Amici
di
Cesare Pavese
tempo di lettura: 17 minuti
Dal cortile di cemento un giovanotto a gola tesa gridava al terzo piano di ombre e sprazzi di luce:
— State tranquilli, sono disoccupato.
Strillavano bambini in cortile e per le scale, e da tutti i sei piani di balconi brulicavano finestre illuminate, nei riflessi delle ringhiere.
Al terzo piano, immobile in tutto quel vocío, era piegata una donna.
Sbucò dalla scala un giovane alto col cappello. L’altro, testa e barba rossa arruffate, un fazzoletto bianco annodato largo al collo su un camiciotto a taschini, lo incontrò in mezzo al cortile e col pollice arrovesciato gli indicò alle spalle l’alto della casa. Il compagno allora levò il capo e senza parlare agitò la mano a saluto. La donna rientrò.
I due uscirono sul corso.
— Quanto si mangia al mondo, – disse il Rosso. – Da tutta la casa viene solo odor di fritto. A pensarci, spaventa.
L’altro si toccò il cappello passando davanti a un ometto in maniche di camicia, cavalcioni su una seggiola, davanti alla porta.
— Hai trovato qualcosa? – chiese poi grave al compagno.
— Senti, Celestino, – disse il Rosso fermandosi e prendendogli la manica, – vengo con te per svariarmi. Da solo non ce la faccio. In un minuto arrivo alla cicca, dal nervoso. Dove andare non so. Vengo da te per stare allegro e tu mi chiedi se ho trovato. No, che non ho trovato e me ne infischio. Ci vuol tanto a capire che secchi? È la moglie che ti ha rammollito? Non sei piú Celestino. Tu somigli a mio padre. Porti il cappello come lui, persino. Però guarda che mio padre, con sua moglie adoperava la cinghia.
Celestino, liberatosi il braccio, diceva: – Ricorre alla cinghia, chi non gli bastano le mani. È il sistema di tutti i fannulloni, con la moglie. Ma che cosa c’entra qui la Gina? che cosa c’entri tu?
— Io?… Niente. Dicevo per dire che cominci male. Le stai troppo attaccato.
— Come va trattata devi insegnarmelo tu, che hai imparato con le negre?
Il Rosso levò il braccio e lasciò andare una manata sulla spalla di Celestino. Celestino, seccato, lo fissò, occhi piccini, e vedendolo ridere, si schiarí lui pure. – Mai parlare di donne, – esclamava il Rosso, – se non dopo la frutta. Siamo amici e via la moglie. Celestino, Celestino, diventiamo vecchi: tu ti tieni la moglie, io mi tengo la rabbia. Patti chiari: non parleremo di tua moglie, ma nemmeno di me se lavoro o no. Dove andiamo?
— A spasso, fa fresco.
Sotto gli alberi del corso i lampioni gettavano chiazze di luce e ammucchiavano ombre fresche e indecise. Tanti erano gli anfratti della sera e cosí denso il profumo delle piante che a volta a volta i due parevano balzare, e balzavano le ombre, dal marciapiede variegato a sprofondarsi nell’ammasso di foglie. Il Rosso aveva acceso una sigaretta e tirava lunghi soffi. Celestino fece di cappello a una signorina svelta che sbucò d’improvviso dall’angolo.
— Quella, – bisbigliò poi, – ha cominciato un anno fa dal magazzino. È già arrivata al direttore del negozio.
— Di’ la verità, che le invidi la carriera.
— Io? di quella?… fa porchera, non carriera. Non la toccherei nemmeno lavata nella benzina.
— Lavata no, ma da lavare magari. Celestino, quest’è di tua moglie. Una volta, che non avevi il cappello, le salutavi cosí le ragazze? Non sei piú quello, Celestino…
Celestino alzò le spalle.
— …Che idea dar la benzina alle ragazze…
Celestino fissò gli occhi su una folata di monelli che sbucarono ululando da una via traversa dietro uno dei loro e dilagarono nel viale, buttandosi tutti accavallati su una panca. Ci furono calci, corpo a corpo, strilli, e sul clamore una vocetta che emetteva detonazioni a mitraglia, mentre un altro, piccino, ronzava a motore correndo intorno alla mischia, librando le braccia e muggendo: – Oh il ghebí, oh il ghebí.
