Morto nel 1968, all’età di 72 anni, lo scrittore, docente di letteratura tedesca presso l’università di Roma, è stato, oltre che narratore, saggista, elzevirista (l’ultimo elzeviro, intitolato “Tre nipotini”, apparve postumo sul “Corriere della sera” il 7 aprile 1968 – era morto il 30 marzo dello stesso anno) e un germanista molto apprezzato.
Purtroppo, come altri, anche lui si trova nel novero degli autori quasi del tutto dimenticati. Il suo nome mi richiama alla mente un altro bravo autore, del pari fine germanista, oggi caduto nell’oblio: Italo Alighiero Chiusano. Resta davvero un mistero come taluni artisti, capaci di scrivere testi ancora validi e stimolanti, possano essere dimenticati, mentre altri, meno bravi, riescano a sopravvivere attraversando quelle nefaste mode letterarie che si susseguono, quasi sempre capricciose e inconcludenti, negli anni.
Bonaventura Tecchi fu uno scrittore di forte ispirazione cristiana.
Tra le sue opere citiamo: Il nome sulla sabbia (1924), Il vento tra le case (1928), Tre storie d’amore (1931), I Villatauri (1935, Ernestina (1936), Valentina Velier (1950), Storie di bestie (1957), Gli egoisti (1959).
Come saggista scrisse, fra l’altro: Wackenroder (1927), Carossa (1947), L’arte di Thomas Mann (1956), Svevia, terra di poeti (1964), Goethe scrittore di fiabe (1966), Il senso degli altri (1968).
Veniamo al romanzo. A Roma, in casa di un famoso tisiologo di nome Paolo Contarini – “una casa curiosa, senza donne; eppure una casa di donne.”, situata nei presso del Foro romano, si ritrovano a pranzo alcuni personaggi, tutti scapoli, che hanno raggiunto una certa notorietà. Il pranzo è, in effetti, un pretesto per avviare una disamina di alcuni temi che inquietano la società, e soprattutto della sensualità e delle donne.
Ho sempre considerato che tra i narratori italiani, tre in particolare sanno descrivere la donna, con la sua bellezza, i suoi capricci, i suoi misteri: Mario Tobino, Alberto Moravia e Bonaventura Tecchi.
Questo romanzo ne è una conferma. Più avanti troveremo che uno dei personaggi, Fausto Almirante, rimprovererà che i giovani, soprattutto i giovani poeti, “non conoscono più la donna, la donna come è, di carne e d’ossa, angelo e diavolo, assai più diavolo che angelo”.
Ogni commensale ha in questo avvio l’occasione di intervenire e si crea così un contradditorio che ha in taluni personaggi dei punti luminosi di facondia e giocosità. Si pensi al dotto orientalista Fausto Almirante.
Ogni tanto l’autore introduce la descrizione di ciò che avviene all’esterno nel paesaggio e nella natura, colti nei colori di un pomeriggio che volge verso le ombre della sera e nella superba fierezza dei monumenti sopravvissuti di una Roma che ancora manifesta la sua antica grandezza: “Il vento passa ora più forte e più deciso davanti alle finestre. Un turbine di polvere si è formato, in lontananza, laggiù fra le pietre dei Fori, che adesso appaiono tutte nere, e incomincia a salire, con lentezza, nell’aria.” E più avanti: “Il nastro di polvere e di tempesta è come se si fosse innalzato su dalle pietre; batte adesso con sbuffi di pioggia e di grandine contro le colonne e gli archi dei Fori; passa, dispiegandosi e urlando, davanti alle finestre del palazzo Contarini, ne apre una, proprio nella sala da pranzo; irrompe, sollevando le salviette, fin sulla tavola, fra lampi di cristalli e di bicchieri tintinnanti.”
Una tale alternanza trasforma in realtà i personaggi seduti intorno a quella tavola in voci extracorporee generate dalle forme astratte del tempo e della società la quale in esso trascorre e muta. La presenza di due preti, uno più anziano e monsignore, l’altro giovane e straniero, conferma la sensazione di un paradigma del sempre eterno quanto mai consustanziale alla discussione.
