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(voce di SopraPensiero)
Dino Formaggio, Amo la tua anima. Lettere ad Antonia Pozzi, a cura di Giuseppe Sandrini, Alba pratalia, Verona 2016, pp. 128, euro 15,00. EAN: 9788894231304
L’amicizia tra Dino Formaggio e Antonia Pozzi era tra due predestinati a un grande futuro. Lei, una delle più amate poetesse del secolo appena trascorso; lui, destinato a una lunga vita di creazione artistica e di feconda riflessione estetica.
Allora, tra il 1937 e il 1938, erano solo due ragazzi, entrambi allievi del grande filosofo Antonio Banfi alla Regia Università di Milano. E provenivano da due mondi molto lontani: figlia di un importante avvocato e di una nobildonna lei, figlio di contadini lui, che iniziò a lavorare come operaio e che, frequentando le scuole serali, giunse con le sue sole forze alla docenza universitaria.
Un’amicizia solidissima e profonda, che Antonia Pozzi volle e non riuscì a trasformare in amore. Ma che comunque accompagnò quegli anni, difficili per loro e per la nazione che abitavano, significò comprensione profonda e aiuto reciproco, ed ebbe una profonda e indubbia influenza per entrambi.
Il 2 dicembre 1938 Antonia pose fine alla sua vita e qualcosa si spezzò anche in Dino, che fu uno degli amici e colleghi che portò a spalle il feretro. Nelle settimane successive il padre di Antonia, l’avv. Roberto Pozzi, rimase stupefatto a leggere le poesie e i diari della figlia tanto amata, ma di cui non era stato in grado di penetrare l’intimità. E si rese conto che il giorno prima del tragico epilogo Dino aveva ribadito ad Antonia il suo non potersi legare affettivamente a lei. Lo giudicò responsabile della morte della figlia, benché nella realtà questo sia stato solo l’ultimo di molti e complessi colpi di piccone.
Il giorno di Natale di quel 1938 scrisse a Dino – che pure stimava per la sua incredibile vitalità e volontà di costruzione del proprio destino – una lettera dal freddo lessico legale, in cui rivendica «l’assoluto diritto di pretendere che tutto quanto le venne dato da Lei, lettere, fotografie, oggetti, abbia ad esserci restituito, come noi intendiamo di restituire tutto quanto Ella ha dato a nostra Figlia [ […]]. Di qualsiasi omissione Ella dovrebbe rispondere dinanzi a Dio» (pp. 101-2).
Questa richiesta incredibilmente crudele è però quella che oggi ci permette di conoscere tale amicizia. Perché Dino – pur piegandosi a questo volere e restituendo attraverso la mediazione del prof. Banfi («entro la mattina di giovedì 29 corr. mese») – ricopiò molte delle lettere che riteneva più care e trattenne il voluminoso plico di foto (circa 300 scatti) che Antonia gli aveva regalato il 5 maggio precedente. E così quelle lettere, i cui originali il padre distrusse, ci sono rimaste e sono state pubblicate in volume cinque anni fa (Antonia Pozzi, Soltanto in sogno. Lettere e fotografie per Dino Formaggio, a cura di Giuseppe Sandrini, Alba Pratalia, Verona 2011). E altrettanto le lettere di Dino a lei (se non le avesse restituite, sicuramente l’avvocato Roberto le avrebbe distrutte) sono state ritrovate dalla moglie di Formaggio, la signora Adriana Zeni, nel suo paziente lavoro di riordino dell’archivio del marito. Da pochi mesi anche questa parte dell’epistolario è stata resa pubblica in un volume gemello al precedente, sempre a cura del prof. Sandrini.
Ci è restituito così un epistolario di grande bellezza e importanza. Le lettere di Dino sono non meno liriche e intense di quelle di Antonia. E, sorprendentemente, di sé afferma: «Io vivo molto più di sensazioni che di ragionamento» (p. 48). Forse anche per questo, nel gruppo dei colleghi della «scuola di Milano», fortemente razionali, Antonia si sentì attratta soprattutto da Dino Formaggio, così come da Vittorio Sereni cui la accomunava la vocazione poetica.
Nella lettera con cui Formaggio affidava a Banfi i materiali da restituire all’avvocato Pozzi scriveva: «Questo nostro mondo era una proiezione fortemente spirituale [ […]]. Ora una chiave di questo mondo s’è persa. Ma io ne custodisco in fondo all’anima l’altra, e ne sono gelosissimo. E conosco ancora tutte le strade e nella mia vita questo sarà un grande pellegrinaggio» (p. 117).