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(voce di SopraPensiero)
“I haven’t told my garden yet” (Al mio giardino ancora non l’ho detto): è questo incisivo verso di Emily Dickinson, che apre nel cuore della poetessa americana un turbine di emozioni nella relazione tra le cose e il pensiero della morte, a dare il titolo all’ultima opera di Pia Pera, scrittrice lucchese prematuramente scomparsa all’età di sessant’anni a causa della Sindrome Laterale Amiotrofica. “Al giardino ancora non l’ho detto” (Ponte alle Grazie, 2016) è una testimonianza sincera e appassionata a livello emotivo e umano degli ultimi due anni di vita dall’autrice, dall’insorgere dei primi sintomi della malattia alla condizione di paralisi quasi totale. Periodo vissuto da Pia Pera in una totale armonia con se stessa e con il suo giardino, luogo in cui ritrovava la pace interiore attraverso un contatto sincero e spontaneo con la natura, quasi una sinergia con ogni essere vegetale che le favoriva le relazioni con gli amici e il personale destinato ad accudirla.
La scrittrice fin dai primi problemi di deambulazione si chiede se qualcuno vorrà portare avanti la lunga e paziente opera di arricchimento e cura della sua tenuta, di consistenti dimensioni e abitata da piante da orto e da giardino assai rare almeno agli occhi di chi pratica l’agricoltura a livello ordinario, che da sempre Pia Pera lavora affidandosi alle sue uniche forze. L’altra preoccupazione che la tormenta è il destino della sua cagnolina Macchia, abituata a stare al fianco della padrona ma destinata a sopravviverle. A risolvere tali difficoltà arriva Giulio, tuttofare di origine cingalese che si rivela un eccellente giardiniere, capace di occuparsi anche delle mansioni più delicate.
Grazie al suo appoggio l’autrice può dedicarsi all’osservazione della natura e rendersi conto della bellezza di ogni suo minimo aspetto nel trascorrere delle stagioni, favorita paradossalmente dal costante rallentamento delle capacità motorie, che le consentono di avere più tempo per la meditazione rispetto a quando era presa dalli occupazioni manuali. Il primo anno di malattia è vissuto in modo insolitamente sereno, almeno nei momenti dedicati al giardino; leggendo queste pagina torna alla mente la storia narrata un secolo prima da Jorge Luis Borges in “Finzioni” nel breve racconto “Funes o della memoria”, dove il protagonista dopo aver perso l’uso della gambe sviluppa capacità memoniche e riflessive che vanno notevolmente oltre l’ordinario.
L’autrice nelle sue descrizioni però non manca di vedere nella natura anche il degrado che conduce alla morte. È in questo contesto che emerge la lezione di Giacomo Leopardi, citato nel celeberrimo brano dello “Zibaldone” dedicato alla bellezza di un giardino fatta purtroppo dalla costante sofferenza di ogni singola vita vegetale che lo abita. La natura matrigna accusata e biasimata dal poeta di Recanati appare in tutta la sua crudeltà, ma anche Pia Pera finisce per ammettere di non aver mai avuto particolare riguardo per le piante più deboli, salvo in pochi casi in cui ricorda di aver stretto un forte legame con specie ai suoi occhi insolitamente interessanti. A un amico che le consiglia di curare il suo corpo come ha difeso la vita nel suo giardino, confessa di aver quasi sempre accettato solo gli esemplari abbastanza forti da sopravvivere, gli altri li abbandonava al loro triste destino. Questa è la natura, non solo vegetale ma anche umana.
Nello scorrere dei mesi e dell’incedere della malattia, che costringe l’autrice a passare dal bastone alla sedia a rotelle semplice e infine a quella munita di motore elettrico, Pia Pera preserva, proprio grazie alla spinta datale da un contatto profondo con la natura, una forte speranza. Per attaccarsi alla vita lascia che siano sperimentate sul suo corpo una serie di cure alternative, dalle terapie orientali alle teorie di un dottore tedesco che ritiene l’elettromagnetismo presente nella sua abitazione la causa della degenerazione dei motoneuroni. Cosciente di dare seguito a delle illusioni, l’autrice di frequente si rivela stanca, inutilmente provata dalla presunzione dei ciarlatani. In queste circostanze trova rifugio nella testimonianza nella letteratura e nel cinema dei malati terminali che come lei hanno voluto affrontare con coraggio il loro lento annientamento. Dal cineasta Derek Jarman morto di AIDS nel 1994, che ha dedicato gli ultimi momenti della vita al suo giardino con spirito sereno, all’attore americano Ben Byer, morto di SLA nel 2008 e autore di Indestructible, la sua unica opera filmica, un documentario proprio sulla malattia. Attraverso l’intercessione di un’amica apre una corrispondenza con Marinella Raimondi, autrice del libro “Cosa importa se non posso correre” (Mursia, 2009), scrittrice paralizzata capace di muovere solo parzialmente le cosce con cui aziona un complesso sistema informatico che le permette di scrivere. Da lei Pia Pera riceve il consiglio di non abbandonare mai il suo giardino.
Nella forma di appunti che narrano vicende quotidiane a volte in modo breve ma intenso, si racconta non la malattia ma l’universo emotivo ed esperienziale in cui conduce la SLA. Un unico capitolo per contenere tutta l’opera, un avvicendarsi di riflessioni su personaggi, vicende e sentimenti, che dalla forma frammentaria con cui probabilmente sono stati scritti all’inizio sono stati saldati in un discorso coerente che non annoia per l’eccesso narrativo, anzi è proprio la varietà di condizioni ed emozioni a focalizzare l’interesse del lettore. Malgrado la tragicità degli eventi non c’è commiserazione, ma solo il desiderio di fare un reale bilancio tra quanto la malattia ha portato via all’autrice e quanto le ha donato potenziando la sua sensibilità. Il pensiero della morte inevitabilmente incombe e si fa più presente quanto più si aggrava lo stato di salute e scema qualsiasi speranza di guarigione, ma fino alla quasi totale disabilità prevale il desiderio di narrare con estrema lucidità l’esistenza.
Al pensiero dell’annientamento dell’individuo è dedicata la citazione finale, presentata con un’intensa nota di malinconia ma non di paura; una poesia di Stevenson in cui si riassume il dispiacere di chi sa di dover prendere commiato dalla vita in modo prematuro, attraverso un paragone con il doversi coricare d’estate al crepuscolo quando ancora si sente fervere la vita fuori dalla stanza.
A letto d’estate
Mi tocca andare a letto e vedere / Gli uccellini saltellare ancora sull’albero, / Oppure sentire i passi dei grandi / Che se ne vanno ancora per la strada. / Ma non vi pare brutto, / Col cielo così chiaro e azzurro, / Quando si vorrebbe tanto giocare / Dovere andare a letto di giorno?
È su questi dolci versi che Pia Pera saluta il lettore e ammette che vorrebbe non terminasse mai questo suo crepuscolo.