Ci troviamo di fronte ad un avvio di impronta tanto filosofica che teologica, alla maniera antica (che ritornerà prepotentemente nel finale), nella cui rete Tecchi cerca di coinvolgere i suoi personaggi, oltre che, ovviamente, il lettore. Da Platone ad Erasmo corre un filo che si congiunge a questo romanzo di Tecchi, fino ad arrivare a Ignazio Silone, e ad altri epigoni ancora (si pensi a Testori, ma anche a Pomilio). È il preludio che avremo sempre presente durante la lettura, ossia: quella riunione intorno alla tavola appare come un punto di partenza, una specie di lago da cui si dipartono i vari emissari, le cui acque non sono mai disgiunte, nei motivi ispiratori, nel vento che increspa le onde, nei sali e nei sapori, da quella originaria.
La discussione avvenuta nell’autunno del 1946 non è infatti senza conseguenze. Alcuni di quegli scapoli, che parevano tanto irremovibili nella loro scelta, si sposano. Entrano in scena, così e finalmente, le donne viste da Tecchi, che offrono all’autore l’occasione di mettere in bella evidenza la sicurezza e la piacevolezza dello stile, arricchito da un acume e da un tocco magistrali: Isabella (Isy), affascinata dalla vita mondana, “Acre e civetta, eppure splendente di una acerba, forte e, nel fondo, dolce attrattiva”; Jeanne, svedese:”la scolarina del nord, alta, esile, con una chioma quasi troppo pesante, di un biondo carico, come oro scuro, che dava risalto al candore degli occhi e alla esilità del corpo, portava una blusetta azzurra, tutta chiusa, con una cravatta rossa, e una gonna scura, stretta, assai lunga…”, il cui ritratto è ravvivato da intense vibrazioni psicologiche che provengono, più che dal personaggio in primo piano Roberto Fauni, dagli stessi fisici movimenti di Jeanne, chiamata anche la “tortorella del nord”; Fausto Almirante, l’orientalista di fama (bellissimo un suo ritratto nel capitolo IV), sui sessant’anni, che mai si sarebbe sposato, ha ancora la sua “‘scolarina’ dagli occhi grandi di leprotto e la chioma breve da efebo, […] sorrideva candidissima e insieme appena appena un po’ equivoca; la donna aspra e cerulea, quella che monsignore aveva chiamato ‘il diavolo’, strideva da lontano, nella grande casa solitaria, con gli occhi e la voce della civetta di Minerva.”; oppure la sfortunata servetta Mina (la cui vicenda ricorda un po’ la Fanny di “Via dalla pazza folla” di Thomas Hardy), la quale entra in casa Contarini sedicenne “Svelta, graziosa, frullante come un’allodola, fresca come un fiore dei campi – i campi da cui era venuta”, e che Contarini seduce: “era certo sui venticinque anni, la Mina, quando Contarini la ebbe. Con quel corpo che non conosceva ancora l’amore e l’amore aveva aspettato; l’amore di cui in fondo ella non sapeva nulla, se non quello che aveva intravveduto, sì e no, nei campi, fra gli animali. Con la semplicità di un animale gli si diede, e insieme con una furia, con una passione schietta, dell’anima e dei sensi.”
Tecchi è capace di stendere sopra le pagine le atmosfere impalpabili che si agitano tanto nell’animo umano quanto nella natura e nei luoghi circostanti. La Pavia, immersa nella neve e nella nobiltà della sua storia, nelle cui strade, nel capitolo IV, passeggiano Almirante e il giovane traduttore Marcello Rudòr, assume la valenza di una simbologia che oltrepassa i limiti di tempo e di spazio, come fosse un luogo (allo stesso modo della tavola dell’inizio) dentro cui tutto si consegna ad una eterea dimensione ultraterrena: “In lontananza la città appariva, severa e turrita, col suo gran ‘ponte coperto’ sul fiume. I colori del tramonto – che da quel mare di neve sorgevano vividi, quasi paonazzi – avvicinandosi lentamente dalla campagna verso la città, parevan rosicchiare le mura antiche, investendole dalle fondamenta.”
