Arcadia
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 12 minuti
Questa è una storia dei primi tempi quando Masino non aveva ancora acquistato quella stabilità virile che gli permise in seguito di fare qualunque sciocchezza con ponderatezza e buon umore.
Masino universitario amava molto il cinematografo, ma aveva i suoi gusti. Erano gli ultimi tempi quelli, del film muto e la stabilità virile che ancora mancava al giovincello era supplita da un sodo senso contemplativo, per cui un pomeriggio passato in un cinemino di mezza barriera tra operai e gente spicciola, sotto un piccolo telone traballante come il piano che l’accompagnava pareva allo studente l’ottimo dei pomeriggi.
Una vita dannata lo studente. Tutto il giorno a far flanella fumacchiando e pensando cosa fare il giorno dopo. Seccantissimi gli amici, eppure l’unica salvezza metter su una serata, un’impresa qualunque, insieme a loro. Sotto tutto, la speranza di un amore per impiegar la giornata. Masino in quei tempi invidiava gli operai, si vergognava di essere al mondo. In tutto quel ludibrio spirituale, venivan su gusti perversi. Per un mese di seguito, la mania di lasciar la propria classe e di cantar nei varietà. Altre volte, un’ossessione di imbarcarsi senza un soldo e girare tutto il mondo lavorando, faticando in qualche modo, pur di vivere. Meno male che la stessa fiacchezza che produce queste voglie, taglia i nervi per attuarle.
Masino si salvava al cinema. Questo è stato per la nostra giovinezza una gran manna. Le settimane interminabili venivan cosí rotte in tante ore trascorse in un mondo ormai famigliare, eppure sempre affascinante.
A Masino piacevano i filmetti d’America. C’era anche, innanzi a questi, l’orgoglio di scoprir sempre qualcosa, di vivere in un mondo nuovo. Questi film sono fatti apposta per i locali di barriera. Masino usciva al pomeriggio, camminava per vie interminabili, oltre i corsi, oltre le grandi vie del centro, fino a Dora, fino alle regioni dei prati, tra le case operaie, dove tutto è recente e in costruzione – grandi case nel cielo coi fianchi lisci, tagliati, pronti a riceverne altre, all’infinito – respirava quell’aria piú aperta, piú frizzante, guardava i negozietti lucidi, provinciali e immaginava di vivere quella vita, di soffrire quel lavoro – le fabbriche, le acque luride, le erbe bruciacchiate, l’orizzonte.
I film americani. Costava poco entrare in quei cinemi e si vedevano le cose piú belle. Buck Jones, Giorgio O’Brien, Olive Bordeu, Sue Carol – il mare, il Pacifico, le foreste, le navi. Ma soprattutto le cittadine dell’America, quelle case nitide in mezzo alle campagne, quella vita schietta e elementare. Tutto era bello. Gli uomini, individui sicuri, forti, con un sorriso tra i denti, pugni sodi ed occhio aperto. Le ragazze, sempre le stesse dai villaggi alle metropoli, corpo chiaro, volto allegro, sereno, anche in mezzo alle sventure. Si usciva leggeri da quei film. Nel centro dicevano che eran cose banali senz’effetto e senza vita, ma a Masino pareva proprio d’imparare a vivere assistendo a quelle scene.
Il pubblico anche, piaceva a Masino. Se si passava sopra alla puzza e alle pulci – pregiudizi – quelli avevan tutta l’aria di gente piú seria e degna del mondo. E poi, lavoravano quelli, spaventosamente, e Masino s’esaltava, si vergognava, perché lui come ho detto era uno studente che faceva flanella tutto il giorno.
Una sera Milone gli scopri l’America. – Mi piacerebbe conoscere quelli che parlano il gergo, – aveva detto per caso Masino al vecchio amico studente e quello: – Mach lon? Conducoti quando desideri.
