendone la carezza. Rocco si ritrasse.
— Sono estere, – brontolò.
— Sono dell’ingegnere, – rise Concia.
— Quando ritorna la macchina?
— Oh sicuro, la macchina. Tornano quasi a mattino, ma allora tu devi essere andato. Non vuoi proprio che Concia dorma un poco?
Bruscamente Rocco la respinse e lanciò la sigaretta dalla finestra.
— Tu lo sai che mi cercano a morte. Sai che debbo tornare in galera. E hai soltanto paura. Perché ridi cosí?
La punta rossa le cadde di bocca. – Io non rido.
— Hai soltanto paura. E mi fai compagnia perché tremi a voltarti. Perché fingevi prima e perché fingi adesso? Questa notte hai tradito anche lui. Tu, dovevi morire.
All’anelito di Concia Rocco levò il pugno. – Maledetta, tu ridi. E in questa stanza dove ci hai fottuti. Con un uomo in galera e un altr’uomo sotterra. Tu, hai fatto il cinematografo in questa stanza. Sempre.
Concia, le mani al volto, scoppiò in lacrime.
— Non frignare o ti strozzo, – mugolò Rocco, – non frignare con me. Da soli si piange, chi piange. E tu domani tornerai con tutti. Ma ricordati sempre che sei tu l’assassina.
— Io ti volevo bene, – disse Concia singhiozzando.
— Queste cose non dirle, – ruggí Rocco. – Se tornava quell’altro, era l’altro.
Concia si mosse nell’ombra e gli fu accanto adagio. – Rocco, – e non levò gli occhi, – resta… nascosto… qui con me.
Rocco non disse nulla e volse il capo alla finestra. – Vuoi, Rocco, restare con me? – riprese piano Concia. Poi si strinse insinuante al suo fianco, sporgendogli il labbro. Rocco distolse il capo e scrutò gli ulivi neri sotto il cielo limpido.
— Non c’è piú la luna, –.respirò appena Concia. – Non ti han visto salire quassú?… Se potessi restare, Rocco: tutte le notti mi castigheresti, noi due soli… Non mi castighi piú?
Rocco respinse la bocca che gli cercava la guancia e di scatto Concia drizzò il capo.
— Vile, perché tratti cosí una donna? Se non mi vuoi, vattene, vattene subito, scappa lontano, ma non trattarmi cosí perché sono una serva, – e la voce strideva ripresa dal pianto.
Rocco afferrò la giacca buttata sul davanzale e, levandosi Concia d’innanzi con una spinta, attraversò pesantemente la stanza, senza una parola. Giunto all’uscio si volse e cercò con gli occhi la figura bianca. La vide scura contro la finestra e sentí che lo guardava disperatamente.
— Tu non sai quanto sei falsa, – disse calmo, e uscí nel buio.

V.

Ciccia uscí all’aria fredda alzando gli occhi intorpiditi. Non c’era nulla né in cielo né in terra, e dalla caserma non veniva nessuno. Anche il mare a quell’ora stava fermo. Beati i pesci che dormivano sott’acqua.
Ciccia rientrò e spense l’interruttore delle celle. Tutti se la dormivano e non ci pensavano. Sulla porta faceva già chiaro e cominciava chi sa che bella giornata.
Ciccia portò la sedia al cancello e si sedette soffiando. Gli dolevano le costole e non era l’umidità dell’alba. Sporse il capo alla strada e non vide nessuno.
Si trovò assopito alla voce improvvisa che lo scosse. Era Cicciotto: solo.
— Nei boschi, niente. Te ne sono scappati degli altri? – Se la rideva, lui. Ciccia gli piantò un’occhiataccia e si drizzò rintontito.
— Siamo stati fino alla Torre, papà. L’appuntato mi ha detto che tanto lo prendono. È questione di tempo. Se non si dice niente a nessuno, e lo prendono di oggi, il maresciallo potrebbe non fare rapporto. Ma bisogna prenderlo.
— È tornato il maresciallo?
— Ci vogliono sei ore, solo andarci, lassú. Se l’avesse già preso, tornerebbe di stamattina. Però l’appuntato dice che secondo lui non è tornato a casa. Bisognerebbe sapere chi era quella donna: sicuro è andato da lei per nascondersi o per farle la pelle. Magari c’è qualche ragazza che la conosce.
Ciccia meditabondo, gli tremavano i baffi. – Bagasce, che fanno queste cose di nascosto. Fosse solo mia figlia!…
— Io credo, – disse Cicciotto, asciugandosi la fronte sudata, – che invece sia ancora in paese, nascosto da qualcuno. C’era troppa luna stanotte, e le strade io, Melo e i carabinieri le abbiamo passate tutte. Faceva un chiaro che dalla Torre vedevamo il frangente nel mare.
— Non cianciare tanto, – brontolò Ciccia. – Che siete capaci solo a far questo…
— Se il maresciallo torna a mani vuote, è obbligato a dare la voce a tutta la riviera e allora, anche in paese, se c’è, lo prendiamo di sicuro.
