Adelassia ed Allerame
di
Pietro Giuria
Tempo Di Lettura: 54 Minuti
I
Perché la leggenda pia e commovente fu
relegata alla veglia delle femminette e
dei fanciulli, come indegna di occupare
i passatempi d’un ingegno delicato o di
un eletto uditorio?… Ecco perché non
abbiamo poesia nel senso semplice ed
originale della parola, e perché non ne
avremo forse mai piú.
J. Collin De Plancy.
Uno dei piaceri piú soavi, piú nobili, e dirò anche, piú malinconici che si possano gustar viaggiando, perché sorgente di care e gravi meditazioni, è quello di perlustrar collo sguardo le scritte funebri di cui sono istoriate antiche lapidi, scritte che compendiano talvolta in poche parole una lunga vita di dolori, di virtù, di sacrifizii; sventure e glorie, casi di amori lacrimevoli, racchiusi in una tomba, e che spesso ti commuovono quanto le catastrofi rumorose delle nazioni, poiché, talvolta la storia d’un cuore non è meno interessante di quella d’un popolo. – Le ceneri, racchiuse in quel mausoleo, composero un giorno la bellissima giovinetta che fu sovresso delineata in atteggiamento d’un soave riposo; sognava ella forse una corona di sposa per il domani, e la morte, sorprendendola, le preparò un freddo letto sotto il coperchio d’un sepolcro; quel guerriero, armato da capo a piedi, stringe ancora la spada tra le mani raccolte al petto; e ti ricorda l’eroica imagine di Bajardo, il cavaliero senza rimprovero e senza paura, che bacia, moribondo, la croce dell’elsa, e compiange il suo vincitore, traditor della patria; quel santo vescovo, in abito pontificale, cogli occhi chiusi, colla fronte appoggiata sulla destra, non sembra che mediti, in cosí augusto raccoglimento, la fugacità della vita, il mistero della morte? Vedete; si appuntella leggermente col gomito, a guisa di pellegrino che la via lunga e l’ora tarda sospingono, ristà un momento per rinfrancarsi; ma i secoli eterni lo chiamano, e il suo desiderio già li precorre. Abitanti della tomba, coevi d’un tempo che passò per sempre, spirano una vita potentissima da que’ marmi, e dal limite di due mondi parlano a noi successori e pellegrini come essi furono, ad una gran meta. Il cuore umano, senza comprendersi, ha pure una arcana e profonda simpatia per le tombe, e si addolora sopra vicende che secoli antichissimi già travolsero nella loro rapina; gli esseri che qui dormono, calcarono un giorno il pavimento che noi calchiamo; si allegrarono della luce che innonda cosí vivace le nostre pupille, e che passa indifferente sui loro sepolcri. I marmi logori di quegli altari non conservarono traccia delle loro lacrime; l’orma dei loro piedi si è per sempre cancellata da questa terra; ma nulla si è perduto! Ci precedettero; succederanno tra poco altre generazioni; leggeranno nuovi nomi su nuove lapidi: la stessa solitudine, lo stesso silenzio, la stessa aspettazione dell’avvenire per chi dorme da cento secoli e da un’ora sola.
Queste riflessioni mi rampollavano nella mente, nel percorrere alcune lapidi mortuarie nell’abadia di Ferrannia, una delle quali, antichissima, ricorda il nome d’una nuora di Adelassia, già signora di quel paese. Alcuni dotti, dall’irsute sopracciglia, rigettarono, come favola, la tradizione popolare che sarà argomento del nostro racconto; ma il buon popolo, senza curarsene, non volle sbandire da’ suoi poveri focolai ciò che commove ed esalta dolcemente il suo cuore e la sua fantasia, ciò che forma la delizia delle sue veglie invernali.
II
Ed appunto, quando i primi soffii invernali scuotono le ultime frondi agli alberi delle montagne, e la natura, iscolorita, conserva tuttavia una soave bellezza, quasi vedova che, deposto ogni ornamento, si fa bella del suo dolore, in quella stagione dell’anno cosí malinconica che la religione con pio e gentile accorgimento consacrar volle alla ricordanza dei morti, visitai la chiesuola di Ferrannia, e i selvaggi burroni di Montenotte, dove le aquile di Napoleone conobbero le proprie forze, e si ammaestrarono a piú largo volo. Si veggono ancora, tra la ricca vegetazione silvestre che riprese i suoi diritti, gli avanzi delle trincee, dei ridotti, dove migliaia d’uomini si urtarono con tanta furia, e dove il giovane pastorello mena adesso la sua greggia e scopre talvolta, tra i sassi e le boscaglie, ossa umane, elmi irrugginiti, spade infrante. Quante vedove, quante madri aspettarono a lungo mariti e figli, che or giacciono in queste glebe o in fondo di que’ burroni travolti dall’acque montane, battuti dai venti! Qui si scontrarono la prima volta senza conoscersi, e qui senza odio si trucidarono! – Vedete, a poca distanza, sulla cima d’una collinetta soprastante a nero abisso, il castello di Cosseria, monumento del valor piemontese, castello di cui sorgono tuttavia alcuni enormi bastioni a perpendicolo sulla voragine. Piú basso, in riva d’un fiumicello, biancheggiano alcune casucce di contadini, alle quali sovrasta il campanile d’una chiesetta, che riesce sempre cosí pittoresca nel silenzio e tra il verde d’una foresta. Una specie di temporale o di uragano che si adunava tra le gole di que’ monti, scoppiò in un subito; e tra il rimbombo di torrenti che in poco d’ora ingrossarono, e tra lo stridere dei pini che la bufera affaticava, mi costrinse a cercar ricovero in un abituro, che avea piú aspetto di capanna che di casa. Sia pur benedetta l’ospitalità che ti apre il povero contadino ne’ suoi umili lari! Qui non ti incontrano que’ grugni di cane, dog, che il moderno incivilimento creò cerimonieri delle dure illustri porte, e che ti ringhiano fra le gambe con due ordini di denti, capaci di spezzarti un osso al primo colpo; qui non laquais in livrea, che inorridiscono alla voce di semplice monsieur; ma ti consola e ti previene lo schietto sorriso e il pudico invito d’una villanella, il saluto riverente ed affettuoso d’un buon vecchietto, che mi si fecero innanzi, e mi dissero il benarrivato. Un grosso cane da guardia, che non ha denti se non per il lupo, mi venne anch’esso all’incontro, con due occhi pieni di brio, d’intelligenza, quasi umani, e dimenando la coda come volesse significarmi che io era il ben venuto. Fu osservato acconciamente dai naturalisti che il cane guardiano dei contadini, dal pelo bianco, dal muso acuto, dalle orecchie tese e puntute, è il tipo di tutti i cani per coraggio, per fedeltà, parsimonia ed affezione; e tal era il mio nuovo amico accorso a festeggiarmi. Sopraggiunsero intanto, cacciati dalla pioggia, due robusti giovani, il maggiore dei quali era il marito della villanella che m’avea accolto con tanta modestia e cortesia, e padre di due fanciulli che si gettarono tra le ginocchia del buon vecchio, tutto gongolante di gioia e quasi ringiovanito nell’abbracciarli. Entrò anch’essa la vecchia madre con un fascetto di legna e di sterpi raccolti per la collina, e ne accese prontamente un gran fuoco per riscaldarmi ed asciugarmi le vestimenta. Il patriarca della famiglia, che or dirò Antonio, con un atto pieno di candore e di gentile delicatezza, mi invitò a sedere, a partecipare alla povera loro mensa; ed io, pieno il cuore d’un sentimento indescrivibile, un misto di tenerezza, di gratitudine e quasi d’invidia a quella scena domestica, che mi rivelava tanta virtù, tanta felicità di vita sotto quell’umile casolare, sedetti e rincacciai dentro un sospiro cui nessuno pose mente. Contemplava tratto tratto la serena maestà dì quella fronte incanutita senza rimorsi; il pudico sorriso della villanella nel trinciare il pane a’ suoi figliuoletti; la fisonomia aperta e vigorosa dei due giovani, contadini parci, infaticabili in tempo di pace, soldati intrepidi in tempo di guerra; e pensando a quel Sabino descritto da Orazio, il quale, vincitore d’Annibale, al cenno della severa madre porta a casa il fascio di legna, gli andava paragonando ai nostri lions, ai nostri eroi da teatro; ma Antonio, levandosi di tavola e raccogliendosi presso il fuoco, interruppe il filo delle mie riflessioni.
