La ripubblicazione, nel 2009, del romanzo “Davide” per iniziativa della Casa editrice Sironi, ha risvegliato l’interesse nei confronti di questo scrittore livornese, che in vita patì un vero e proprio, quanto ingiustificato, ostracismo da parte della critica ufficiale, amato, invece, e molto letto all’estero, in Francia in modo speciale, e poi in Messico, dove stabilì la sua residenza e morì nel 2003.
“Fabrizio Lupo” fu il suo settimo romanzo, che uscì in francese nel 1952, e che solo nel 1978 Coccioli tradusse in italiano, dichiarando di considerare quest’ultimo “il testo originale”. Scriveva infatti agevolmente in tre lingue: italiano, francese e spagnolo, e provvedeva direttamente alla traduzione dei suoi libri. Il romanzo creò molto rumore, trattando della omosessualità, in quegli anni ancora un tabù soprattutto in Italia.
Prima di questo romanzo aveva scritto: “Il migliore e l’ultimo” del 1946, dedicato alla Resistenza e considerato da Giorgio Bárberi Squarotti, “uno dei migliori sull’argomento“; “La difficile speranza”, del 1947; “La piccola valle di Dio”, del 1948; “Il gioco”, del 1950; “Le bal des égarés”, del 1950, il suo primo in francese; “Il cielo e la terra”, del 1950: romanzi che Giorgio Bárberi Squarotti considera “profondamente religiosi, tutti bellissimi.”
Molti altri ne seguirono, tra cui “L’erede di Montezuma”, del 1964; “Documento 127″, del 1970; “Uomini in fuga”, del 1973; “Davide”, del 1976 e “Il piccolo Karma”, del 1987, che gli rinnovò il successo nel mondo. Fu un combattente della Resistenza, e anche giornalista; suoi articoli apparvero in Italia sul quotidiano “La Nazione“. Così come limpidi furono quegli articoli, allo stesso modo è ancora oggi la scrittura nei romanzi, soprattutto in questo, ove il respiro del narratore è esaltato e impreziosito ai massimi livelli. Coccioli ama scrivere e raccontare, non v’è dubbio. È una sapienza innata, una vocazione che tutto lo fascia e ravviva.
La storia è narrata in prima persona e chi racconta è lo stesso autore, il quale dopo aver scritto un romanzo riceve una strana pagina bianca, firmata “Fabrizio”. Al secondo romanzo una nuova lettera dalle caratteristiche identiche; e infine una terza lettera invoca il suo aiuto e così un giorno Coccioli incontra il misterioso lettore: “un giovane più giovane di quanto non me lo fossi aspettato”, il quale gli rivela “io, forse, sto per morire.” Coccioli rammenta di aver conosciuto, solo di nome però, Fabrizio Lupo come pittore, visitando una sua mostra a Venezia, e i suoi quadri gli erano piaciuti: “ne conservo un gran ricordo.”
Costui vuole che sia resa testimonianza di sé, dei suoi travagli, e chiede allo scrittore di avere il coraggio di pubblicare la sua storia. Gli racconta, così, dei suoi turbamenti adolescenziali e dei vani tentativi di sopprimere la sua tendenza omosessuale andando alla ricerca di ragazze ideali alle quali corrispondere la sua sete di amore: “Gesù, fa’ che la possa, fa’ che la sappia amare!”; “Aiutami, Gesù, a essere come gli altri.“; “volevo amare Teresa con tutto il mio corpo oltre che con tutta l’anima mia”. Invano. Era difficile amare e farsi amare: “E l’assurdo fu che non ci riuscii!”
Coccioli ascolta con attenzione. La confessione del giovane, che andrà avanti per diverse giornate, ha un’intima sofferenza che sembra coinvolgerlo. Infatti, non è difficile sostituire a Fabrizio Lupo lo stesso autore. Vi sono dati biografici che li accomunano: “Possedevo, eredità della Resistenza, una pistola”, dice Fabrizio, che ha dunque avuto contatti con la Resistenza, come li ha avuti l’autore, Fabrizio pensa al Messico, e in Messico ha vissuto la maggior parte della sua vita l’autore.
Fabrizio vuole suicidarsi, una volta scoperta la sua anormalità.