— …Voglie di donne incinte, – continuava il Rosso, – e poi dar fuoco alla benzina. Dev’essere una donna che ha inventato il lanciafiamme. Di’ la verità che è di tua moglie.
Celestino si contorse e chiese secco: – Hai trovato lavoro?
Il Rosso si fermò, si grattò in testa e guardava l’amico, levata una mano a proteggere il capo. – Fessi che siamo, – disse.
— Cosa vuoi che facciamo, – riprese Celestino, – altro che parlare di donne, noi due?
— Una volta ti piaceva anche il litro…
— Di quello sí che è gelosa: non direbbe niente per Carmela e farebbe fiamme se tornassi a casa bevuto.
— Chi sa che fine ha fatto Carmela. Eravamo allegri quell’anno.
— Tutte le ragazze d’allora ci davano corda, per spassarsela loro. Per questo ho sposato la Gina: fin dal primo ballo mi ha detto che quando sente uno puzzare di vino, le viene voglia di pigliarlo a schiaffi.
— Ti ha preso a schiaffi?
— È un’idea delle donne. Si capisce, poverette: meglio avere da fare i conti con un’altra che col litro; un’altra è sempre una donna.
— La ragione vera, – disse il Rosso, fermandosi e cavando la sigaretta di bocca, – me l’ha data un ruffiano di Massaua – gente che se ne intende, hanno molte mogli, laggiú – un uomo che torna a casa ubbriaco ha lo stesso occhio lustro, la stessa faccia da stupido, di quando se lo comandano loro nel letto. Concorrenza. Di’ che gli arabi non capiscono le cose.
— Adesso poi che aspetta il bambino le fa male anche solo l’odore.
— Te la permette l’aranciata?
Celestino si fermò sorridente nel riverbero obliquo di una tabaccheria e fece cenno d’aspettarlo. – Meno male che ti lascia il fumo, – gridò il Rosso.
Dopo un po’ che attendeva ascoltando il clamore di una radio da una finestra spalancata di là degli alberi, il Rosso salí il gradino del negozio. Ci trovò Celestino che, appoggiato sul banco, confabulava col padrone.
Che gli vendi? la radio?
Celestino agitò una mano, impaziente; disse ancora due parole e si voltò in un sorriso.
— Non c’è bisogno di gridare. Do un’occhiata a un apparecchio.
Sparirono nel retrobottega e dopo un po’ tornò il padrone. Il Rosso s’era seduto in un angolo e accendeva un’altra sigaretta.
— È lei che è stato in Africa?
Il Rosso levò gli occhi a una faccia tonda e cicciosa, dai gran baffi. Altro pelo schizzava dalla camicia sbottonata sulla maglia.
— Roba vecchia.
— Io ho fatto l’altra.
Allora il Rosso s’accorse che al ciccione mancava una mano e sul pallore dell’antica cicatrice il moncherino era ingrassato tondeggiando.
— Ci ha guadagnata la tabaccheria?
— Guadagnata? – ruggí quello. – Pago l’affitto sacrosanto. E l’alloggio e l’imposta.
Entrò un tale a comprare un toscano. Pagò e uscí.
— È vero, – tornò a chiedere il ciccione, ficcandosi il moncherino alla cintola, – è vero che in Abissinia danno gratis la concessione dello spaccio esente d’imposta e d’affitto per dieci anni?
— Le regalano anche l’automobile per fare il giro dei clienti.
— Faccia il piacere. Le chiedo se è vero che ai mutilati della campagna hanno fatto queste condizioni.
— Io non sono mutilato.
— Vedo bene, – disse l’altro squadrandolo severo. – Dov’è stato lei?
— In posti dove si fumava gratis.
In quel momento rientrò Celestino. Parlò sottovoce al padrone, che sbirciava malamente il Rosso. Gli batté alla fine una mano sulla spalla dicendogli: – Al massimo, – e uscí spingendosi avanti l’amico.