Ora che due degli scapoli si sono sposati, Tecchi ha modo, dunque, di puntare l’obiettivo sul suo soggetto preferito: la donna. Isy e Jeanne sono diventate amiche, si frequentano, vanno a passeggio insieme, si ritrovano al caffè senza i loro mariti e possono parlarsi liberamente. Isy, annoiata di una vita senza emozioni, vuole indagare sulla felicità dell’amica, che sembra soddisfatta del suo matrimonio, ma Jeanne pare gelosa della propria intimità. Allora Isy cerca di mascherare il suo disappunto, “Ma le gambe, appena più grosse di quelle di Jeanne, si mossero visibilmente, un poco nervose, sotto il tavolo.” Un tale particolare è un piccolo gioiello. Tutta la scena che si svolge al caffè, nel capitolo V, è ricca di esempi di una tale raffinata introspezione. Quando le due donne sono raggiunte dai mariti: “Strano fu il modo col quale le bellezze delle due donne reagirono e si ‘trasformarono’: tutte e due, ma in maniera assai diversa. Se alla presenza degli uomini la bellezza di Jeanne parve accendersi di una luce in più, una luce delicata che voleva risplendere per tutti, ma soprattutto per uno, il marito; la bellezza invece di Isy si sarebbe detto che soltanto ora fosse nata, splendesse sicura.” Isy vuol far colpo su tutti, essere aggressiva e ammirata, godersi la propria bellezza riflessa nell’ammirazione e nella sensualità suscitate negli uomini: “la bellezza di Isy aveva bisogno della vista degli altri, soprattutto degli occhi degli uomini, per drizzarsi improvvisa, per vestirsi di un fulgore deciso e provocante.”
Vedremo che nel suo scandaglio psicologico, Tecchi è di una precisione chirurgica. I termini che sceglie sono quelli essenziali e diretti. Allorché comincia a nascere una infatuazione di Isy per il bel Marcello, un po’ poeta malinconico e un po’ traduttore, ma soprattutto smaliziato rubacuori, Tecchi scrive semplicemente, riferendosi all’amica: “Jeanne se ne accorse, e voleva, lasciando il caffè, portarla via con sé. Isy rimase.”
La narrazione ha il suo punto di forza, le sue luci e le sue attrattive in questo gioco sottile che Tecchi intraprende con le sue donne, non lasciandole mai libere, sempre sottoposte allo sguardo vigile e puntiglioso di un voyeur.
Ci rendiamo conto, ossia, che le donne di Tecchi non potranno essere mai private di un loro specialissimo ammiratore, giacché un uomo, lo stesso narratore, è sempre discretamente presente, come nascosto da qualche parte, con la sua attenzione. Pensa Rudòr di Isy: “è una di quelle donne che hanno bisogno del corpo per parlare, in cui solo il corpo dice la verità. Tutto il resto son chiacchiere.”, che a noi sembrano parole di Tecchi.
Le schermaglie amorose tra Isy e Marcello, quel darsi e ritrarsi di lei con civettuola leggiadria, quell’imbambolamento del maschio di fronte alla ragnatela costruita a poco a poco dalla femmina, dànno al lettore la sensazione di un lento fuoco che si sta sviluppando per produrre il grosso incendio di una passione furibonda di cui la donna è artefice e vittima allo stesso tempo. Isy sarà la rappresentazione più evidente di questa immagine.
La storia passa da un città all’altra, Roma, Pavia, Milano, in un girotondo che va assomigliando sempre di più ad un cerchio incandescente, alimentato dalle sottili e guizzanti fiammelle dei sentimenti e dei desideri trasformantisi in passione e viluppo dei sensi.
Alcuni dei protagonisti maschili, Contarini soprattutto, il famoso medico, non amano la solitudine, sono intrisi di malinconia. Riempiono questi momenti pensando alle donne della loro vita, alla loro bellezza, alle loro trasformazioni, alle suggestioni del loro mistero. Così che viene costruendosi a poco a poco una ineludibile presenza femminile nell’universale che ci circonda, la quale è vista come elemento fondante della nostra umanità.