Ma recatosi dall’armaiolo per acquistare le munizioni, subito s’innamora di Roberto, intento, dietro il bancone, a esaminare un fucile da caccia, e gli dice senza porre indugio: “Ti amo. Fu presso a poco ciò che io osai fare allora, e mi salvai dal suicidio. Mi salvai dal suicidio e, naturalmente, finalmente, accettai. Accettai me stesso.”
La solitudine del diverso, la sua paura di dichiararsi emergono in tutta la loro sofferenza e drammaticità: “ai miei occhi io mi sentivo un mostro!” La società che non comprende e acidamente condanna (“riscoprivo il pozzo inesauribile dell’infamia che mi segnava”) diviene la prigione lancinante e senza luce in cui la vita del diverso si raccoglie e rattrappisce in un incubo feroce e corrosivo. La liberazione resta l’unico modo di salvezza, il coraggio di non tradire se stesso si rivela l’indispensabile e unica via di uscita. Così che affermare la propria vita diversa significherà acquisire definitivamente la normalità che si andava cercando. Fabrizio si rivolge a Coccioli perché lo aiuti a far comprendere “la nobiltà, la dignità, l’ ‘ordine’ di un amore come il mio. La sua bellezza, la sua autenticità, la sua gloria. La sua verità anche davanti a Dio. Voglio, tramite te, rendere una testimonianza”.
Dio è spesso presente nella confessione – testimonianza di Fabrizio. Ciò che lui è, discende dalla volontà di Dio: “io mi sono limitato a ritrovarmi. Il responsabile è Dio.” Egli si sente creatura di Dio, come lo sono tutti gli uomini. Ed è per questo che condanna esplicitamente la Chiesa: “a uno come me la Chiesa non aveva pensato mai”.
Laurent, che egli incontra a Parigi dove si era recato per una sua mostra, gli appare all’improvviso davanti; è un bel giovane di circa ventitré anni e se ne innamora. Ciò che segue è la storia di questo amore: sofferto, tribolato, apparentemente sconfitto; una testimonianza che si trasforma in una vicenda universale e collettiva: “Un aiuto che darai: non a me, però, che sono al di là di qualsiasi aiuto, bensì ai miei innumerevoli congeneri, che aspettano.” Ciò che accade, ossia, non riguarda più solo Fabrizio Lupo, ma il rapporto tra l’egoismo e la cattiveria della società e un amore omosessuale palpitante e vivo come ogni altro amore: “Non si ammettono discriminazioni, non si ammettono gerarchie nell’amore!” Entrando in una chiesa, così pregherà Dio: “Sono venuto, padre, a testimoniare che ho udito la tua voce e che ho colto il tuo cenno. Sono venuto a chiederti di non farmi indegno di lui. Sono venuto a dirti che nel guardare Laurent riscopro te: te non più invisibile, diffuso, indifferente, ma vivo, concreto, agente, consolatore. Fonte di amore: amore.” Pare di ritrovare, pur con le dovute differenze, la stessa angosciosa disperazione con la quale Paolo VI si rivolgerà a Dio con la celebre e vibrante preghiera in occasione, nel 1978 (si badi, lo stesso anno dell’uscita del romanzo in italiano), dei funerali di Aldo Moro. Dio, ossia, può anche deluderci, sferzarci, ma resta sempre la fonte di ogni nostra speranza e il fine di ogni nostro gesto di amore.
La delicatezza con cui l’amore tra due omosessuali viene trattato nel romanzo è tale che ne affiorano purezza e intensità, al punto che non siamo più in grado di distinguere questo amore dagli altri. Coccioli ci dà così testimonianza che l’amore donato da Dio agli uomini non patisce distinzioni, e il donarsi agli altri è solo e unicamente frutto dell’amore. Una tesi che sarà messa in bocca più avanti anche al principe Enrico. Le lettere che Fabrizio scrive a Laurent (Lorenzo, Lorenzino) hanno il candore dell’adolescente invaso da un sentimento puro. Si avverte un più vicino contatto con la spiritualità, o, ancora meglio, la elevazione morale del personaggio nel momento che incontra e aderisce all’amore. Ciò è ancor più centrale ed evidente di quanto appaia, per esempio, nel bellissimo libro di Pier Vittorio Tondelli, “Camere separate”. Al centro del libro di Coccioli, infatti, non vi è tanto una storia sentimentale tra due omosessuali, quanto l’amore: la sua difesa contro ogni limitazione e distinzione che ne fa artificiosamente la società (ed anche la Chiesa) in contrasto con la volontà di Dio. L’amore descritto da Coccioli è strettamente legato a Dio: “Come rifiutare Dio?” Da Lui discende e in Lui si purifica. Scrive Fabrizio a Laurent, tornando a dargli del voi (in principio è frequente l’alternarsi del tu con il voi): “Quando penso a voi, credo di più in Dio; credo in Dio come non ho creduto mai; credo in un Dio buono e possente, generoso e padre; estraneo alla minaccia, ma disposto all’esortazione; Dio affrancato dalle frasi degli uomini, e finalmente semplice e raggiante; non dio di amore, ma Amore”. Ne patisce la suggestione: “Era domenica, e avevano suonato molto, meravigliosamente, tutte le campane.”