Milone era figlio di un banchiere fallito ch’era stato in galera; di qui le sue conoscenze e la sua massima: – Tuti j’omni decis van fini ’n drinta. Mi sôn già bele decis. Basta fè gnente –. La quale massima Milone applicava scrupolosamente, e in attesa delle manette studiava spiritismo e astronomia, portandosi in casa facce che, dal tempo del processo paterno, i famigliari non avevano piú visto le compagne. Dai poliziotti ai pregiudicati, Milone conosceva tutti, se li teneva tutti buoni. – Tant ’n dí o l’aôtr ’ndôma a la sôsta ’nsema –. Gli piaceva ubriacarli i poliziotti al giovanotto e poi ragionarli dimostrandogli che erano schiavi di un ordinamento morale iniquo: cercassero di rinascere alla luce. E quelli, attoniti, dicevano di sí.
Masino seguí Milone in una tampa dignitosa in fondo a un corso. Era la fine di marzo e faceva bello camminare nella penombra tra i radissimi lampioni. C’era sempre l’odor d’asfalto tra le piante e il centro di Torino arrossava il cielo in distanza. Di lí s’udiva appena qualche trabalzo di tram.
Milone salutò un giovanotto sull’orlo di un prato. – A j’è Môschin?
Entrati nella tampa trovarono Môschin colla chitarra al collo, un gran maglione da ciclista e due ragazze al tavolo.
Milone cercò altri cogli occhi, vide vuoto e disse: – A j’è si ’n sociô ch’a rasôña cme mi –. Una delle ragazze guardò un poco di striscio Masino che si era messo il cappello per traverso, poi parlò con Milone ridendo. L’altra continuava a tormentare le corde della chitarra del ciclista e non diceva nulla.
— N’a sônôma ’n toch stasseira? – chiese Milone a Môschin. – Aj veul Rôssòt, – disse una ragazza. – Rôssòt a ven, – finí Milone. – Daje mi ’n côlp ’d fil.
— Pastura, Masino, – disse poi rivolgendosi all’ospite, – c’è la signorina che vuole stringerti la mano –. E Masino imbarazzato, dopo una pausa di disinvoltura: – Canta anche chila, tota?
— Greta, Greta, – interruppe Milone strisciando l’erre. – La tota risponde al nome di Greta ovvero la Vergine Folle.
Masino sorrise. Davvero quella femmina aveva una faccia patita e un tantino fatale. La giudicò un’operaia.
— Aj pias ’l cine antlôra? – continuò.
— Hachè. L’è Milô ch’a me sgônfia. Greta ’m pias prope gnente.
— L’è ’ne student côme Milô chiel? – entrò a chiedere la seconda, una faccia impertinente e bocca rossa.
Môschin intanto parlava a Milone: – Côla piciôrla ’d San Pè, l’ha trôvà da modista. – Bel, – annuí Milone e – …spetômne ’n toch a beivne ’n bichio?
Venne il bicchio ed anche le ragazze sorseggiarono. Masino non sapeva cosa dire. – Parej, aj pias nen Greta? – ripete alla ragazza. – Ma l’è prope so seugn? – tagliò quella. – Mi m ’pias ’d pí Maria Jacobini.
Parlarono un poco di cinematografo e Masino scoprí che le perle per quella gente erano i film storici, e in genere quelli europei di gran vita, di corse, di castelli, insopportabili a lui. Tom Mix le ragazze lo trovavano sgalfo.
Môschin intanto parlava serio a Milone della tensione di una corda nella frôja, e s’aiutava con pizzicate scientifiche. – Sent son, Milôn, – diceva colla serietà di un maestro da ballo e muoveva le dita in accordi pazzeschi. Milone ascoltava furbesco e scuoteva il capo.
— Cantômne ’n toch, Môschin, – disse la seconda purilla staccandosi dai discorsi di Masino. Dopo un attimo la stanza bassa rintronava d’un gran coro:
Laggiù nell’Arizona…
Le due ragazze cantavano. Milone faceva il baritono. Verso la fine una voce squillante s’uní alla massa. Masino si volse e vide un biondo ossuto, alto, che appoggiato alla porta, colla mano alla guancia accompagnava.
