di Luigino Bruni e Giuseppe D’Emilio
Trascinato dal Garbino, il vento ghignante che giunge da Roma e che gli incolti chiamano Libeccio, un orrendo spettro si aggira per le coste, per le valli, per i colli e per i monti azzurri delle Marche: il Ramadan, cioè, volevamo dire, la Quaresima.
Contadini, fattori e vergare fiutano l’aria, improvvisamente intristiti: addio feste, balli, canti, corteggiamenti, serenate; addio.
Che tristezza: durante la Quaresima non si può nemmeno contrarre fidanzamento! Approfittiamo, quindi, del Carnevale, il periodo della follia, per mostrare il lato nascosto (o quello vero?) di noi stessi e, soprattutto, per mangiare in vista del prossimo, probabilmente salutare, digiuno. Non a caso un famoso detto popolare recita appunto: «Da giovedì grasso tutte le padelle fan fracasso» […]
E bisogna mangiare bene, ci deve essere abbondanza, un’abbondanza che, nel passato, si cercava di spandere anche sulle cose povere E si deve abbandonare la leggerezza, per stare bene in allegria; si pensi che la tradizione vuole che le castagnole, le regine del Carnevale, nuotino letteralmene nello strutto […] La caratteristica che accomuna la maggior parte dei dolci carnacialeschi italiani, infatti, è proprio il loro essere fritti […]
Benché il tradizionale e seguitissimo Carnevale di Fano sia famoso anche per il lancio di dolci sulla folla, le Marche sono una regione al plurale non solo nel nome; i dolci più diffusi, pur presentando varianti locali, sono perciò spesso gli stessi che ritroviamo in altre regioni: castagnole, appunto, molto diffuse come la cicerchiata, ma anche cresciole, frappe e zeppole; ciò evidenzia i rapporti con le cucine umbre, romagnole e abruzzesi.
C’è tuttavia un dolce che la Regione Marche ha inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali: gli scroccafusi.
Secondo gli esperti del sito www.ricette-tipiche.com, per preparare gli scroccafusi «gli ingredienti sono i seguenti: 800 gr. di farina, 5 uova, 150 gr. di zucchero, 25 g di olio d’oliva, un bicchierino di mistrà, scorza grattugiata di limone. Si amalgama e si lavora il tutto, sino a formare un composto che risulti piuttosto leggero, con cui si fanno pallottoline grandi quanto una noce. A questo punto, se si preferisce friggerli, gli scroccafusi si immergono in acqua bollente, avendo cura di toglierli subito, appena venuti a galla; quindi si collocano su un telo e si coprono con un altro, per evitare che si formi una pellicina. Si procede poi alla loro frittura in strutto bollente, badando che il fuoco sia lento. A Montelupone si adopera esclusivamente fuoco di canna, proprio perché il calore moderato della fiamma evita ai dolci di cuocere troppo esternamente, lasciando crudo l’interno. Appena pronti, si immergono nel miele. Quando invece si preferiscono al forno, gli scroccafusi, dopo esser stati tolti dall’acqua bollente, si pongono su un panno e si asciugano delicatamente; quindi si sistemano su una lastra, unta di burro, e si tengono per circa mezz’ora in forno ad una temperatura di 150°. Ancora caldi, si cospargono di zucchero vanigliato e si spruzzano di alchermes o rhum».
La cicerchiata ha invece una base di pasta di farina, uova, burro e zucchero, con la quale si realizzano palline del diametro di circa un centimetro, che – ormai ce lo aspettiamo – vengono in seguito fritte nell’olio d’oliva o, ancor meglio, nello strutto. Le palline di pasta, una volta scolate, vengono ricoperte di miele che, depositandosi tra le palline, le conforma in una struttura solida. Pare che un dolce simile sia addirittura citato nelle antichissime e celeberrime «tavole eugubine» come cibo di cui nutrirsi in occasione di cerimonie rituali.
Cosa bere con queste delizie? Come è risaputo, ai sapori dolci vanno abbinati, di norma, vini dolci, aromatici, come il classico Moscato d’Asti, per intenderci.
L’abbinamento su base territoriale offre poche ma ottime possibilità: i passiti di Verdicchio (che hanno spesso un sentore di miele che si sposa benissimo, ad esempio, con la cicerchiata), i «nuovi» moscati marchigiani, il vino di visciole. Interessante è anche l’accoppiamento col vino cotto, che in passato era proibito commercializzare, ma che dal 2000 è riconosciuto come uno dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani; secondo alcuni storici, la cottura del vino era praticata già nell’antico Piceno e ciò, forse, spiega la diffusione del prodotto anche nel vicino Abruzzo, visto che l’areale piceno si estendeva nell’antichità fino al fiume Pescara.
Sono in generale ideali con i dolci tutti i vini passiti ottenuti grazie all’attacco dei grappoli da parte della muffa nobile Botrytis Cinerea (un fungo che conferisce alla buccia degli acini aromi preziosi e un tasso zuccherino particolarmente elevato), come il Muffato della Sala.
Altri vini adatti ad accompagnare i dolci di Carnevale sono quindi: Marsala, Recioto di Soave Classico passito, C.O.F Picolit e C.O.F Ramandolo, vini friulani, Vin Santo toscano, Albana di Romagna passito, Malvasia delle Lipari, Passito di Pantelleria, Alto Adige Moscato Giallo, Alto Adige Weissburgunder vendemmia tardiva e il Moscadello di Montalcino.
Il Sagrantino di Montefalco passito, per i suoi sentori che richiamano la frutta rossa come visciole, more, ribes e mirtilli, lo riteniamo ottimo con le zeppole all’alchermes (liquore ottenuto miscelando alcool, zucchero, scorze d’arancia, cannella,vaniglia, acqua di rose, chiodi di garofano e, addirittura, cocciniglie) dal gusto delicato e dal profumo che richiama il sottobosco.
Come in altre regioni, specie settentrionali, nelle Marche è diffuso anche il vin brulé; è consuetudine salutare il Carnevale con un buon bicchiere di questo prodotto (vino caldo con spezie), che riscalda e aromatizza piacevolmente le lunghe giornate di scherzi e sfilate.
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista “Next” edita da http://www.boxmarche.it