La esclusione dalla Chiesa, ancor più della esclusione dalla società, continua a lacerare Fabrizio. Coccioli cerca di consolarlo: “Se è madre degli uomini, la Chiesa non può rinnegare gli uomini. Tu sei un uomo. La Chiesa non può rinnegare l’amore: è stato proclamato che dov’è l’amore è Cristo.”
Fabrizio esprime la omosessualità al livello più alto, dunque, al livello, cioè, dell’amore (con “l’iniziale maiuscola”), tanto diversa da altre omosessualità finalizzate al solo piacere, com’è il caso di Pierre Libert che nei pressi di Saint Germain-des-Près, la notte “deambula sul marciapiede in attesa dell’amore: con l’iniziale minuscola” o di William T.; la omosessualità, ossia, che si esibisce imitando la donna, pur avversandola, e che non riesce a legarsi ad alcuno. Una unione che dura solo fino all’alba: “l’alba viene, e cancella. Cancella l’amore, e persino la memoria. Resta, se resta, un ricordo vago; restano un asciugamano sudicio, forse un nome, un profumo; e basta.” Fabrizio ne sottolinea la distanza, ne ha compassione. Del suo amore vero è orgoglioso, invece, lo difende fino a farne la sua croce. Come tutti gli amori sinceri, infatti, esso arreca al suo cuore gelosia e sofferenza. Vorrebbe più attenzione da parte di Laurent, qualche volta si sente addirittura escluso: “Laurent mi trattava con una certa durezza”. Si chiede: “per la nostra razza l’ordine è impossibile?”
È partendo dall’amore che alberga nel cuore di Fabrizio che Coccioli, con il suo romanzo, lancia una severa accusa alla società e alla Chiesa. Non vi sono indulgenze. L’omosessuale è lasciato solo, dopo secoli che la omosessualità è conosciuta e praticata, fin dai tempi dell’antica Grecia.
Colpisce la compostezza del j’accuse, che si avvale di una determinazione e di una sicurezza che promanano, in Coccioli, dalla sua fede in Dio. La società e la Chiesa, infatti, sono in ritardo e non hanno compreso Dio, che ha creato gli uomini tutti eguali nell’amore. Occorre, dunque, rimboccarsi le maniche e ricostruire questo legame, non rinunciare a “una speranza di ordine.”: “Che cosa attende la Chiesa, madre universale, per insegnare a noi un comportamento […] Fabrizio Lupo possiede un’anima. Che cos’ha fatto la Chiesa per quest’ultima?”
Coccioli spiega a Fabrizio come dovrà essere il romanzo che scriverà su di lui, intitolandolo con il suo nome e il suo cognome: “Se intendiamo proporre alla società un dossier più completo possibile sulla condizione dell’omosessuale nella nostra epoca, non possiamo limitarci a presentarle la storia di un amore, per elevatissimo che questo sia, fra persone del medesimo sesso; dobbiamo offrirle egualmente un ampio riflesso della mente e del sentire intimo e segreto dell’omosessuale: dai suoi gusti, mi sembra, ai suoi urli.”
Sembra di leggervi la stessa fede e la stessa ostinazione di un Truman Capote, la cui vita tuttavia restò assai più travagliata di quella di Coccioli, coinvolta in una sregolatezza tale che lo condusse anzitempo alla morte.
Anche la disperazione di un Rimbaud fa capolino nei momenti in cui Fabrizio vacilla e perde la speranza, come pure nei momenti in cui Laurent sembra tradire il suo progetto di un amore che metta finalmente ordine alla sua “razza“.