— Rôssòt, – la ragazza impertinente gli gridò allegra. La chitarra si fermò. Môschin sorseggiò guardando Masino. Gli altri erano corsi tutti alla porta a festeggiare.
— ’Na beivlô de stôrnej? – chiese Môschin alla tavola vuota. Masino rimase interdetto poi rispose qualcosa.
— Sa côst?, – disse l’altro e s’accompagnò:
La vita è fatta a chiodo,
tu ci hai l’amante bella, io te la godo.
Masino sorrise: – Mi j l’aj ’na vôs da can.
Fiôrin daffiore…
continuò il ciclista senza ascoltare, quando intervenne Milone: – Bôgiôma le bije? Suvômne ancora ’n bichio e peuj ’ndôma per i pra. J fôma sente queicos sí a me amis –. Venne il biondo e si presentò: – Rossotto.
— Chiel a l’è Masino, – disse Milone, – aj pias sente sônè.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nei prati Masino era ancora imbarazzato. Si sedettero sull’erba – la Greta accanto a lui – e guardavano il cielo.
Rôssòt gli aveva detto qualcosa in italiano e Milone aveva interrotto: – Peule parleje a la vigliaca ti, l’è pa ’n terôn me amis.
Faceva freschetto e Masino non osava farlo notare. Môschin senza dir nulla stava accordando lo strumento. – Taca sta frôja, – sbottò uno. Qualche nota agile di preludio e tutti tacquero. Una pausa. Poi Rôssòt:
Mamma, lu commissario de Trastevere…
Un’aria lamentosa. Rôssòt cantava colla mano alla guancia.
…s’è messo ’n testa de
mandarme via,
mandarme a l’isuletta ’n mezzo al mare
che ha nome la
Pantelleria.
Milone toccò Masino e sottovoce: – Sent sôssì, l’è nen mej che la diviña cômedia?
…Mamma vallu a pregare,
pregalu a mani giunte…
Masino disse in fretta: – Fa freid sí –. A un tratto incontrò colla sua mano quella di Greta. Si ritrasse di scatto intimidito.
…fallu per papà mortu
ed io te giuro…
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Mamma li bullo canteno canteno
li stornelli e’ malavita…
Le ragazze e Milone levarono un gran coro cacofonico, gli stornelli dei bulli.
L’ultimo strappo della chitarra trovò Masino che pensava alla miseria di quell’operaia.
La canzone l’aveva agitato. Quella voce un po’ rauca e le calze bucate sulla magrezza delle gambe.
— Fanta, mi ’m fà piôrè, – diceva Milone; e Masino a Rôssòt: – ’Na san gnune ’n piemônteis?
— Côsta? – canterellò Môschin accompagnandosi:
…E madamiña dal prim pian
ciapa le ciimess côn le man
mentre chiel da ’n tei côrtil
j pianta ’d côlp côn el fusil…
Milone ghignava: – Nen fanta, Masin? – Ostia – fece l’altro tutto sbarazzino, – pajèj. Ch’a torna a deje për piasí.
Ma in quel momento si levò dalla strada un canto d’ubriaco. Si vedeva un uomo camminare traballando. Rôssòt e Milone gli gridarono il silenzio. L’altro continuava. I due andarono allora per levarlo dai piedi. Anche Môschin si alzò e si avvicinò alla ragazza impertinente, parlottando.
Masino pensava: «Domani ho un bel catarro» e tornò a incontrare la mano di Greta. Volle ritrarsi. Ma quella, afferrandogli il polso, – ch’a staga ferm ’na volta, – gli soffiò in un orecchio.
Passò un mese e già all’odore d’asfalto s’era unito l’odor di terra e di vento. E Masino incontrava Greta prima di entrare alla tampa.
Dalla prima sera Masino aveva fatto tutto quello che aveva saputo. La coscienza gli era testimonio che lui non aveva cercata la ragazza. Ancor adesso, levandosi da un prato o stringendosi negli angoli, Masino provava per lei una pietosa tenerezza quasi assurda.