— Sicuro, e, una volta avvertita la Spezia, io vado sotto processo.
— Se lo prendono, non ti fanno niente, papà. Ma è proprio passato dalla porta?
Ciccia mollò un ruggito. – E spalancata l’ha trovata, spalancata come questo cancello, e sarebbe stato un fesso a non uscire –. Agitò il mazzo delle chiavi: – Con questa ferramenta che ci dà il governo, neanche l’uscio dell’orto chiuderei, se avessi l’orto…
— Di’, papà, ce l’hai qui il fiasco? – Ciccia lo guardò sospettoso. – No, no, vado a casa a far colazione; ma dicevo che è meglio levarlo di qui, se faranno l’inchiesta. Direbbero che hai bevuto, magari.
Ciccia si succhiò i baffi e accennò che capiva. Cicciotto piantava pestate con gli stivali per scrollarne il terriccio, neanche tornasse dalla caccia in palude. D’un tratto levò il capo:
— Possibile che non abbia toccata la serratura? Dice l’appuntato che tutto dipende di qua per la tua inchiesta. Se l’avesse forzata, tu non avresti nessuna colpabilità, e lui nemmeno, perché la legge li protegge sempre.
Ciccia aprí un occhio di traverso.
— Fa’ vedere questa serratura, – concluse Cicciotto.
Davanti all’usciolo si chinò dicendo: – È chiuso?
— Sí, c’è dentro quel prete… uno che va al confino… ripartirà alle cinque, l’ho messo qui perché era vuoto…
Cicciotto lo lasciava dire con faccia di scherno.
— L’ha veduta il maresciallo?
— Sí… no, è venuto solo al cancello. Il sopraluogo lo farà quest’oggi…
— Mi avessi chiamato qui ieri sera, papà. Non puoi traslocare un momento questo prete? Io vado a prendere un ferro.
Svegliato in furia, il prete saltò su: non gli mancava che la giacca. Madonna, che barba da galera aveva in faccia.
— Presto, reverendo, le dirà dopo, le sue devozioni –. Aiutando e spingendo, Ciccia lo portò all’altra cella. Aprí svelto e lo cacciò dentro nel buio caldo. – Vi conoscete già. Stia tranquillo, è un momento –. Chiuse e tornò all’altr’uscio. Sicuro, bastavano due colpi. Non tornava Cicciotto?
Cominciò a sfruconare con un’altra chiave, e far leva e spaccarsi le unghie, ma non veniva a capo. Avrebbe bisognato schiodarla, addirittura. Ficcò la chiave giusta e in due scatti gli uscí sottomano il paletto, solido come il ferro. Era ferro. Neanche con la mazza si sarebbe spezzato. Girò indietro e il paletto scomparve.
Ecco Cicciotto, trafelato, con la cassetta. Piantò uno scivolone nell’entrata e gliela buttò ai piedi. – Presto, fannullone, che vengono i carabinieri del prete. Quando passa il treno?
Ciccia pasticciò qualche minuto, stringendo i denti e rompendo un cacciavite. Mugolava e tirò un calcio alla cassetta.
— Da’ qua, papà, provo io.
— Serrature da cassaforte, sono. Neanche il fabbro la dice. Sono gli unici soldi che spendono volentieri.
— Chi è che borbotta?
— Ho messo il prete coi gelati. Va’ deciso.
Cicciotto insinuò un semplice rampino nel buco e lo dimenò con cautela, cercando l’anima del congegno. – Non bisogna romperla male, – diceva tra le labbra, – bisogna che non chiuda, sembrando chiusa. Bisogna pensare che quello non aveva martelli. Ecco… – Si fermò un istante e premette leggero, socchiudendo gli occhi. – Pare che scivoli, – disse.
— Da’ qua, buono a nulla. Rompiamo: vuol dire che il maresciallo gli ha dimenticato un chiodo in tasca. Io non sono obbligato a star qui tutto il giorno. Avrà rotto, che ero fuori.
— E se fosse riempire la buca del muro? Tu giravi e sentivi chiuso e invece non era.
— Non sai cos’è carcere, tu. Quando vuoi che l’abbia riempita?
— Ecco, – esclamò Cicciotto, sempre curvo ad armeggiare.
— La molla salta. Prendi il martello.
Ciccia gli tese il martello sopra la nuca e Cicciotto immobile brancolò con la mano, a riceverlo. Poi, scostandosi di spalla, menò sul rampino ficcato un colpo deciso. Il rampino andò in terra.
— Buono a nulla, c’è restata la punta.
— Macché, – disse Cicciotto rialzandosi. – Prova la chiave.
Ciccia, trepidante, ficcò la chiave e girò nel silenzio. Mandò a destra e sinistra e nulla si mosse. Qualcosa saltellava sotto il gheriglio, ma il paletto non usciva piú.
Si asciugò il sudore. – Che adesso vengano, – disse rabbioso. – Quel boia è a suo posto.
— Il bello è che a lui non fa capo d’accusa. È ammesso che cerchi di scappare. Tu sí, se sapessero che hai rotto la molla.