La vacanza d’amore di Isabella (separatasi dal marito) e di Marcello sulle Alpi, in mezzo alla neve – descritta peraltro con pagine molto belle -, dà l’idea di questo scintillio e di questa centralità della donna, capace di accendere di sé una vita e di sacrificarsi per essa. È grazie a Isabella, infatti, alla sua sensualità, alla loro passione, che Marcello matura una sua crescita ed una sua trasformazione: “Il segreto della vita era questo: la misteriosa collaborazione del male col bene, del basso con l’alto, la spinta a vivere dal mondo degli istinti e delle passioni…”
Il sacrificio della donna sta nel non vedersi riconosciuta una tale centralità; il suo desiderio è quello di partecipare a questa trasformazione da lei generata; ed invece ne resta esclusa: “di quel mondo invece Isabella aveva curiosità, avrebbe voluto sapere…”
Marcello, grazie alla presenza di Isabella, ha scoperto il valore dell’arte, il miracolo della creazione artistica; da mero traduttore delle opere degli altri, ora si è innamorato della parola. Ne è geloso e “quella notte, per la prima volta, fra le carezze e gli abbracci, ci fu, nell’anima della donna, un sentore di tenebre.”
L’altra donna che ha sposato uno degli scapoli, Roberto Fauni, lo scienziato di fama, è Jeanne, la graziosa svedese. Anche a lei, Tecchi assegna un ruolo importante nei confronti della vita del marito (“il suo ragazzone viziato”), sebbene in modo del tutto diverso da quello che Isy ha nei confronti dell’amante Marcello: “Erano questi i suoi piccoli ‘tradimenti’ (così ella stessa li chiamava) in città e in campagna: vedere e gustare le piccole cose mentre lui, il celebre marito, pensava e vedeva le cose grandi.” Ma Jeanne comincia ad agire sul marito in rapporto con le inquietudini e le malinconie che ad un certo punto prendono ad accompagnare i suoi pensieri, proprio quando meno se l’aspetta ed è ormai convinta di una felicità conquistata e indistruttibile. La visita al paese svedese Èze, dove aveva incontrato per la prima volta il futuro marito, risvegliano in lei i ricordi della sua giovinezza, delle amiche e dei luoghi perduti. È un sottile lavorio all’interno dei sentimenti che l’autore mette allo scoperto con una analisi del personaggio Jeanne tesa a mostrare una sensualità più intima, mai appariscente ed irruenta come quella della bella e passionale Isy. Tuttavia, come sta accadendo ad Isy, anche Jeanne “sentì, stranamente, nella sua vita, un destino di solitudine.” Sono “donne dolorose”, le chiamerà Tecchi.
È ancora una volta la donna, dunque, che brucia se stessa in pegno della sua centralità. Scrive Tecchi: “Le due posizioni si somigliavano, sebbene fossero assai diverse per circostanze e graduazioni di solitudine e d’amarezza.” E subito dopo, la frase che esplicita il riconoscimento di un talento virtuoso, pagato a caro prezzo con l’incomprensione e la solitudine: “Il parlare, il comunicare fra donne, sulle cose vere e essenziali, è assai più difficile che fra uomini.”
Il tentativo che esse fanno per non sentirsi escluse a causa di questa consunzione morbosa è dotato di una specialissima sensibilità e di un vigore così forti da costituire e rappresentare essi stessi l’impossibilità di sfuggire a un tale cinico destino.
Al celebre orientalista Fausto Almirante capita di cadere in preda di una donna ancora giovane e piacente, “vedova di guerra”, che gli fa da amante e da infermiera; ne è, sembra, dominato, ma è davvero così?: “Quella era la prigione. Lo sapeva. Voleva ribellarsi, urlare il grido di protesta del suo ingegno, del suo estro intelligente e, alle volte, pieno di luce.” O la donna consuma anche in questo caso la sua sensualità a proprio danno in forza di quella sua dolcezza “che veniva, quasi sempre, dopo la prepotenza, dopo la prepotenza di voler fare l’amore a modo suo.”? A questa donna, Tecchi significativamente non assegna un nome. È in lei che l’intelligente Fausto, credendo di potersene liberare a comando, come aveva sempre fatto, sprofonda come in una prigione. Questa sconosciuta è la donna della forza e del mistero, della sadica seduzione che fa del possesso il suo dominio ma altresì la sua debolezza, giacché finendo per distruggere quel suo dominio, in realtà distrugge anche se stessa.
Emerge da questi ritratti di coppia l’immagine di una donna difficile, che raccoglie nella propria complessità ed imprescindibilità tanto il suo carisma centrale e trasformatore, quanto l’incomprensione, la solitudine e la pena del sacrificio: “si nascondeva forse il vecchio dissidio che divide da sempre l’uomo e la donna.”; e subito dopo: “l’incapacità, ingenita nell’uomo, a capire la ragionevolezza dei risentimenti della donna.”