La conosceva bene ormai. Era il suo primo amore carnale e quel lungo corpo ossuto significava per lui, pur mettendogli ogni volta una voglia disperata di troncar tutto, un mondo nuovo. Era un poco taciturna, un poco gaia – di una gaiezza grossolana, rauca – e quell’aria cosí misteriosa che le aveva meritato il soprannome non era che una maschera vuota.
Masino ne adorava, e insieme sopportava, l’aria stracca, la miseria, l’ignoranza. Una sera tornando a casa aveva mezzo pianto a ripensare a una borsetta sgualcita e sfilacciata dove Greta teneva uno specchietto e un fazzoletto sporco di rosso.
Una sera si trovarono fuori della tampa al riparo di una casa, e Masino aveva un pacco. Sentiva avvicinarsi una fine, Masino, e una grande insofferenza lo tormentava. Greta docile diceva nulla e gli camminava al fianco. Masino non sapeva come cominciare. Poi si decise:
— A j’è ’n pachèt sí për ti, – e con allegria, – da buteje tuti to sold.
Greta prese il pacco, lo disfece e trovò una borsetta lucida, nuova. Masino aveva creduto, per incontrare il gusto della ragazza, di esagerare nei colori: era a scacchi rossi e neri, micidiali.
Greta guardò Masino. Aprí la borsetta, ci trovò tutti gli amminicoli. Si strinse al braccio di Masino. Gli sfregò la guancia sulla spalla.
— Grassie, Masin, franch bel.
Masino non aveva piú niente da dire. E sarebbe rientrato volentieri nella tampa dove c’era Milone e Rôssòt e gli altri.
Greta lo accarezzava. Lui rese le carezze. Poi si diedero baci. Poi Masino tentò di dirigersi alla tampa.
Greta lo segui, ma stringendogli la mano e – si sentiva – a malincuore, convinta di una freddezza nell’amico. Entrando, gli disse: – ’M pias, tôa bôrssetta, Masin, ma ’t veule pa deme ’l gir côn lon?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nel locale fumoso della tampa c’era Milone e un tipo pallido mezzo tisico con una sciarpa al collo, che bevevano a un tavolo. Môschin in un angolo pasticciava sulle corde.
Milone parlava con una grande eloquenza, rivolgendosi allo sconosciuto, alla bottiglia e al fumo. Masino e Greta si sedettero ad ascoltare. Diceva Milone:
— ’T vas an ’tn ôspidal andôa a j’è pi ’d miserie, andôa ’l Padre Eterno aj fa pi grosse e ’t sente ch’a l’è lí ch’ass prega ’d pi côl pôrssel ch’a l’an ’nventà j preive.
Lo sconosciuto annuiva: – ’T fan bignola li ’ndrinta. Ma côl ch’a l’ha nen ’l sold, sta mal istess.
Milone doveva aver bevuto molto, ma era sempre piú lui: – Dis, Masin, spieghie ti che ’tl’as studià, – aveva studiato anche lui, ma aveva il cuore largo Milone, – ti che ’tl’as studià, spieghie ti a Greta côme l’è fait ’l mond, cosa sôma ’ntë sta vita, spieghie ti mia bibia.
La Bibbia di Milone erano le opere di Flammarion e di Schuré.
Greta fissava Milone. Lo sconosciuto era tutt’orecchi. Môschin si alzò dall’angolo e venne anche lui al tavolo. Milone parlava ora delle stelle.
— J lô seve che la tera l’è ’n átomo ’ntë ’l ciel, che tute le steile sôn pieñe ’d gent, ch’a jè magara ’d linge côme nôj, queich part, che a traôndô e a parlô cóme nôj, stasseira?
Masino pensò che era rischioso parlare di linge in mezzo al covo, ma nessuno batté ciglio. Greta gli prese la mano.
—Ti j sas anche ti ’ste cose, oh pacioccante Masino, – proseguí l’oratore, – e perché ti j dise nen, perché te spieghe nen a tuti che j preive a sôn ’d carogne, che l’universo a l’è immenso e l’anima immortale côme forssa psichica?