Quando viene trascritto il manoscritto che Fabrizio ha lasciato in mano a Coccioli quale bozza di romanzo, ripercorriamo le tappe del suo dolore e dei suoi sogni. Ciò che il giovane ha raccontato nel corso delle sue visite, in esso trova il suo approfondimento: pagine simili a un diario (“Immaginazione e verità, romanzo e diario”), ricche di riflessioni che segnano e scavano un percorso accidentato in cui l’anima rischia di perdersi e di annullarsi.
Vi è dunque in questa seconda parte del romanzo una intenzione ancora più determinata; meglio ancora, una invocazione che sale direttamente dagli oscuri recessi della propria intimità: “Quelle pagine scritte mi attendono, affinché v’introduca sangue, vita.”
Ci sono passaggi che ricordano “La morte a Venezia” (1912) di Thomas Mann. Siamo a Firenze e Fabrizio scorge un adolescente appena uscito da una scuola, che suscita in lui le prime consapevoli pulsioni omosessuali: “così lo vidi, così lo riconobbi, e qualunque altra presenza si sbiadiva, nullificata dalla sua intensità nell’essere. E vidi i suoi capelli fulvi, arruffati, veementi; il suo collo, la sua maestà; vidi lui come gli angeli delle maestà di Piero della Francesca; e vidi che si fermava un attimo in mezzo al selciato cittadino, nume partorito dai muri; vidi che il tempo si era immobilizzato; solo lui nell’astratta solitudine della città; lui, il Ragazzo…”
La figura del Ragazzo, attraverso una specie di onirismo che lo viene trasfigurando, acquista a tratti il simbolo di una divinità nuova e vindice, riflesso e irradiazione di una bellezza spirituale portata al suo estremo: “Nella strada polverosa va il Ragazzo avvolto nel sole. I vecchi di tutta la terra bramano succhiargli il sangue giovane. Essi il cui corpo è corrotto.”; “eravamo uguali al Ragazzo che camminava nella campagna al sole”.
È la parte centrale del libro, la più ampia, in cui Fabrizio non è più a contatto con qualcuno (nella prima parte era a contatto con l’autore, al quale raccontava), bensì con il se stesso più segreto; non racconta più, cioè, agli altri e la scrittura diviene il se stesso che si rivela. Da qui un trasudamento di spiritualità, di rare atmosfere, di simbolismi e metafore tutti tesi ad una rivelazione, ad una conquista, ad una liberazione, il cui fine è dare ragione e giustificazione al proprio essere. Si oltrepassano, ossia, le circoscritte ragioni dell’omosessualità per affermare, con un afflato misticheggiante, l’universale legittimità di ogni esistenza in quanto voluta da Dio.
Il dialogo con il cieco dalla nascita che non sa che cosa significhi essere cieco, in quanto non sa che cosa sia la vista, recupera e afferma una consistenza, una compattezza e una verità dell’essere così com’è. Il non cieco rivendica la sua normalità allo stesso modo che la rivendica l’omosessuale.
Perfino il concetto della morte è fuorviante, giacché “nell’attimo in cui un vivo smette di esserlo la morte smette automaticamente di esistere; in altre parole, non esiste la morte; oppure: la morte è un atto di vita, la morte è vita.”
Il romanzo è un tentativo di reimpostazione dell’esistente che è stato fuorviato da concettosità e artifici che hanno condotto ad una ingiustificata e arbitraria differenziazione della specie umana. Quella di Coccioli è una operazione chirurgica avviata nei confronti della società, un tentativo di amputazione delle escrescenze che l’hanno ammorbata e ridotta ad una miscela impura e corruttrice. Non è un caso che questa parte della riflessione di Fabrizio avvenga ad Assisi, luogo di alta spiritualità e simbolo universale della pace e della fratellanza.
La struttura del romanzo va assumendo una qualche forma di avanguardia, con le sue tre parti sorrette da modulazioni diverse, intersecandosi, contenendosi e che confluiscono infine in una indagine che va ben oltre il romanzo, trasformandosi in un percorso investito di una sacralità messianica impressa dalla sofferenza. Ad un certo punto il Ragazzo dai molti nomi risponde, ad una donna che lo chiama figlio, allo stesso modo di Gesù -: “Madre non ho; mia madre è morta.” E la donna domanderà: “Ma allora tu chi sei? Se non sei il mio attesissimo figlio, chi sei?” Spesso è l’apologo che cerca di interrogare e di interpretare lo spirito dell’uomo.