Isy è la donna sulla quale Tecchi agisce con maggior accanimento (assai più dolcemente, invece, con la sfortunata Jeanne), facendone il fulcro più tenebroso della narrazione, privato, ossia, di quello spiraglio di luce che, soprattutto nel finale, accompagna la fine di Jeanne. Le inquietudini, le incomprensioni, le ansie, le insicurezze, la solitudine, il sacrificio, diventano in lei il dramma universale della insoddisfazione e della incomunicabilità. Attratta dalla personalità del “prete giovane“, che aveva incontrato la prima volta in occasione del pranzo descritto al principio del romanzo, si reca a trovarlo per riceverne consiglio e conforto: “Voleva sapere, sapere da lui perché si è così soli nella vita, nell’amore, perché Iddio, se un Dio c’è, possa lasciare tanto sole, nella vita, le sue creature. Non lo troverà in casa. Si noti che l’uomo in Tecchi non assume quasi mai, nemmeno Marcello, le raffinatezze psicologiche che contrassegnano la femminilità. Isy, pur con la sua appariscente bellezza e la sua sensualità, diventa una fonte di suggestioni e sentimenti di una tale ampiezza da rassegnarcela alla fine come il simbolo di una condizione tragica che appartiene più alla modernità, che all’antico, e allo stesso tempo più all’universale, che al particolare: “Noi non sappiamo nulla di quel che avviene fra l’uomo e Dio negli ultimi momenti, non sappiamo nulla del perché di questo mistero: la solitudine umana.”
È il romanzo della solitudine, infatti, questo di Tecchi: “l’enigma della solitudine umana, dell’impossibilità di comunicare l’uno con l’altro.” Una solitudine che viene da lontano, come una maligna meteora, o come la stessa neve che cade giù e che in questo romanzo ha una presenza molto forte: “Una caduta, ancor più abbondante, di neve, ne aveva quasi sbarrato la porta d’ingresso”. È anche la ricerca di quanto il demonico (tema che lega Tecchi al suo amato Goethe) sia presente ed incida nell’universo, e nell’uomo in modo speciale: “Spaventosa era l’azione del demonico.” E ancora: “il grande tedesco sempre, e in particolar modo nella vecchiaia, aveva avuto una specie di religioso orrore di fronte all’enigma della collaborazione fra il bene e il male”.
Che Tecchi abbia tentato con questo lavoro un’operazione analoga a quella di Goethe, nel suo “Faust”, è convinzione assai plausibile. Ne “Gli egoisti” la presenza del male che sa così bene insinuarsi nei momenti di felicità, è il filo rosso che tiene insieme quella specie di dannazione dei personaggi che, partita in sordina nella conversazione tenuta alla tavola romana di Comparini, ora è salita in superficie mostrando il ghigno sottile del piacere corrotto e della malvagità. Perché non ricordare anche “Diario di un curato di campagna”, dell’altrettanto cattolico Georges Bernanos? Il prete giovane non ricorda un po’ il curato di Ambricourt?: “chi getterà la propria anima allo sbaraglio per salvare un altro, quegli la salverà.”
E già un tale nobile accostamento ai capolavori di Goethe e di Bernanos è più che sufficiente a dare il senso del valore del romanzo.
Dirà a Marcello Padre van der Bergen, il prete giovane, a riguardo del male: “Esso rimane come il mistero più grande di questo mondo. Rimane questo enigma: perché Iddio abbia voluto che il male esista.” E ancora: “La presenza del male, il molto male e il poco bene – specie nella vita moderna – era l’enigma più duro di questo nostro stare sulla terra.”
Possibile che non ci sia una soluzione? C’è, dice Padre van der Bergen, e sta nella sconfitta dell’egoismo, “un nemico sottile, il più sottile e il più persistente…” e una tale definitiva sconfitta la si può ottenere mettendo in pratica le parole di Sant’Agostino: “Non si entra nella verità, se non per mezzo dell’amore.”, sapendo bene che “Vincere i demoni, trasformare il male in bene, l’orrore in amore: questo era il vero mistero, più grande ancora di quello della presenza del male.”
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