Qui bevvero. Lo sconosciuto osservò che non credeva che l’anima fosse a quel modo e che «na volta partí, ’s tôrna pí nen». E Môschin tutto truce: – L’è bel, bel, avej studià.
E Milone: – Ma cosa ’t na sas ti ’d l’anima? J sôn ’d forsse che ’t l’as maj imaginà ’n torna ’d nôj, tut el mônd l’è ’n camp ’d forsse ch’as picô… – e continuava.
Masino era tutto perso nello stupore per quella gente ignorante, che pendevano a quelle parole. Si ricordò a un tratto che aveva vicino una donna, Greta. Non si comprese più. Si vergognò di maltrattarla. Ma non riusciva a credere a quel mondo.
— Certo, l’è ’n bel tirinbalin, – commentò Môschin quando Milone ebbe data una pazzesca idea dell’intero sistema planetario e delle nebulose e dei mondi e di tutta la vita. Anche il padrone della tampa era venuto a sentire.
E Masino si vergognò allora di pensare all’ingenuità di Milone.
Poi venne Rôssòt: la serata finí in cori disperati che asciugarono molti litri. Masino avrebbe dato chissà quanto per non essere studente. E andando a casa ben carico non riusciva a cavarsi di testa una strofa, composta naturalmente da una teppa:
La rôndine straniera fa ritôrnô
al vecchio campanile
quando s’allunga il giôrnô
quando ritorna aprile.
Qualche giorno piú tardi Masino ricevette una telefonata. Una voce grossa, angosciata.
— Sei tu, Masino? – Pronto. – Proprio tu? – Chi parla? – Milô… Sta atent… Non andar piú alla Sereña… a j’è la vola ch’at grôpa…
— Cosa?… la polizia? – Sí, hanno fatto la retata. È andato dentro Môschin, Leta e Rôssòt. Mi l’à telefoname Rôssòt, prima ch’a lô pieissô…
— Côme l’è stait?… – chiese Masino ansioso senza ricordarsi di Greta.
— Oh ’d bale. Jer seira l’an angiacà ’n morô, ’n milite ch’a fasia l’erlô. Sôn dasse del cômunista. L’an pôrtaje ’n fritura ch’a sbaratavô… Li ’l’è peuj saôtaje fora ’na carogna ch’a l’ha sôffià ’d Môschin… côla côtlà ’d l’aôtr an, beivume?
— Sí, Sí.
— E bin adess j piantràn ’n procèss. Ah, j’è anche Greta ch’aj va ’d mes…
— Istô… Sent; trôvômse te ’m cônte.
— Macché… ’L ferino genitore l’a ciavame ’n te ca për nen chi côra a ficheme ’ndrinta… pôr nen chi disônôra la famija… Sí a j’è anche Greta. A n’avrà për queich an…
Quel giorno Masino tornò a sentire come una coltellata la pietà per le povere calze rotte. Una pietà angosciosa da mordersi i pugni. E Môschin – un assassino – e Rôssòt – cosa avrebbe fatto Rôssòt?
Spavento, la vita. Si vide Greta piú torva che mai, vestita a casaccio, comandata seccamente, in mezzo a una folla anonima. Risentí quel riso rauco e gli parve un sorriso infantile, di fronte all’avvenire. Provò a canterellare.
E la rondine straniera…
Ma fu una cosa morta. Gironzolò a lungo per le stanze irrequieto. Per far qualcosa strinse un elefantino sul caminetto e lo scagliò a terra. Non si ruppe. Lo schiacciò allora col piede.
Tutto a un tratto si scoprí in cuore un pensiero: era abituata Greta alle fecce dell’esistenza. Era forte, quasi insensibile. E provò persino un po’ di soddisfazione di esserle stato amante e di averla finita. Veniva cosí ad essere quasi orgoglioso di conoscere quella ragazza. E naturalmente a questo punto si mordeva le mani.
Fine.
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TITOLO: Arcadia
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)