— Io non ho rotto niente. Cos’ho rotto, io… E tu, mosca eh, gabbiano!… Porta via la cassetta.
Cicciotto diede anche lui il suo giro, mordendosi la lingua, poi raccolse i ferri e se ne andò.
Ciccia girò un’altra volta la chiave, accostato l’uscio. Ecco che l’uscio restava aperto. Naturale: non se n’era mai accorto.
Venne, ilare, tirandosi i baffi, all’altra cella e abbassò lo sportellino. Una voce lenta parlava. Ciccia gridò abbassandosi: – Si tenga pronto, reverendo, fra poco si parte, – e richiuse.
Ricomparve Cicciotto sulla soglia di strada. – Papà, i carabinieri, – e scappò, curvo innanzi.
Ciccia fissò la porta, vuota, il selciato fresco. Ecco i passi. Comparvero gli scarponi a stivale. Neri e rossi, il vestito pesante, il berretto per storto.
— Siamo già in piedi, giovanotti?
Quello tarchiato, dai baffetti a spazzola, aveva ancora gli occhi chiusi. Si cavò il berretto con una ditata e sorrise per disgusto.
— Tutte le notti fate questa festa? – disse di malavoglia. – C’è voluto del buono a restare in caserma. Il maresciallo ci voleva distaccare pure noi. Che si scherza? Noi non siamo della forza.
L’altro aspettava sulla porta.
Ciccia, andando alla cella, si volse: – Nessuno è tornato ancora? – Fece un muso compunto e cercò la chiave. – Sono casi eccezionali. Non tutti sanno scassinare una porta… L’avete fatto il bagno?
— Di sudore, – borbottò il carabiniere, cacciandosi la mano nel colletto. – È la spiaggia della miseria. Ci sono piú pietre che acqua.
— E zanzare e bagasce, – aggiunse quello taciturno, dalla porta.
— Ce lo date questo prete? – s’impazientí il piccolo. – Che non si perda il treno.
Ciccia aprí l’uscio e chiamò il reverendo. S’affollarono il Biondo e quel Nanni con lui, salutandolo. Il Biondo gli tendeva la mano, vociando: – Buona stagione, reverendo, si ricordi di noi detenuti, – e il prete usciva di schiena.
— Presto, – gli disse Ciccia. – Indietro voi –. Respinse Nanni e chiuse l’uscio. Il trepestio cessò.
Mentre riempiva il registro d’uscita il reverendo giungendo le mani s’avvicinò al carabiniere. Anche l’altro dalla porta s’avvicinava.
— Ci sono notizie di quel giovanotto che è evaso?
— Non ancora, reverendo. Sarà questione di tempo. Non è lui che la faccia franca, sicuro. Piuttosto, se fa altre sciocchezze, ne andrà di mezzo qui il nostro portinaio.
Ciccia levò la testa: – Quando si è fatto il proprio dovere…
— Lo chiamate fare il vostro dovere, lasciarlo scappare? – tagliò secco il carabiniere.
Ciccia perse il filo. Vide l’altro carabiniere, prima sovrapensiero, mettersi a ghignare. Riabbassò il capo, mangiandosi le parole.
Il reverendo stava immobile, nel centro della stanza, la sua giacchetta abbottonata, i larghi calzoni pesanti arricciati sulle scarpe.
— S’è già rinfrescato, reverendo? – disse il carabiniere. – Scusi, allora –. Si volse al compagno e questi s’avvicinò tastando nella giberna a tracolla.
Ciccia vide le due mani sovrapporsi e ficcarsi incrociate sotto il dente dei ferri. Le dita rapide del carabiniere fecero scorrere la vite e chiusero seccamente il lucchetto. Il reverendo rialzò il capo. – Regolamenti, – disse baffetti, sporgendo un labbro. – Ah! il cappello. Dov’è?
Prese il cappello sgualcito su una seggiola e glielo mise in capo.
Ciccia s’alzò e tese la penna al carabiniere. Mentre questi firmava, fuori strepitò arrestandosi la macchina.
— Siete almeno puntuali in questo paese, – borbottò il carabiniere. – Statemi bene allora. Credete a me, alla taverna andate dopo l’ultima ronda, non prima.
Uscirono. L’automobile s’allontanò. Dalla soglia Ciccia vide certi leandri fioriti, alti di là dal muro, indorarsi alla luce calda. E cominciavano tonfi di porte, strida di bimbi, richiami. L’acciottolio d’un carretto fece tremare l’aria, e non c’era nessuno.
Ciccia rientrò, accostando il cancello, e andò lento all’armadio. L’aprí cauto e prese il fiasco, schiarendosi la gola. Già il bicchiere mostoso sapeva quel profumo. Ciccia versò e, bevendo adagio, levò gli occhi alla volta. Udí frusciare il cancello.
Controluce non conobbe subito quel vagabondo giacca a spalle, che girò gli occhi per la stanza. Poi lo prese uno scossone e gli cadde il bicchiere. Ma già quello diceva: – Bevete, la strada la so.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Carogne
AUTORE: Pavese, Cesare

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze

TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)