— Con questi lavoretti vesto la Gina, – disse, una volta fuori, Celestino.
— Fai bene, – esclamò il Rosso. – Frega la ditta, falli fessi, altrimenti fanno fesso te. Peccato che hai sposato la Gina. Quand’ero laggiú, dicevo: «Una volta congedato, mi levo dal caldo e torno coi soldi a far società con Celestino». Invece mi hai fregato: hai fatto società con la Gina.
— Però anche tu hai mangiato i soldi.
— I primi e gli ultimi. Non si conservano i soldi guadagnati alla guerra. Uno dice «potevo restarci», e avanti, dài dentro. Tante stazioni di là a casa, tanti biglietti che volano. Poi prende la malinconia: uno si ricorda Pinotto che il giorno prima si lavava i piedi e il giorno dopo l’han buttato sulle pietre come un passerotto; viene in mente Celestino che si sposa e se ne infischia; e tutto fa: si canta una volta, si beve due, Napoli è tutta sole, specialmente la notte – chi s’è visto, s’è visto.
— Di’, è vero che dopo un’azione si sente odore di carne bruciata?
— Non parlare di odori.
— Ma tu, insomma, hai sparato?
— Agli uccelli.
— È vero che…
— Sei peggio del mutilato. Perché non sei venuto a vedere? Un bel viaggetto con tua moglie: vi hanno messo al mondo perché giriate, no? Il piú bel lavoro che ci sia, viaggiare. Quando si ha l’occasione. Dovevi portarci la Gina che non sopporta il fiato di un ubbriaco. Se trovassi l’occasione, ripartirei domani, io.
S’eran messi, accalorandosi, per uno spiazzo oscuro, in fondo a cui splendevano certi finestroni dietro una siepe in vasi. Davanti erano fermi sfaccendati col viso tra le foglie, in ascolto dell’orchestra strepitosa.
— Mai piú venuto al Paradiso, – disse il Rosso. – Mai piú ballato da allora, a Torino. A Napoli, una volta, ho trovato una torinese in una sala. Non mi conosceva neanche la voce, tanto ero anch’io terre bruciate. L’ho capita da come rideva e diceva «sta’ bravo che c’è il geloso». Dicono che là le tengono chiuse le donne, ma il suo era piú carogna: la mandava a ballare e lui prendeva la bibita. A me la ragazza ha fatto l’occhio, quando le ho detto di dov’ero. Finito il giro, volevo restare e lei: «fila, fila non sei piú in Africa. Ci voleva la guerra d’Africa perché un torinese si facesse crescere la barba».
Davanti al Paradiso, si fermarono. Si vedevano all’interno le alte pareti verdemare dipinte, a colori leggeri, di qualche palmeto e negri nudi e leopardi e antilopi. L’orchestra strepitosa, tutta in nero, era in una nicchia al fondo. Sul palchetto passavano coppie allacciate e assorte: un sergente attillato traversava la sala. Per i finestroni spalancati circolava l’aria fresca della sera.
— Come me l’han ridotto, – esclamò il Rosso. – Non è piú il Paradiso questo. E Carmela e la Lidia e Ginetta, dove vanno a ballare? Non ci sono piú ragazzi in borgata?
— È tutto un altro ambiente, – disse Celestino. – Non son piú i tempi che eravamo belli. Prova un po’ a entrare in maniche di camicia come sei, senti il padrone.
— Sarà pieno di napoli.
— No, è che la vita cambia. Anche la Lidia, tu che dici, l’ho veduta quest’inverno con una pelliccia che non deve aver rubato.
— Voglio vedere la faccia di Monsú Berto.
— Non è piú lui il padrone. È andato a terra. Ha rilevato ogni cosa un romano che ha cambiato perfino il palchetto. Ha fatto dipingere, ha messo le inserzioni sul giornale e la cassiera, il doppio d’orchestra, si beve spumante e mangia tramezzini: ci ha speso, ma ci guadagna. La gente viene in automobile.
— Quest’è colpa delle donne. Venissero ancora Carmela e Ginetta, vedresti che l’ambiente cambia subito.