Ogni sorta di sofferenza umana è inclusa in questo libro, e l’uomo, pur non comprendendo le ragioni di Dio, a lui si mantiene legato attraverso il dolore: “Vi è stato un momento, stanotte, in cui mi ha sopraffatto la necessità di pregare.” Si potrebbe anche dire che quest’opera sia una vera e propria summa del dolore. Coccioli ne percorre arterie, vene e capillari, in essi si immerge nel tentativo di capire e di risorgere. A un tale obiettivo è rivolto il significato, ad esempio, del sogno che Fabrizio fa di essere morto e rinchiuso in una bara e di attendere l’istante in cui la sua anima si staccherà dal suo corpo.
L’opera non è di facile lettura, i livelli interpretativi sono molteplici. Vi sono perfino a tratti il riflesso luciferino di una discesa all’inferno (si veda in particolare il capitolo 44), e anche un gotico che ci avvolge di orrore e di paura (si pensi al sole nero, alla rosa nera e alle conseguenti atmosfere che evocano, al cadavere del capitolo 90, in cui si ricorda perfino “Il bacio di una morta” di Carolina Invernizio), nonché una visionarietà che nei suoi momenti più acuti percuote e trafigge l’anima. Ogni tanto affiora alla mente il capolavoro di Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, uscito in Italia nel 1967. Una composizione orchestrabile in molte chiavi, dunque, tutte compenetrate da una forte volontà di conoscenza e di rivincita. Coccioli mostra intera la sua inquietudine, perfino il suo smarrimento, ma non c’è un istante in cui la sua determinazione ad affermare la normalità di ogni essere umano venga meno o si affievolisca. L’opera mantiene ancora oggi intatte la sua forza, la sua ostinazione e la sua protesta, in virtù anche di pagine di vivida bellezza e intensità (si pensi a quelle dedicate a Gordon, “una deliziosa bambola dagli artigli pitturati, con lunghe sopracciglia e labbra di corallo.”, incontrato ad Arezzo nei giorni della Giostra del Saracino).
Dirà Fabrizio ad un amico, Renato, a proposito del manoscritto che sta scrivendo: “forse questo libro sarà anche per me come magia: un’invocazione attiva affinché «lui» venga.”
Il passato, specialmente quello rustico, contadino, è evocato come un’oasi di pace, di gesti lenti e impregnati dal tempo, ancora intatti nel loro antico sapore: “L’assedio dei ricordi si fa incalzante, il fruscio del mare calmissimo accresce il mio lancinante bisogno del passato.” È un rifugio, quasi un ritorno ad uno stadio infantile e innocente: “Nemmeno il bosco, salvo di notte, fa rumore.”
Da lì prendono forma e si elevano, in uno spazio che non ha più confini, i suoi fantasmi, dalla parvenza di maschere grottesche, quasi nati per partogenesi dallo stesso Ragazzo, come il Discendente ed altri (la piccola signora Carmela, Agatina, Zeid, Lia, il Prete Grasso, il Prete Nero, il Segretario Comunale, la marchesa Giovanna, il principe Enrico, la cui figura crescerà sempre più nel romanzo), i quali si muovono dietro un velo di trasparenza in cui sensualità e spiritualità s’impregnano di una misteriosa invulnerabilità: “non recita il Discendente; recitano i secoli che gli stanno dentro: il santo, i papi, senza contare i cardinali, numerosi, e tutto il resto; recitano le sue ricchezze, i cinquecento contadini che nella campagna romana gli si rivolgono col titolo di eccellenza.”
La normalità che cerca Fabrizio ha preso le sembianze voraci ed onnicomprensive di una libertà congiunta ad una disperazione infinita. Dirà il Ragazzo: “Sono vecchio, Lia. Non te ne sei accorta?”