— È tempo di novellette, pensai fra me stesso, facendo capolino da un fenestrello, e guardando l’aria nera e minaccevole che avvolgeva le cime di quelle montagne, tra il mugolare del vento nel fondo dei burroni. Antonio, come che avesse letto ne’ miei pensieri:
“Questi monti e queste vallate, cominciò allora indirizzandomi il discorso, si ricordano di un’illustre signora che qui visse a lungo sconosciuta, e fu compagna de’ nostri padri. Eppure la era una gran dama figliuola d’imperatore! Mio nonno mi raccontava, e lo sapea da suo nonno – Dio li abbia in gloria! – che ella in povere vestimenta pascolava la greggia, lavava di propria mano i suoi pannolini e quelli di due suoi figliuoletti nell’acque del torrente; e che suo marito, illustre cavaliero di gran nome e di gran valore, lavorava nelle miniere di carbone, e col sudore della sua fronte procacciava, come noi, il vitto alla sua famiglia. — Voi che forse saprete leggere, soggiungea gravemente, l’avrete letto in un libro…”.
E qui frugava nella memoria.
— Troppo onore, risposi io tra me stesso; ma come si chiamava quella gran dama e quell’illustre cavaliero?
— Adelassia ed Allerame.
— Adelassia ed Allerame, ripetè sotto voce la buona vecchia, moglie del mio narratore, dandomi cosí ad intendere con una specie d’orgoglio innocentissimo, che anch’essa sapea assai bene quella novella.
— Intendendomi un po’ di lettura, risposi io volto ad Antonio, lessi appunto il nome di Adelassia in una lapide nella vostra chiesa parrocchiale.
— Quella è una sua nuora qui sepolta, rispose il vecchio gravemente; cosí mi affermò il curato che sa leggere il latino, e quell’iscrizione è latina. Ma l’Adelassia, di cui vi parlo, giunse povera e sconosciuta su questi monti; e quindi, ritornata allo splendor primitivo, ne divenne signora e feudataria. Sebbene ella sia morta da gran tempo, poiché il nonno di mio nonno ne avea intesa la storia da un altro nonno, conserviamo tra noi, poveri contadini, la grata memoria della virtù di lei, de’ suoi benefizi, ed insegniamo ai nostri figliuoli a benedirne il nome e pregare anche per lei nel giorno dei nostri morti.
Lo schietto discorso di quel contadino avea qualche cosa di sublime e di commovente; e quell’eloquenza, ispirata dal cuore, mi affascinava.
La gratitudine è propria delle anime bennate e la piú bella virtù del povero, come la beneficenza è la piú bella virtù del ricco, pensava meco stesso. — Ma narratemi, buon vecchio, le avventure di questa Adelassia; ho per certo che il vostro racconto è piú umile e dilettevole delle tante scipitezze che formano la delizia delle sale, dove è raccolto tutto il bon ton, e dove l’annoiarsi è anche di bon ton. Ma il semplice contadino, che per sua buona fortuna non aveva udite mai siffatte parole barbaresche, senza badar punto al mio discorso, raccogliea tacito nella memoria le fila del suo racconto.
Tutti si composero a un religioso silenzio; persino il cane, che facea parte della famiglia, accovacciato presso il fuoco, tendea le orecchie quasi anch’egli stesse in ascolto. Continuava intanto al di fuori quella pioggia autunnale, lenta, monotona, lamentevole tra il fruscio delle foglie che la bufera avea divelte e accumulate nei solchi; quella pioggia che t’empie l’anima di una soave tristezza, e che venne descritta con tanta armonia imitativa da un poeta moderno in quel verso:
Melanconicamente i campi lava.
III
Udir novelle, ai focolari accanto,
Degli avi antichi, inebriare il core
Del balsamo d’amore,
Sono gioie per lui che non devia
Dalla terra natia.
L. Sani.
“La corte di Ottone il Grande, imperatore, s’ornava a festa; gli ambasciatori delle nazioni soggiogate traevano a’ suoi limitari; ricchezze immense, frutto di gloriose vittorie, e tributi di popoli brillavano nelle auree sale, disposte intorno a trofeo. Caccie, tornei, canti di menestrelli, tutto ciò che l’età di mezzo aveva di piú poetico, e l’impero d’Ottone il Grande di piú splendido, andava a gara per celebrare le imminenti nozze di Adelassia sua figliuola.
“Tutto era festa, ma un’anima sanguinava profondamente. La giovanetta assistea a quelle danze, a quelli spettacoli, come altri assisterebbe ai preparativi d’un supplizio, ai propri funerali. Dall’alto delle sue torri guardava con invidia la villanella tornar cantando al rustico casolare; ed avrebbe scambiato volontieri il suo splendido vestimento, le aurate sale de’ suoi castelli con quella povertà onesta, contenta, libera, paga del sorriso d’un bel cielo e delle ghirlande della natura. — Ma questa corona, dicea fra se stessa nell’uscir da una festa e raccogliendosi sola nella sua camera, questa corona è pur di ferro sulle mie tempia! pesa orrendamente sulla mia vita, perfino sui miei pensieri! — e premea la destra immagrita sulla fronte che le ardea come per febbre. Sorgea in piedi, correa a passi concitati, poi di subito rattenendosi e fissando gli occhi al pavimento con terribile immobilità:
“ — L’altare è pronto, ma la vittima non deve essere immolata. Ad Ottone, i scettri della terra: a me, i miei pensieri, il mio cuore, questo cuore che diverrà polvere, ma schiavo non mai! — Oh s’ei mi amasse! eslamò quindi con entusiasmo ineffabile, stringendo le mani al petto, irraggiandosi nel volto e nelle pupille, nell’espressione dell’anima assorta tutta in una sola speranza, in un’imagine di paradiso: — Oh s’ei mi amasse! — E gli occhi della giovinetta, poc’anzi quasi impetrati, quasi feroci per intera disperazione, nuotarono in due lacrime di soavità, con un sorriso tra l’angelico e il dissennato, che a sole parole non possiamo ritrarre.
“S’udì in quella un tintinnio d’arpa sottesso le finestre d’Adelassia.
Cara, segreta, ignota al sol, romita,
Vive la cura che m’accende il cor,
Risponde al tuo se a palpitar l’invita,
Poi come pria trema in silenzio ancor.