— Prova tu con la tua barba, – disse beffardo Celestino.
Il Rosso si passò due dita tra il collo e il fazzolettone. Rimase un poco incerto, stazzonando la seta, poi riprese a ghignare. – Pensare che questo straccio l’ho comprato a Massaua per roba indiana. Scommetto che è Viscosa. Seta! È già ridotto come il biglietto che l’ha pagato.
— Sarai tu che non ti lavi il collo.
— Che collo. A far la vita che ho fatto io, pensi a salvarlo il collo. Laggiú fazzoletto e barba erano cose da sultano.
— Sembri il negus con quella faccia cotta.
— Li avessi io i soldi che ha lui.
— Dovevi prenderglieli.
Il Rosso girò gli occhi lungo la siepe verde e li fermò sull’angolo della piazza dove posteggiava una fila di macchine lucide.
— Insomma per ballare con una torinese mi tocca andare a Napoli? Non c’è piu il Paradiso! Tu grigni, perché hai moglie.
— Consòlati che non si chiama piu il Paradiso.
— E come si chiama?
— Nuovo Fiore.
Celestino si divertiva. Prese il Rosso per il braccio e lo tirò via dicendo: – Vieni, Milio, che a star qui c’è caso ci facciano pagare –. Il Rosso si lasciò condurre fuori della piazza, tacendo.
Si misero per una via lunga, a radi lampioni. Il Rosso traeva dal mozzicone le ultime boccate, con cautela per non scottarsi le dita. Poi buttò il pizzico di carta.
— Non fumi stasera? – chiese con gli occhi bassi a Celestino.
— Un mezzo sigaro, seduto tranquillo. È piú salute e costa meno.
— Risparmia chi ha.
Fissavano camminando la lastra del marciapiede, lucidata dai lampioni. Strisciando le suole e piantandosi fermo, il Rosso levò a un tratto il capo.
— Dove finiamo la sera?
— Prendiamo un po’ d’aria, non esco mai.
— È da stamattina che giro sulla pietra. Il primo caffè, metto i piedi sotto il tavolo. Tu, che dici?
— Un momento, sí.
Continuarono per la via interminabile. Non passava un’anima. Solo a volte un’auto silenziosa li prendeva alle spalle in un gran fendente di luce, faceva balzare e girar su se stesse le due ombre, svelava ogni sasso, e fuggiva innanzi in una tenebra improvvisa, rotta appena da un punticino rosso. Dopo un poco che ebbero camminato a passo svelto senza parlare, girando gli occhi ai radi negozi illuminati, Celestino disse:
— Con tanti caffè che abbiamo al centro, noi corriamo in barriera. Vuoi finire nei prati?
— Non c’è neanche un tranvai. Siamo salami. È una traversa.
— Che differenza c’è, domando io. Non son tutte traverse, una dell’altra?
— Torniamo indietro, – esclamò il Rosso, arrestandosi. – Alla peggio si va al Paradiso. Ci sarà ben da bere. Curiosa. Torino è piú grande di notte che di giorno.
Rifecero la strada discutendo. Giunsero sulla piazza. Nell’aria risuonavano gli squilli dell’orchestra. Guardarono appena i fasci di luce che inverdivano la siepe là in fondo, e presero per una viuzza laterale donde veniva il fracasso sferragliante di un tram.
— Siamo di nuovo a Torino, – disse il Rosso, – non hai niente da fumare?
— Vuoi metà? però, a romperlo ancora, non vale piú niente.
— Lascia stare. Sull’angolo dev’esserci una tampa.
Trovarono la tampa. Era un locale sfogato su un giardinetto interno, con pergolato di glicini donde penzolava come un frutto una lampadina senza riflettore. In alto, muri ciechi. Si sedettero su sedie di ferro, a un tavolo screpolato. C’erano una donnetta, un operaio e un bambino al tavolo accanto, il bambino beveva a un bicchierone con due mani. Venne una donna grigia e guardò di traverso il fazzolettone del Rosso.
— C’è un caffè? – disse Celestino.