Il manoscritto si rivela passo dopo passo una sorgente feconda e incontenibile, dal getto ricco di un simbolismo alla William Blake che si fa via via sempre più allucinato, con visioni che si arricchiscono di una liricità pungente. A questo proposito uno dei segni più alti di una liricità, questa volta composta e struggente, lo si trova nella rievocazione di Marco, un compagno morto in guerra, falciato da “una scarica di mitragliatrice qualche ora dopo il tuo arrivo su quelle montagne greche. Era una notte di agosto talmente tranquilla che, sdraiatoti per terra, col viso rivolto al cielo, cominciasti a cantare.” Ma di questi segni ne avremo numerosi altri, e proprio nella seconda parte del romanzo.
La struttura si è nello stesso tempo allargata configurandosi e confluendo in una esperienza originale di grande spessore (siamo nel 1952, quando ancora non si erano affacciati i tentativi innovatori di Tel Quel e del Gruppo ’63). La meraviglia del libro sta proprio in questo suo essere senza frontiere, sospinto da una disperata ricerca della propria identità. Non è più la normalità l’obiettivo finale, ora, ma sono il mistero e la potenza dell’uomo. Lo scandaglio ha avvertito, ossia, uno spazio incognito e infinito che gli si è aperto davanti, ed ha abbandonato ogni calcolo per immergervisi. E si badi, non si tratta più di scendere e muoversi nell’oscurità, giacché il libro si viene illuminando della luce di un arcobaleno striato di nuovi e cangianti colori, quanti ne può racchiudere lo spirito di un uomo. Pur disperato, è un libro della speranza: “Barbarico, compatto, il castello non m’invitava a percorrere l’ultimo tratto per raggiungerlo; sentivo però che mi attendeva.” Questo castello ha molte analogie simboliche con quello presente nel romanzo di Alain-Fournier, “Il grande Meaulnes” (1913), che nel libro viene anche ricordato: “questo è il castello: la protetta sede, chimerica ma valida, dove regna in abbondanza ciò che la vita cotidiana concede poco, a stento…”
Sebbene non abbia una funzione centrale e determinante come, ad esempio, ne “Il castello” di Kafka, l’apparizione di esso nel romanzo, circonfonde ogni cosa (oggetti, paesaggi e persone) di un’aurea quasi mitica e leggendaria. Ci trasferisce in un altrove in cui sofferenza, delusioni, paure si trasfigurano in una speranza che sta per diventare certezza, immergendoci in uno specchio allucinatorio che miracolosamente mostra della realtà ciò che è e resterà invisibile. Il sogno di Fabrizio è reale, infatti, solido e concreto, pur nella continua disperazione, proprio perché proviene da questo altrove senza confini e profondità e va ad immergersi nella carne fino a farla dolere della propria fede. Fabrizio, al di là della sua specificità, è ormai un universale simbolo dei dolori e delle speranze di ogni uomo. Davvero complesso, ricco di spunti e di sapienza letteraria il romanzo, la cui primaria qualità sta ormai nel riuscire ad esprimere, misticamente e al contempo lucidamente, la vastità del molteplice e dell’immenso. Si pensi, ad esempio, al misticismo che si dilata e diventa luce e mistero se uniamo il castello alla casa-personaggio, che incontriamo nel capitolo 88: “la casa-personaggio sa l’eternità; sa che il tempo è onore: onore di Dio.”
Ne consegue che la centralità del romanzo si fa sempre più mobile, in un’ascensione che, nel mentre si eleva, si estende anche orizzontalmente fino a coprire di sé l’intera storia: “se trovassi una formula per mescolare armoniosamente tutti i giovani personaggi di questa mia storia, dico tutti e senza eccezione, ne uscirebbe il ritratto di lui: Laurent. […] Lui, insomma, c’è sempre stato; presente in ognuno, dappertutto, sempre. Presente addirittura, penso, prima del mio tempo e del suo: come se venisse da un’eternità che ci sia stata comune.”
Si può anche dire che Fabrizio si plasmi a poco a poco soprattutto con la complessità del Ragazzo (questi: uno specchio in cui si riflettono e convergono tutti) e del principe Enrico (quest’ultimo: gran raccontatore di storie, come lo era stato Fabrizio), per assumere insieme con loro una identità nuova, universale e fuori del tempo, e gli altri personaggi della storia si trasformino in propaggini di essi (si pensi in modo particolare a Antoine La Fourmi), riportando il tutto ad una poliedrica, sofferente unicità. Cadono, ossia, nel corso di questo processo, le differenze tra Fabrizio, il Ragazzo e il principe Enrico, che vanno assumendo a poco a poco la sola lacerante voce dell’insicurezza, della sofferenza e del dolore. Vedendo William piangere, Fabrizio scrive: “Ma non sono forse queste sue lacrime (mi sono detto subito) che giustificano il mio frequente ricorrere ai Personaggi? Muovendone i fili, io sto cercando di asciugare, appunto, queste lacrime; sto cercando di evitare che altri piangano. Vi sono, in ogni luogo, troppe lacrime; anche questo libro ne è pieno.”