Arde simile a sepulcral facella,
Lenta, non vista, d’immortal virtù;
Ben la speranza può morir, non ella,
Benché oggi è fioca qual piú mai non fu.
Una lacrima sola, altro di tanto
Amore in pegno non chegg’io da te;
Unico, primo, ultimo dono, il pianto
Virtù non vieta, per chi più non è.nota 1
“Questo canto suonò sull’arpa del Trovatore e ruppe il silenzio della notte. Il cuore di Adelassia piú che il suo orecchio, conobbe quella voce, e si squarciò dinanzi a lei un nuovo avvenire, nel cui fondo sta una corona nuziale sopra l’altare, ed un serto di cipresso sopra d’un feretro.
“— L’una o l’altra di queste corone poco importa, sclamò Adelassia, amendue durano un’eternità.
IV
“Al domani la caccia si sparse per la vicina foresta. Adelassia cavalcava un focoso palafreno, e seguia i vestigii sanguinosi d’un cignale che, già ferito, tentava di rintanarsi, rotolando sassi, rompendo arbusti coll’impeto cieco del suo istinto e colla furia della paura. La giovanetta, curvandosi graziosamente sulla persona, già stava per trafiggerlo col suo lungo giavellotto, quando il cignale, addossato ad una rupe, si volse addietro, ferì il cavallo; e questi, rotto il freno, spaventato, indocile alla voce, si cacciò a fuga precipitosa. Per dirupi scoscesi, aridi o nereggianti di folta boscaglia, per valli, sull’orlo a precipizii suona lo scalpito del palafreno, quasi il turbine lo trasporti. Le cime delle piante secolari della Germania, agitate dal vento, le nubi che di subito agglomerate dalla tempesta, si annodano o si disciolgono in mille forme fantastiche secondo il soffio della bufera; lo scroscio de’ tuoni e de’ venti che rimugghiano nelle caverne, nelle strette delle montagne; il rimbombo de’ torrenti che ingrossano in pochi istanti, lo impauriscono, lo percuotono, lo fanno rabbrividire, impennare. Adelassia, ferma in groppa, ma stanca ed anelante, afferra con una mano la criniera del cavallo, e volge addietro il bel capo, colle treccie disciolte ed ondeggianti, per vedere se alcun la segue. Uno solo è il cavaliero che ebbe animo e lena di tenerle dietro infaticabile; egli accorre a tutta briglia conficcando gli sproni nei fianchi del cavallo, e già sta presso a raggiungerla.
“ — Oh, è desso! è il Cavaliero che ebbe dalle mie mani, premio della vittoria, la purpurea sciarpa che ora gli splende sul petto; quel bianco pennacchio è suo!…
“Un palpito piú potente commosse il cuore della fanciulla; e le sue gote iscolorite s’imporporarono. L’impeto del cavallo si rallentava, perché il sangue sparso dalla ferita gli avea scemate a poco a poco le forze; e già accennava di stramazzare, quando il giovane cavaliero lo raggiunse, balzò di sella, ed afferrandolo per le briglie, pose un ginocchio a terra, e invitò con atto riverente la principessa a farsene sgabello per ismontare.
“ — Cavaliere, gli disse la principessa, puntando leggiadramente un piede sul ginocchio di lui.
“ — Cavaliere, vi deggio la vita.
“ — La mia vita è devota da gran tempo all’imperatore ed a voi… Adelassia!… degnissima sua figliuola, rispose modestamente il giovanetto.
“Ma il tremito della voce, le parole tronche e raddrizzate in diverso senso, dicevano ben altro, che non suonavano e tradivano un sentimento che tentava mascherarsi sotto le forme dell’ossequio. D’altronde, mentre ella nel balzar da cavallo strinse la mano del cavaliere per farsene un punto d’appoggio, non sentì forse che tremava nella sua? Uno sguardo involontario che si scambiarono nell’allegrezza de’ pericoli superati, non rivelò forse, come tratto di baleno, anima ad anima? Quello sguardo avea suggellato il loro destino, rivelato subitamente ciò che labbro umano non ha valore di esprimere.
“Il cielo rasserenavasi piú festivo che mai, come avviene dopo un rovescio improvviso di pioggia; un’amabile frescura scuotea dalle fronde le goccie d’acqua, che tremolavano a guisa di gemme indorate da un raggio occidentale. Adelassia salì in groppa al palafreno di Allerame, che tale era il nome del cavaliero; ed egli, ossequioso in atto, camminava accanto alla principessa; camminavano a capo chino, né l’uno né l’altro sapean rompere quel silenzio, pieno d’affetti tumultuosi ma profondi.
“Giunsero finalmente alle mura d’un convento, la cui rozza architettura accennava i primi tempi del cristianesimo introdotto nella Germania. Le brune e gigantesche torri di quell’edifizio, ombreggiate in parte dalle quercie della foresta, e parte illuminate dal purpureo tramonto, riflettevano i raggi soavi e malinconici e si specchiavano in azzurro lago ai piedi delle mura.
“Adelassia fermò il cavallo, e con profondo raccoglimento guardò a lungo la ferrea porta del monastero.
“ — Quelle porte, disse ella pacatamente, simili alle porte dell’eternità, non si aprono che una volta; bisogna, nell’entrare, che il nostro sguardo sia fitto ben addentro; guai rivolgerlo ancora addietro!
“ — Non per voi, amabile principessa, figliuola d’Ottone il Grande, speranza di tanti popoli!…
“ — Non si entra che una volta, proseguia Adelassia, quasi non udisse le parole di Allerame; e il suo accento si facea cupo, pronunciato con quella energia che nasce da un grande affetto — “Quelle porte racchiudono forse altre vittime della prepotenza, dell’orgoglio, vittime che i fiori nuziali già coronavano…”
“ — Come mai, Principessa, dite altre vittime? non siete forse la figliuola prediletta d’imperatore potentissimo? Non sono forse per voi quelle danze, quei tornei… le vicine nozze?… Dite piuttosto, amabile Principessa: quello è talvolta il ricovero di anime tribolate che vi entrarono con un mistero tremendo in fondo dell’anima, con un mistero che trarranno forse nel sepolcro, poiché la morte è un desiderio, è un unico scampo, quando una speranza, folle sí, certo, ma che racchiude tutti i palpiti di un’esistenza, si è dileguata in eterno!
“La voce del cavaliere, concitata per un momento, andò spegnendosi languidamente, mentre il suo sguardo volgeasi al cielo. Adelassia non perdè sillaba di quelle parole, che tutte le percuotevano sulle fibre del cuore; e fissandolo con uno sguardo penetrante, temperato dalla dolcezza di una profonda ed affettuosa mestizia:
“ — E voi, Cavaliere, soggiungeva la giovanetta, voi, splendore delle feste, gloria de’ tornei, sospiro di tante illustri damigelle, come mai nutrite in animo cosí tristi sentimenti? Vi travaglia forse qualche secreto dolore, che io… che l’imperatore mio padre possa alleviare? Ottone saprà rimertare il valor vostro, procacciarvi una sposa degna di voi!…
“ — Oh Adelassia! amo, è vero, una creatura piú che terrena; ma l’amore che mi divora è sepolto dentro il cuore; follia, delitto sarebbe l’appalesarlo… ed ora piú che mai!
“ — Onorato Cavaliere come voi siete, non può, certo, esser vile o colpevole l’amor vostro.