— Macché, – disse il Rosso. – Non ti prendo il toscano, a patto che bevi con me. Ho ancora due lire, vanno tutte nel vino. Non ti piace piú il vino? Litro!
La donna partí. Celestino guardò con una smorfia il compagno. – Non è a me che non piace, lo sai.
— Ma è ben per questo, – disse il Rosso. – Se piace a te, basta. Che diavolo. Guarda quel gorba come sorbisce. Non perde tempo lui.
Il bambino staccava allora il bicchierone dalle labbra. Sollevò due occhi enormi e li girò tutt’intorno affannosi, a riprendere fiato. Incontrò lo sguardo del Rosso che lo minacciò con la mano. Il bimbo chinò il capo di scatto tossendo. Intervenne il vecchio operaio che gli batté sulla schiena.
Arrivò il vino. La donna mescè. Il Rosso tracannò una sorsata fissando gli occhi su Celestino che accostava il suo alle labbra.
— Forza m… Vino tagliato, ma almeno lo beviamo in casa nostra. Lo sai che in Africa si patisce la sete d’acqua?… Forza. Cosí mi piaci.
— So bere da me, – disse Celestino.
— Allora bevi.
Celestino trasse dal panciotto il mezzo sigaro; lo tastò tutto, sporgendosi in luce; poi se l’accese con cura e, tirata la prima boccata, lo brandí fra due dita puntando un gomito sul tavolo: con l’altra mano prese il bicchiere e sorbí un altro sorso.
— Alla salute, – disse il Rosso e, afferrando il suo, tracannò di colpo. – Vuota che torno a empire, – disse a Celestino.
Celestino parò la mano sulla bocca del bicchiere. Allora il Rosso mescè nel proprio, raso, e poi a forza volle colmare le due dita che mancavano nell’altro.
Celestino gli respingeva il braccio. Uno spruzzo di vino schizzò sul tavolo. – Attento, – brontolò Celestino.
— Ah, ti dispiace che si sprechi?
— Mi dispiace che sembriamo due ubbriachi.
— Niente paura, – disse il Rosso, spiandolo con gli occhi piccini. – Sarebbe bella. Ma bevi.
Celestino trangugiò mezzo il bicchiere che venne subito riempito.
Il Rosso piantò i gomiti sul tavolo e fissò l’altro scrutandolo.
— Questo vino è come Torino, – cominciò, – c’è piú meridionale che barbera, dentro. Però scalda, è l’essenziale. Ebbene, vuoi credere che i meridionali, vivendogli insieme, sono gente come noi? Le carogne sono carogne dappertutto, ma quelli dritti fanno amico che non t’immagini. Va’ a conoscere, però, dai dritti alle carogne: hanno tutti una ciancia…
— Un direttore e il corrispondente, da noi, sono siciliani. Giovanotti di trent’anni. Due anni fa, per farsi stirare i calzoni, dovevano mettersi a letto, e adesso se non hanno l’automobile…
— Che c’entra? A lavorare riesce chiunque, basta trovarne. A me piacciono invece quando non fanno niente. Sanno far niente, meglio di chiunque. Già in casa loro sono cosí, ma bisogna vederli in viaggio, a riposo, appena arrivati in un posto. Prima cosa, vanno a spasso.
Il Rosso sorbí e invitò al gesto Celestino. Celestino, occhi socchiusi, tirò una boccata e non si mosse.
— …Non se la pigliano mica come noi, quando manca il lavoro. Neanche se hanno famiglia. Non vanno a cercarlo, il lavoro: vanno a spasso. Un negro invece, lascialo libero e si siede per terra. I negri bevono…
— Devono essere zucconi: non ho mai sentito di un negro che avesse imparato a portare una macchina.
— …eppure, con tanto vino che hanno, i napoli non bevono. Sono di gran compagnia e tutto, ma preferiscono l’anice. Qui non li ho mai capiti.
Il Rosso si bagnò le labbra e fissò ironico il compagno: – Cosa fai? il napoli? Bevi una volta –. E Celestino: – Lascia fumare –. Il Rosso ghignava. – Bevi, ti dico, non è lecito –. Celestino alzò le spalle. Il Rosso tracannò il bicchiere e tornò a empirselo.