Un tale faticosa e lenta unificazione è resa possibile, ad ogni modo, dalla ostinazione e dalla speranza. Dice al Ragazzo il principe Enrico: “ero simile all’insetto al quale hanno tagliato le antenne; che cosa può fare un insetto privo di antenne, a quale disperazione non si riduce il suo errare? E però non mi stancavo d’insistere nella ricerca.”
È il mondo della speranza, infatti, che nelle ultime pagine del manoscritto accoglie personaggi, paesaggi e sentimenti avvolgendoli di un lirismo che li rende leggeri ed eterei: “E le case partorivano fanciulli, che aerei trottavano nello scarso chiarore lunare su sentieri di neve.” L’amore sgorga ora dalla sofferenza e si fa frenesia, fremito, respiro di speranza. Tutto si rarefa (perfino il tempo arriva ad annullarsi: “affrancati dal tempo.”), e i contorni degli uomini, dei personaggi, si dilatano in una trasfigurazione purificatrice, talvolta raggiungendo una musicalità corale che ci riporta all’antica tragedia greca. La casa del contadino Simone, che incontreremo al termine della seconda parte in occasione della morte di Dario, ne sarà una suggestiva arena, su cui, specie con l’apparire della “comparsa”, arte grottesca, sacra rappresentazione e arte classica s’intrecceranno in una composizione di straordinario effetto: “Gioia, dolore, c’era nella musica del Cica quel che c’è nella vita, includendo la morte.”
Il romanzo non ha mai rinunciato alla sua ascesa verso il cielo e verso la speranza: “Non voglio rinunciare all’esigenza di ordine che ci giustifica davanti a noi stessi e davanti agli altri; e davanti a Dio che ci ha creati.”; “sai quale parola mi soverchia (e mi consola) ora che sto per rompere il diaframma tra il qui e il là? La parola: speranza.” A poco a poco ogni personaggio è stato trasfigurato dalla sua anima pura, così che da un tale lento processo vediamo scaturire una innocenza ed un candore sorprendenti e inaspettati, testimonianza di una raggiunta invulnerabilità: “Ci siamo fatti invulnerabili. Vogliamo che la nostra invulnerabilità sia una speranza per i nostri fratelli. Una speranza difficile: ma una speranza difficile è pur sempre una speranza. […] La conclusione di questo «romanzo» è che c’è un Dio a nostra immagine e somiglianza. Non abbiamo più paura, perché c’è Dio. Se la teologia ci ha abbandonati: se si rifiuta di assolverci, Dio non ci ha abbandonati.”; ma, soprattutto, le ultime parole che Fabrizio scriverà a Coccioli: “Ma abbiamo vinto noi.”
Le nuove lettere e le nuove pagine di diario che nella terza parte Fabrizio invia a Coccioli, congiungendosi alla prima parte, ne confermano il duro cammino intrapreso dal giovane: “Dio, come puoi essere cattivo, Fabrizio!” gli dirà Laurent, che sta vivendo un dramma esistenziale di proporzioni altrettanto ampie, tali da esaltare l’amore perseguito da Fabrizio, e da farne un personaggio di rilevante e complementare spessore.
Le due parti, ovvero, si pongono come sofferto sudario al cui centro si irradia e si consolida il processo di trasfigurazione e di purificazione rappresentato dal manoscritto; e se noi ora estraiamo quest’ultimo e lo sovrapponiamo alle insicurezze, alle delusioni, alle spinosità e alle lacerazioni le quali cospargono la parte iniziale e finale del romanzo (e che sono contemporanee al manoscritto), ne otterremo il calco di un sacrificio, di una immolazione, di un martirio, che si consacreranno (“mi sono sentito abbandonato dalla complicazione teologica; mai, nel fondo, da Dio.”) solo con la morte.