“ — È tale, Principessa, che niuna umana forza potrà trarmelo nemmen colla vita; godea almeno di vagheggiarla collo sguardo, come santa cosa, come un volto di quegli angioli che io vedea ne’ miei sogni, fanciullo innocente, ignaro della vita; godea pascermi segretamente dell’amor mio; ma anche questa gioia mi sarà tolta! Tra poco ella dovrà partire.
“ — Ma siete voi certo, soggiunse Adelassia con accento indescrivibile, che la giovane del vostro amore non sia infelice piú di voi, piú di voi disperata della prossima sua partenza?…
“ — Adelassia, che dite mai? proruppe il giovane, fissandola in volto la prima volta, e vedendo quegli occhi bellissimi innondati di lacrime; v’accora forse il partire?… Voi pure amate?…
“ — E chi tel disse? — Me lassa! nol dissi io stessa!
“E qui, abbassando il velo, ruppe in lacrime.
“ — Oh immensa gioia! voi pure amate?…
“ — Si, amo te, Allerame! e l’amor mio è profondo, disperato quanto il tuo. Che vale dissimularlo? Piú potente di una corona, piú potente di quanto vive sopra la terra, piú potente di me stessa è questo affetto puro ed incolpabile, primo ed ultimo della mia vita!
“E qui passò un momento di silenzio, uno di que’ momenti che rivelano all’anima la sua immortalità, e in cui pare che la fragile nostra argilla debba spezzarsi, come vaso di cristallo, per il soverchio della fiamma che vi si accese. Allerame, alzando il capo, dopo una cupa riflessione, e come uomo precipitato dal sommo della gioia all’abisso dell’amarezza:
“ — Ma voi, Principessa, soggiungeva, non siete voi sposa ad uno de’ suoi baroni?
“ — Pur troppo! ma queste nozze non si compieranno giammai.
“ — E vostro padre, l’Imperatore, che ne ha data la sua parola, vorrà egli comportarlo?
“ — No, certo.
“ — E come dunque?…
“Sopraggiunse in questo mentre la cavalcata, la quale, rannodatasi dopo quell’acquazzone, cercava d’ogni parte la Principessa. I due amanti, interrotti in sí mal punto nel loro colloquio, si ricomposero; e tutti s’avviarono allegramente, almeno in vista, alla volta del castello imperiale.
V
“Da quel giorno avvenne un gran mutamento nell’esistenza di due anime, Adelassia ed Allerame. Non era piú quel dolore che si aggruppa intorno al cuore senza refrigerio né di lacrime, né di parole; non piú il loro pensiero, segregato affatto dalle cose viventi, dalle speranze dell’avvenire, si smarriva in vuoto immenso, tenebroso, che l’egra fantasia popolava colle sue larve. Soffrivano, ma sapeano di soffrire l’uno per l’altro, ed era questa ciò che dicesi dai moderni voluttà del dolore.
“Ma il giorno delle nozze incalzava. Adelassia, prostata ai piedi di Ottone, gli dichiarò a viso aperto non essere ella preparata a tal nodo; non volere contaminare con uno spergiuro, dinanzi a Dio, la coscienza propria e il regal sangue d’Ottone:
“ — Dovessi anche scambiar queste gemme, queste splendide vestimenta con un saio di monaca, con un cilicio, e questa corona che voi mi deste, con un serto di acute spine, no, questo labbro non tradirà mai il libero accento del mio cuore.
“ — E sia pure, sciagurata, rispose Ottone ritirandosi sdegnosamente dopo aver fatto prova di parole ora soavi ed ora minaccevoli; sia pure! nessun principe della terra potrà lagnarsi, se gli hai negata la tua mano per darti unicamente a Dio… a Dio solo!
“E rigettava, partendo, le lacrime e le preghiere della figliuola; ma ella, drizzandosi alteramente sulla persona:
“ — Nessun uomo, qualunque sia, otterrà questa mano senza prima averne il cuore — mormorò Adelassia, rimasta sola, tra una cupa rassegnazione del presente e il ferreo suo proposito per l’avvenire; e pallida e taciturna accompagnò a lungo collo sguardo l’imperatore che si allontanava.
“E quelle porte che, simili alle porte dell’eternità, non si aprono che una volta, come disse la Principessa affissandole con un funesto presentimento nel giorno piú delizioso della sua vita, si spalancarono dinanzi ai passi della figliuola d’Ottone. Ella ascese con piè fermo la gradinata, e abbassò il capo nell’entrarvi, come salda quercia che declina la sua cima sotto l’impeto istantaneo della bufera, per rialzarla piú vigorosa a cielo sereno”.
— Ma dunque l’han fatta monaca, esclamò con uno slancio di pietà e di indegnazione la buona villanella, madre dei due fanciulli — Dunque l’han fatta monaca!
— No, rispose il vecchio — se l’uscio è chiuso, si passa anche per la finestra.
— Ma noi, soggiungeva la contadina con quella eloquenza del cuore, con quella chiarezza di idee che nasce da coscienza retta, ed alla quale torna piú facile oppor sofismi che ragioni — Noi non sacrifichiamo il sangue nostro… ma noi, riprendeva sogguardandomi timidamente, quasi temesse d’avermi offeso, siamo poveri ed ignoranti contadini.
Questa titubanza ne’ suoi principii, o piuttosto questo riguardo delicato per l’ospite, m’impose l’obbligo di rispondere, poiché forse quell’anima retta e immacolata avrebbe potuto attribuire ad ignoranza il santo ed onorato procedere dei loro costumi:
— Il Signore benedice i vostri talami, le diss’io, perché l’ambizione, l’avarizia non presiedono a questo passo solennissimo che la religione ha santificato come sorgente di nuovi doveri, di nuovi affetti, donde informar si deve tutta la vita. Voi non ne fate un mercato abbominevole, beffando Iddio che ne ha istituito un sacramento, e chiamandolo a complice e testimonio d’un sacrifizio umano. I vostri matrimonii non sono mostruose unioni tra vecchi e giovani, abborrite talvolta dalla natura e riprovate dalla morale; e perciò i vostri figliuoli sono robusti contadini e valorosi soldati; e perciò siete contenti della vostra povertà onorata, senza punte di rimorsi, senza spasimi di gelosia, senza l’abbiettezza di chi ha vendute le sue membra e senza il brutale dispotismo di chi le ha comperate. L’uomo che ha ottenuto i vostri primi affetti, è il padre dei figli vostri, il compagno della vostra vita nell’armonia dell’età conforme, nei desiderii, nelle speranze della gioventù, nel riposo della vecchiaia; e cresce intanto intorno a voi florida e numerosa la vostra prole, come i rampolli dell’olivo lussureggiano intorno al ceppo dell’albero.
— Ma voi, Signore, che parlate cosí bene, riprese l’inesorabile mia avversaria colle schiette grazie della natura, ditemi dunque, perché simili sacrifizii, sacrilegi dinanzi a Dio, mostruosità in natura, infamia nella morale, si commettono tante volte fra i signori, ricchi, ben creati!…
La domanda avea la punta avvelenata dal dardo, ed era lanciata troppo direttamente perch’io potessi schermirmene. Dovea forse all’anima nobile ed innocente della pastorella svelare una serie di misteri, la cui conoscenza, come il pomo d’Eva, produce la morte? Non vorrei mai che tanti romanzi di Sue e compagnia cadessero nelle mani del popolo, poiché la medicina dello scopo sarebbe tarda alla morsicatura dell’aspide che intacca il cuore. Non seppi che rispondere; e il mio lettore, per poco che conosca le ruote interne della nostra società, sotto tanta splendida mostra di incivilimento e tanti bei nomi a cose sozze, per cui talvolta sei costretto ad invidiare la compagnia degli Ottentoni, non avrebbe saputo rispondere meglio di me. Per buona sorte il mio discreto narratore riprese il filo del suo racconto; ed io mi ritrassi ben volontieri da quella lizza.