— Hanno dei buoni vini, – riprese rimettendosi sui gomiti, – che tirano venti gradi come niente. Ne ho bevuto uno che aveva il colore del caffè. Tanto forte che lasciava la bocca asciutta. Non come questo brodo: se non ci fosse un po’ di meridionale dentro. Bevi su, che una volta resistevi la brenta. È acqua.
— Cos’è quel vino di palma? – uscí Celestino.
— Mai veduto. Dev’essere una cosa come l’olio di gomiti. I negri sí che bevono: come tante scimmie.
— Ma non c’è mica vino laggiú?
— I negri basta che sentano una cosa che puzza e trangugiano. Anche la benzina bevono.
Il Rosso spinse il bicchiere ancor raso, contro la mano di Celestino, invitandolo con gli occhi, e Celestino abbassò il capo a sfiorare, allungando le labbra, l’orlo traboccante.
Entrarono due soldati in grigioverde, che s’andarono a buttare in un angolo, rincorrendosi come ragazzi. Celestino girò gli occhi nel fumo del sigaro e osservò il tavolo di quei tre, dove il bambino s’era addormentato con la fronte sul braccio accanto alla bottiglia, e l’operaio si dondolava sulla sedia con le mani in tasca fissando il vuoto. La donna piluccava briciole e tozzi sparsi, tra i cartocci.
Il Rosso chiamò la padrona. – Voglio pagare.
— Còmprati le cicche, pago io.
— Ti ho detto che pago io.
— Non sei milionario.
— Ma non ho una moglie da mantenere –. La padrona aspettava.
Celestino le tese due lire. – Va bene, – disse il Rosso, – allora io ne pago un altro. Padrona, litro.
Celestino fece per alzarsi. Il Rosso lo tenne per la manica, guardandolo con gli occhiacci supplichevoli. – Cos’hai bevuto? niente. Hai paura della Gina lo stesso?
— Ma che Gina. Non voglio fare il porco. Domani debbo lavorare.
— Per un amico, Celestino. Starai ben sveglio ogni tanto, a fare il porco. Tienimi ancora compagnia. Sono solo tutto il giorno.
Celestino si sedette.
— …E finisci il bicchiere. Andavamo già d’accordo. Non è mica cattivo.
Celestino non bevve, e tirò invece nervoso una buffata al mozzicone.
Arrivò il vino. Il Rosso pagò in fretta e mescè al compagno, poi si versò il suo. Schioccò le labbra e levò il gomito.
— Sfido che non trovi lavoro, – esclamò Celestino a denti stretti.
— Ah, – disse il Rosso con un lampo di malizia negli occhi, – stasera lavoro. Solo che è peggio d’una strada rotta… Ho la ruggine in gola; da un mese non bevo, perché debbo fumare. Non ho piú da impegnare che il fazzoletto. Quanto mi dai?
— Un calcio di dietro e ti lascio l’articolo. Hai dimenticato il tuo mestiere, ecco cos’hai.
— Non ho mai pasticciato tanto in autocarri e motorini come laggiú. Vuoi sapere davvero cos’ho? Io non ho mai dimenticato niente: siete voi, la gente di una volta, che avete dimenticato me. È questa la storia… Bevi una volta.
Celestino gettò il mozzicone e si bagnò le labbra. – Dai, – fece il Rosso, prendendogli il gomito e cacciandolo in su, – tu, hai dimenticato come si beve.
— Porco, – ringhiò Celestino ritraendosi di botto al traboccare del vino.
— Niente paura. Alla salute –. E il Rosso brindò.
Celestino si forbiva gli spruzzi. – Credi di essere sempre alla guerra, – borbottava. – Si vede che vieni dai napoli, come metti le mani addosso.
— Lascia stare la guerra, tu non sai neanche che odore abbia. Tu l’hai fatta alla radio la guerra… Andiamo, senz’offesa: beviamoci sopra.
Celestino non bevve.