VI
“ — Sei tu, Allerame?
“ — Son io, Adelassia.
“Queste due voci si scambiarono fra le tenebre sommessamente. La massa del convento, ove Adelassia si è ritirata, nereggia nell’acre, fantastica, colossale, non rischiarata né da luna né da stelle. Le monache già si ritrassero nelle loro cellette; tutto è muto nel convento e nella foresta, tranne un gufo annidato tra i cipressi nel camposanto del monastero. Una figura bianchissima, che diresti quasi un fantasma, s’affaccia alla grata d’una finestra, che guarda in una parte piú deserta dell’edifizio; e quella d’un uomo, vestito d’armi, ma tutto avvolto in nero mantello, s’avvicina guardinga al muro, e ripete un segno convenuto colla claustrale.
“ — Perché cosí tardi, Adelassia mia? Da lunga ora sto aspettando, appiattito nel cavo di quella pianta secolare, cogli occhi fissi su questa grata. Piú non s’ode che lo strepito della bufera nel profondo della foresta.
“ — Oh Allerame! non tacciarmi di poco amore. Dapprima fui rattenuta, nel traversare il corridoio, da alcuni lumicini che ardeano ancora nelle cellette; e poi… lo crederesti?… ristetti un momento per la paura. Morì quest’oggi una nostra compagna, e l’esponemmo nel suo feretro, coronata di gigli, in una gran sala che io dovea attraversare. Nell’appressarmi, quell’estinta parea sorgere sulla persona, parea respingermi colle braccia tese innanzi, quasi volesse chiudermi la via d’un delitto. Eppure la era cosí bella, cosí mite la povera giovinetta!
“ — Tu piangi, mia Adelassia? Quest’ombra mi toglie vederti in faccia, ma una lacrima è caduta sulla mia fronte; no, non è la goccia della tempesta cacciata dal vento; questa, o mia Adelassia, è una tua lacrima; parla, che io ascolti la tua voce!
“ — Oh Allerame! Io penso che diverrebbe mai di me se una notte, venendo a questa grata, non ti vedessi ricomparire! Ormai tu sei fatto il solo anello che esiste tra me e il mondo; tra la natura vivente, tra le speranze dell’avvenire e il lugubre silenzio di quel cimitero. Quando seggo abbandonata nella mia cella, quando prego nella chiesuola coll’altre mie compagne, quando premo i marmi che ricoprono altre estinte… o Allerame, la mia mano cerca la tua mano per sorreggersi in quel cammino… sento che la tua vita è la mia vita!
“ — Ed io, Adelassia! con che rapimento ascolto di notte il vostro canto, che il soffio della bufera tratto tratto mi trasporta! tendo l’orecchio a quella santa melodia, e parmi in essa discernere una voce piú soave, una voce angelica che mi empie l’anima di dolcezza… e di terrore. Lo crederesti! tremo e piango a quella voce!
“E qui il giovane appoggiò il capo contro il muro del convento, e stettero amendue in silenzio. Non si udiva che lo strillo lamentevole della civetta tra i rami dei cipressi, e il rumor cupo lontano, confuso delle foreste germaniche, travagliate dal vento, simile al gemito dei flutti che si spezzano tra gli scogli.
“ — Odi, ricominciò Adelassia soprafatta da un triste presentimento, odi lo strillo di quell’uccello malaugurato! Ieri, mentre la mia buona amica stava morendo, battè l’ali contro le sbarre della sua finestruola; quello strillo, che interrompe le tue parole, m’agghiaccia il cuore. Odi, come il vento geme lugubremente! brilla tratto tratto, dai squarciati nugoloni, qualche stella, ma languida, e scolorata; mille voci della natura ci presagiscono qualche gran danno…
“ — Non ho presentimenti che quelli dell’amor mio; piú potente di tutti gli augurii, di tutte le voci della natura, è quella imperiosa del mio cuore che grida d’amarti e d’essere teco felice… piú degli influssi di tutte le stelle è potente questa mia volontà; questo macigno che ci divide, dovrà spezzarsi contro il cozzo della mia fronte, o la mia fronte contro il macigno; ma noi, o qui o altrove saremo insieme…
“In questo mentre gli parve udir tra le frondi il calpestio d’un uomo che cerca di rinselvarsi; non si inganna, trae la spada e si caccia risoluto dietro i vestigii di quell’ignoto. La povera Adelassia travide anch’essa una specie di fantasma involarsi dietro il fogliame degli alberi; stringendo convulsamente le sbarre della finestra, sta in ascolto, reprime fino il respiro, e quasi i palpiti del proprio cuore; tutte le potenze della sua anima si raccolgono, per cosí dire, nell’udito. Il terreno è battuto violentemente; due spade si incrocicchiano scintillando e percosse ripercuotono. Oh come que’ fendenti le cadono sopra il cuore! oh se almeno la sua pupilla potesse vincere l’oscurità della notte!
“Ma uno d’essi è caduto; tutto ripiomba nel silenzio; solo l’upupa malaugurata ripete il suo lamento.
“In quell’orribile incertezza, Adelassia sentì mancarsi; piegò le ginocchia, attenendosi, come meglio poteva, alle sbarre dell’inferriata; la sua fronte è cosparsa di un sudore pari a quello dell’agonia; una lacrima amarissima le si agghiaccia sulla pupilla.
“Ma una voce, che potea sola richiamarla in vita, — Adelassia, ripetè, Adelassia, son io che ti chiamo; son io, Allerame.
“ — Sei tu, Allerame! rispose la giovane con un tremito convulsivo; — Dio ne sia benedetto! E se le tenebre non l’impedivano, l’avventurato amante avrebbe veduto due occhi angelici levarsi in alto, coll’espressione della gioia piú profonda e del piú divoto raccoglimento.
“ — Ma siamo scoperti, siamo incalzati; o fuggir subito o darsi ancora un eterno addio… finché è tempo. Uno stuolo d’armati si avvicina; ho distinto il brillar degli elmi tra il fosco della boscaglia.
“ — Fuggiamo, fuggiamo, ripetè Adelassia; ma poi, guardandosi all’intorno con occhio costernato: — Mio Dio! le mura del convento sono troppo alte, e non posso infrangere colle mie mani queste sbarre! Fuggi, salvati… addio per sempre!
“ — Dio eterno! esclamò Allerame, tentando d’arrampicarsi per la muraglia; ma il macigno era piú duro delle sue unghie che si dilaniavano in quelli sforzi disperati, in quel momento decisivo.
“Adelassia, cui subito occorse altro mezzo di salute:
“ — Va, soggiungeva, aspettami alla porta del cimitero.
“Ed amendue dileguavano rapidamente, mentre la pesta degli armati s’avvicinava.
VII
“Allerame non si era ingannato; l’uomo, scoperto in atto di espiarli, precedea uno stuolo di armigeri che Ottone, insospettito, avea mandati secretamente per cogliere i due amanti, e scoprire finalmente chi fosse il cavaliero per cui Adelassia avea rifiutate le conchiuse nozze. Ma il ferro d’Allerame precluse la strada al ritorno della spia; e per toglier di mezzo ogni indizio, slanciò il cadavere sanguinoso nel fondo del torrente, donde sorgerà al giorno del Giudizio per dirci precisamente da quanta altezza sia caduto. I compagni, ignari di quell’evento, si avanzano sospettosi, sperando ad ogni passo di incontrarlo; perciò i momenti incalzavano; ogni minuto potea decidere per sempre il destino dei due amanti.
“Allerame colla spada impugnata ed in orecchio stava alla porta del cimitero, protetto dall’ombra dei cipressi, che parea raddoppiasse il buio della notte. Getta lo sguardo traverso il buco del serrame, e non vede che la folta erba ondeggiar lentamente sui bianchi sepulcretti delle monache.
“Quasi per incanto s’aprì la porta; e una figura femminile, avvolta tutta in un funereo lenzuolo, a guisa di fantasma, cinto il capo di una corona di cui si ornavano le monache sulla bara, e con sembianza che parea piú alta del naturale, stette innanzi al Cavaliero che, attonito e quasi impaurito a quello spettacolo, temeva di trasognare. Ma quella, stringendolo risoluta per la mano:
“ — Affrettiamoci, gli disse sommessamente; e veduto a poca distanza il cavallo dell’Allerame, legato al tronco d’un albero, di subito gli fu in groppa, ed avvinghiandosi al Cavaliero, fuggirono e dileguaronsi ad ogni sguardo, a guisa di quelle misteriose apparizioni di cui tanto si dilettano le ballate germaniche.
“I cavalieri, inviati da Ottone, che già stavano a pochi passi per arrestarli, vista aperta la porta del cimitero e uscirne fuori quel fantasma, colti da terrore superstizioso, non ebbero animo d’inseguirli. Al domani raccontarono che un cavallo piú nero della notte, piú impetuoso della bufera, cogli occhi e colle nari spiranti fiamme, avea trasportato, chi sa dove, un cavaliero tutto coperto d’armi nere, ed una giovane, avvolta anch’essa in nero drappo, con una corona sul capo, forse uscita dal sepolcro, dove, per qualche grande arcano, non potea riposare.
“Ma Ottone, indispettito piú che mai a questa novella, spacciò corrieri in tutte le parti del suo impero, acciò si arrestassero, ovunque fossero i due fuggitivi. Oh in quale stato rivedrà un giorno la sua amata figliuola!
VIII
“Le ombre e le nebbie della notte cominciavano a dileguare, a rincacciarsi nelle spelonche, nelle voragini, e la bellezza maestosa e severa delle foreste settentrionali si rallegrava amabilmente nella luce e nella rugiada del mattino. Il levarsi dell’aurora è veramente una festa per l’universo; non vi è cuore d’infelice, tanto oppresso dalla sventura, sia inchiodato in un letto, sia gemente nel profondo d’una carcere, che non senta la benefica influenza di quest’ora, il tepore di questo raggio somigliante alla giovinezza della vita umana.
“Allerame gettò uno sguardo sopra la fronte mezzo velata della donzella, che, galoppando continuamente, sostenea tra le braccia, e con un palpito non mai provato, riconobbe le sembianze della sua Adelassia. La giovanetta, stanca del cammino e dall’affanno, si era a poco a poco addormentata sul petto del suo amante; le era parso lungamente, nella foga del cavallo, che l’orizzonte stellato, le alte cime delle quercie andassero travolte in giro, ed una voluttà vaga, indefinita, come di chi in sogno s’argomenta di volare, si era impossessata de’ suoi sensi. Allerame contemplò a lungo, con un’estasi malinconica, il volto scolorito della fanciulla, e le labbra di lei, donde usciva un respiro fievolissimo; tremò di quell’imagine di morte, fatta piú somigliante dalla foggia del vestire, né potendo piú resistere alla propria imaginazione:
“ — Come mai, diletta mia, le domandò Allerame riscuotendola dolcemente, come mai questo nero lenzuolo e questo serto avvizzito di bianche rose?
“E quella, aprendo gli occhi, di se stessa maravigliando, e della scena boschereccia che la circondava:
“ — Non impaurirti, rispondeva sorridendo, poiché anch’essa internamente rabbrividiva al colore ed all’ufficio del suo panno. Mentre mi teneva già sicura della fuga e presso alla porta che mette nel cimitero, vidi brillar lontano, nel fondo del corridoio, un lumicino, e fraintesi alcune voci di persone che si avvicinavano, forse delle monache chiamate a coro. Un passo ancora potea tradirmi; mi volsi addietro, salii nuovamente quelle cupe gradinate, mi ridussi nella sala, nel cui mezzo posava esposta l’estinta giovanetta, e – Dio mi perdoni l’atto profano di aver portata questa mano sulla fronte immacolata della sua sposa! – la spogliai di questa corona, di questo drappo, e fingendo atti e portamento di fantasma, attraversai corridoi, scesi gradinate, non vista od evitata per paura, e riuscii a penetrare nel cimitero. Tremava io stessa di rimirarmi; ma tu, Allerame! tu m’aspettavi!
“ — Affè, riprese il giovane sorridendo, rimasi anch’io attonito e quasi impietrato a questa nuova foggia di vestire; ma via, getta quei fiori sepolcrali e quel manto che fa ribrezzo; d’altri fiori, Adelassia mia, fiori rugiadosi, convenienti alla tua bellezza, all’amor nostro, al nostro avvenire, cingerò io la tua fronte.
“Intanto il giorno, vieppiú nitido e sorridente, circondava di luce e
IX
Non dimenticare, ne’ tuoi racconti diretti
al popolo, di estirparne, per quanto puoi,
dalle menti i pregiudizii e le paure, che
sono frutto dell’ignoranza.
ANOM.
Qui un impeto di vento urtò per modo la porticina del casolare, che il vecchio interruppe il suo discorso; e i due fanciulli, pieni ancora dell’idea del fantasma, si strinsero tra le ginocchia della madre. Il cane fiutò alla porta e si ridusse di bel nuovo al suo posto.
— Ma questa scappata della monaca col drappo sepulcrale, stava per dire al mio novelliere, non è forse un’invenzione da romanzo, per amore del maraviglioso, o per trar la monaca di convento colla piú spiccia? Ma poscia riflettendo che in racconti popolari, non si esige l’acutezza della storia, e che d’altronde questa storia, voluta maestra della vita, si adultera bruttamente per altri riguardi meno scusabili che non sia l’amore del maraviglioso, naturalissimo nelle fantasie del popolo, mi contentai di osservare, interrompendo quel silenzio di paura:
— Colla caduta delle parrucche, caddero, la Dio mercè, tante streghe, tanti folletti che popolavano le vecchie torri dei castellani e dei monasteri; e quelle compagnie d’ombre e di streghe si rifugiarono sulle scene teatrali, dove, non sapendo o non potendo far di meglio, ci dilettiamo di fanciullaggini, proprie dell’infanzia dello spirito umano.
Ma la buona vecchiarella, impinzita di pregiudizii, come sono pur troppo la maggior parte de’ contadini in que’ villaggi, dove, giova sperarlo, penetreranno un giorno le scuole infantili, guardandosi all’intorno con una specie di sospetto:
— Eppure, mi rispondeva, compaiono talvolta i morti per avvisare i vivi che abbisognano di preghiere, o per accennar loro dove hanno sotterrato qualche prezioso tesoro. Io stessa vidi piú volte nel cimitero del nostro villaggio alcune fiammelle serpeggiar di notte all’intorno delle croci e dei sepolcri; e talvolta ne udimmo il gemito simile al rantolo d’un moribondo.