Il Rosso posò il bicchiere. – Bella cosa la guerra. Non si pensa piú a niente. Dopo, si pensa al pericolo. Si vive alla giornata. Tu hai il tuo posto, tutti ce l’hanno. L’unica paura è di perderti. Mi ricordo uno al Gemma che girava sugli assi con l’elmetto al collo, sporco di sudore come un ciclista, che mi ferma, con due occhi cosí, e mi fa: «Dov’è il mio pezzo, santa madonna, dimmelo tu dov’è il mio pezzo». Ancora, quello si era perso nella colonna ma pensa uno che si perda, solo, in terreno scoperto, fra quelle piante secche che sembran tante fascine interrate. Chi ti viene a cercare allora? Altro che dimenticarti. Sopra ti volano i falchetti.
Il Rosso si piegò a terra, raccolse il mozzicone del compagno e l’accese, scottandosi alle labbra. Soffiò il fumo e tornò a piantarsi sui gomiti, occhi fissi in fronte a Celestino.
— Io mi sono perso una volta, – riprese a un tratto parlando come fosse solo. – Tornavamo a Dire Daua. Cominciavano le piogge. Nuvoloni che non hai mai visto. Il cielo là sembra piú largo. Esco dall’autocampo verso sera, a pestare un po’ di fango in una campagna piatta che sapeva di marcio. Pareva da noi quand’è finita la vendemmia.
— Mi prende la pioggia fuori dal villaggio indigeno. Pareva cadessero dei rospi. Mi sono buttato nella prima capanna perché, visto non visto, non si conosce piú da cielo a terra e c’è rischio d’annegare.
— C’erano dentro degli stracci e degli occhi di gatto: altro non vedevo perché era buio. Ma quei neri mi guardavano. Fuori pioveva da sfondare terra, vedevo la schiuma saltare davanti alla porta. Pensavo: qui mi dànno una coltellata e si rifanno della guerra. Sono stato non so quanto, poggiato contro la porta, con la schiena al marcio, baionetta alla mano, pronto a saltar fuori. Non sentivo l’odore, ti dico.
— E poi non ti hanno fatto niente?
— Che cosa vuoi che mi facessero? Avevano loro paura di me. Ho capito però che a far la guerra bisogna essere in tanti. Ammazzare uno, tu solo, è da matto.
— Ne hai ammazzati tu? – disse alzandosi Celestino.
— Non lo so. Nessuno lo sa. Ne ho visti morti, questo sí.
— Legge di guerra. Andiamo?
Il Rosso restava seduto, levando il capo, smarrito.
— Non vorrai che avanziamo il vino, – balbettò, prendendo il bicchiere.
— Oh per me, puoi lasciarlo.
— Tienimi ancora compagnia, Celestino. Tanto hai bevuto poco. Cosa vuoi che ti dica la Gina? Lo sa bene che sei con me.
— Ma è ben per questo, – disse l’altro ghignando. – È perché son con te che la Gina mi aspetta.
— Ti secca se bevo e se parlo dell’Africa? Santo dio, ci sono stato, no? Sei tu che mi chiedi. Non parli di niente, tu. Contami della Gina, allora. Quando lo fa il bambino? Finisci di bere.
Il Rosso tracannò il suo bicchiere e lo riempí, con mano malferma, di quanto restava nel litro.
— Senti, – gridò a Celestino che si scostava sotto il pergolato, – volevo sbronzarti stasera; poi ho pensato «no, deve avere un figlio lui non è disoccupato, è meglio di no». Ma tienimi compagnia.
— Sei un porco, Milio, o vieni subito o stai.
— No che non vengo, – gridò allora il Rosso. – O me o la Gina. Non ritorno dall’Africa per farmi comandare dalla moglie di un altro. Se non hai piú la libertà del litro, non sei piú Celestino… Bevi qua, stupido… I negri sono piú furbi di te.
Celestino se n’era andato.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Amici
AUTORE: Pavese, Cesare
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze
TRATTO DA: Racconti / Cesare Pavese. - Torino : Einaudi, [1994]. - 525 p. ; 20 cm.
SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)