— Quelle fiammelle, buona donna, non sono che esalazioni de’ cadaveri putrefatti, fiammelle innocentissime, dette fuochi fatui, che troverete eziando sopra i laghi e tra le paludi, e che non debbono arrecar paura, perché fenomeni in tutto naturali.
— Eppure, soggiungea la vecchia crollando il capo, la buona Lisa ne morì di spavento, poiché ebbe ardire di penetrar sola e di notte nel cimitero, risoluta d’interrogare quelle fiammelle sull’anima del suo innamorato! Dicesi che il contatto di quelle strisce arda come il fulmine, e privi della ragione chiunque ardisca d’avvicinarsi.
Mentre avrei bramato di combattere, forse inutilmente, questi errori popolari, il buon vecchio riprese il filo del suo racconto.
X
Come raccende il gusto il mutar esca,
Cosí mi par che la mia storia, quando
Or qua or la piú variata sia,
Meno a chi l’udirà noiosa sia.
ARIOSTO.
“Fuggirono tutto il giorno; ma quando le alte cime delle piante proiettavano piú lunghe e piú cupe le ombre loro, i due pellegrini bussarono alla porta di una casuccia, accanto alle rovine d’una chiesa, che sorgeano fantastiche, colossali, illuminate malinconicamente dal tramonto. Tutto era silenzio, il silenzio religioso delle rovine, interrotto leggermente dalla brezza vespertina e dal sussurro d’una fontana che zampillava da una grotta vestita d’edera e ombreggiata dalla vôlta fronzuta degli alberi. Traendosi per mano passo passo il cavallo, si avvicinavano lentamente, ammirando il luogo, e pieni il cuore d’una dolce mestizia che spirava da quel silenzio, da quei recessi boscherecci, da quella pace universale, quando una voce melodiosa, un canto sacro uscì di mezzo a quelle rovine e indicò loro l’abitazione d’un pio romito.
“Ed essi si avvicinarono.
“Il solitario, la cui voce si innalzava cosí armoniosa dagli avanzi di quella chiesa, venne ad accogliere i due pellegrini; offrì loro, qualunque fossero, il povero suo abituro, poco cibo che tenea in serbo, e quindi li introdusse in una cappelletta, illuminata dal fioco lume d’una lampada, per ivi compiere le sue preghiere della sera. Allerame non potea saziarsi di contemplar le sembianze di quell’uomo, che gli svegliavano nella memoria un’altra imagine, ma in aspetto ed abito ben diverso. Quella fronte cosí pallida, cosí composta, solcata di profonde rughe, che il tempo solo non è capace d’imprimere, lampeggiava tratto tratto d’una fierezza militare, che gli anni, le vigilie, i patimenti non cancellarono; avresti detto che la era usata piú all’elmetto del soldato che al cappuccio del monaco. Tanto è vero che il leone, sia pur vinto, schiomato dagli anni, invilito dalla prigionia, non si spoglia mai interamente del superbo suo carattere, né perde il fuoco interno delle pupille che gli è naturale. Ma quando il monaco, finita la preghiera, si levò in piedi, e, intendendo lo sguardo in volto del giovanetto, drizzò tutta la sua persona nell’altezza naturale, inarcando le ciglia per lo stupore, parve poco meno di gigante; le sue guancie estenuate dal digiuno e dalle fatiche, si imporporarono, i suoi occhi si riaccesero d’una vita che gli era da gran tempo concentrata nel cuore; stette attonito a contemplarlo, e poi stringendo con piglio soldatesco la destra dell’ospite:
“ — Sei tu Allerame? gli domandava.
“E quegli, riconoscendolo, gli si abbandonò tra le braccia e nascose il volto, con una dolce effusione di lacrime, sul petto del solitario. Adelassia, piena di meraviglia e di commozione, li contemplava silenziosamente…
“Lo sguardo d’Allerame non si era ingannato. Nel pio romito che gli offria scampo da’ suoi nemici, riconobbe Igildo, prode capitano che lo avea armato cavaliere la vigilia d’una battaglia. Esercitato in lunghe guerre sotto le insegne d’Ottone, piena la mente di quelle idee generose che sono la gloria, il tormento della giovinezza e talvolta il disinganno della virilità immatura, mal corrisposto, mal uso a gare cortigianesche, avea abbandonato sdegnosamente il mestiero dell’armi. Il mondo avea fallito a’ suoi disegni; ma la sua anima, superstite al disinganno, non avea rinunciato alle sublimi sue speranze, a’ suoi istinti generosi; e quando si tolse disdegnosa da ogni umano desiderare, si slanciò nel regno immenso della religione, perché questa gli offria ancora alte contemplazioni, affetti eterni, glorie immortali. Uomini di simil tempra, o cadono sulla breccia o scompaiono tra l’ombre d’un monastero; la società è indegna di loro.
“I nostri tre personaggi, radunati per vie cosí strane sotto quel tetto, tra quelle rovine, non erano in condizione meno strana l’uno riguardo all’altro. Allerame espose candidamente al solitario la storia de’ suoi amori; i motivi e i modi della fuga, il nome della fanciulla, le speranze del futuro; e mentre il cuore del soldato palpitava ancora sotto il cilicio del monaco ai varii e pietosi casi, Adelassia, già cosí ardita, cosí risoluta, abbassava le palpebre, ora arrossendo ed ora scolorandosi, quasi fosse colpevole.
“Ma Igildo racconsolandoli e traendoli dolcemente per mano dinanzi all’altare:
“ — Dio santifichi ed assicuri i vostri affetti! — Prometti tu, Allerame, nelle mani di questo vecchio, che un giorno ti armò cavaliere sul campo dell’onore, prometti tu dinanzi al re dei re, di serbar fede a questa giovane, d’onorarla, di proteggerla come tua sposa?
“E poiché entrambi pronunziarono, con voce commossa ma ferma, il tremendo ed augusto giuramento:
“ — Ora, soggiungea il sacerdote, non v’ha forza d’imperatore che possa rompere il suggello della vostra unione, poiché il dito dell’Onnipotente l’ha chiuso e benedetto.
“Il raggio della luna, attraversando le rovine dell’edifizio, scolorava il barlume della fiaccola e circondava di mistero la santità del luogo e del rito. Le aure della notte sussurravano dolcemente tra le frondi delle piante che, inargentate dalla luna, piegavano, ondeggiando, le loro cime, e tutto parea armonizzare colla austera e solenne gioia dei tre personaggi. Allerame, sempre inginocchiato, dopo alcuni momenti di muta ma ardentissima preghiera, gettò uno sguardo sul volto piamente raccolto di Adelassia, e pensando alla sublime devozione, all’amore, al coraggio di quell’inerme giovanetta, ai disagi del cammino, all’amarezza dell’esiglio che sfidava per lui solo, la prese di bel nuovo per mano, e ripetè fra se stesso il già fatto giuramento.
“Raccogliendosi quindi col solitario a tranquilli ragionari, Igildo lo interrogava avidamente sugli antichi compagni d’armi; e le memorie dei giorni andati si riaccendevano nella sua mente colorate, direi quasi, da quella luce misteriosa che rende cosí caro, cosí mesto il tramontare del sole.
“ — Che addivenne di Gherardo?
“ — Morto sul campo di battaglia.
“ — E Adalberto, quel soldato non men leggiadro che valoroso?
“ — Si ritrasse dalla corte e vive solo in esiglio volontario.
“ — E Siginaldo, quell’anima integra e generosa, cosí prodigo del proprio sangue, e d’utili e coraggiosi avvertimenti al suo principe?
“ — Fu calunniato, e cadde vittima d’un’ingiustizia.
“ — Oh i compagni de’ miei anni giovanili! esclamò il vecchio con dolorosa esaltazione; oh le notti vegliate insieme sotto la tenda tra l’esultanza della battaglia promessa per il domani! e le speranze dell’avvenire e la fidanza di se stesso! Se tu sapessi, o giovanetto, come il cuore d’un vegliardo può ancora palpitare d’una vita che piú non è sua! Ma tutto ha ormai percorso il proprio cerchio, e tutto è dimenticato… tranne da questo cuore che Dio solo può consolare! Oh qui, qui dentro vivono gli amici miei, sempre giovani, intatti dalle sventure che gli divorarono.
“ — Ma voi, perché mai vi ritiraste, mentre il valor vostro, la vostra fortuna vi avrebbe aperto…
“ — Una vita d’angustie e forse anche di rimorso; l’interruppe il vecchio, riaccendendosi e dimenticando per un momento quel saio che lo domava. La viltà e l’astuzia prevalevano alla franchezza ed al coraggio; io piú non era, in tempo di pace, che un vecchio arnese di guerra. Dovea concorrere con uno stuolo di codardi – Dio mi perdoni quest’invincibile abborrimento che ebbi sempre per i vili! – assiepato da loro, non potea farmi largo colla mia spada; capitolar con me stesso e con quelli, forse era utile, ma insopportabile; piú potente d’ogni riguardo, piú potente della mia ragione, v’ha una voce nel fondo al cuore che ti comanda, e a cui t’è forza d’ubbidire, sotto pena di spregiar te medesimo; poiché tutte le corone della terra non bastano a comprar l’anima che Dio t’ha data… allora me ne ritrassi, e trovai ricovero in questi panni e in questa pia solitudine.
“Portò la destra sopra la fronte, e sentendola denudata de’ suoi capelli, rientrò in se stesso e si ricompose. Narrò quindi le sue lunghe pellegrinazioni in Terrasanta, l’orgoglio brutale degli Infedeli e i patimenti de’ Cristiani; e gli doleva sino alle viscere, che gli fosse tolto d’impugnare la spada ancora una volta, e morire da soldato. In que’ tempi l’Europa fremea d’ira e di compassione ai racconti dei pellegrini che tornavano di Palestina, e si preparava a quelle Crociate, magnifica epopea delle età moderne, che di tanto aiutarono l’incivilimento europeo. Il vecchio monaco preludiava alle Crociate.
“Igildo togliendo l’abito di pellegrino che avea portato di Terrasanta ne vestì Allerame, per sottrarlo piú facilmente alle insidie de’ suoi nemici; Adelassia indossò anch’essa poveri panni e, guidati dal solitario, si rimisero in cammino un’ora prima dell’albeggiare.
“Il cuore del veterano, alla vista del giovanetto, ai nomi degli antichi suoi compagni, s’era rannodato, per cosí esprimerci, alla famiglia dei viventi, riscosso a dolci affetti che credea morti da lungo tempo. Ora, nel punto d’accomiatarsi, ricadea in un vuoto non previsto, e camminava a capo basso, raccolto e taciturno. Sentia pur troppo che non gli avrebbe mai piú riveduti; e questo era l’ultimo anello della sua vita che si spezzava. Ma quando i due giovanetti si inginocchiarono a’ piedi di lui, pregandolo di benedirli:
“ — Finché questa mano omai tremolante, diss’egli con accento di profonda commozione, potrà innalzar l’ostia espiatrice, la mia benedizione saprà raggiungervi in qualunque terra, in qualunque destino.
“E si separarono, ma non per sempre, come il monaco si argomentava.
“Igildo, tornato alla sua abitazione, la trovò inondata da un’orda di cavalieri, correnti sulle traccie dei due fuggitivi; e quella schiera, rinfrescati appena i cavalli, si cacciava a tutto corso per la foresta, mentre il vecchio, trepidante di paura non mai provata, si raccoglieva nel santuario.
XI
Non copre abito vil la nobil luce
E quanto è in lei d’altero e di gentile,
E fuor la maestà regia traluce
Per gli atti ancor dell’esercizio umile.
TASSO, Ger.
“Volgea appunto questa stagione, ma la brezza già pungente annunziava un duro inverno; e qui giungevano, verso sera, un giovanetto ed una giovinetta, affranti amendue dal cammino, ed in vista di pellegrini. Il giovane, alto e leggiadro della persona, sostenea al braccio la sua compagna, e avea nel volto e nel portamento tale una dignità e gentilezza che, a primo sguardo, ti si palesava d’illustre grado. La giovanetta, grave e serena in volto, dagli occhi azzurri, dalla bionda capigliatura, ritraeva il tipo della bellezza germanica, i modi e l’incedere di persona non usa a premere col piede delicato le zolle dei nostri campi.
“E questi erano i nostri due fuggitivi, Adelassia ed Allerame, scampati alle insidie de’ loro persecutori, ai pericoli del mare, ai travagli di lunga via.
“Cominciano ora una nuova vita, diversa in tutto dall’antica per affetti e per abitudini. Allerame dovea sostenere la propria e l’altrui esistenza col sudore della sua fronte, colla fatica delle sue braccia; e Adelassia, sotto il tetto d’un rustico abituro, avea dimenticate le splendide sale, le dame, i cavalieri della reggia paterna. Un solo affetto riempiva in quelle due anime il vuoto immenso, che le mutate sorti aveano aperto nel loro modo di vivere. Al chiudersi della giornata, mentre gli allegri contadini discendevano dalle colline circostanti per raccogliersi nella chiesuola ai devoti tocchi dell’Ave Maria, traeano anch’essi, i nostri sposi, colla buona gente di villaggio, e amavano unirsi alla preghiera di quelle anime semplici che venivano a ringraziare Dio del pane quotidiano onestamente guadagnato. Allerame, lo splendido cavaliero ne’ tornei, ne’ conviti, non è meglio d’un legnaiuolo che vive coll’opera delle sue mani, compagno del contadino e dell’umile vecchiarella che Dio accoglie egualmente nel suo tempio. La buona Adelassia indossava anch’essa nei giorni di festa il miglior abito che tenesse in serbo, raccoglieva i fiori piú odorosi, e se talvolta ricordava le purpuree vesti, le gemme preziose di cui s’era spogliata, non era che per rallegrarsi delle sue spoglie di contadina. — Questa chiesuola, diceva ella sommessamente al suo compagno, non è la superba cattedrale di Vienna; ma ritrae meglio il soave carattere del cristianesimo, e qui si prega con piú fervore. Questi buoni contadini sono nostri fratelli, e noi pure siamo poveri. O mio Allerame, quante virtù ho conosciuto tra di loro, simili a que’ fiori balsamici che olezzano solamente nel secreto dei boschi!
“E venne un giorno in cui l’umile abituro degli sposi s’ornò a festa. Non si spacciarono corrieri per tutte le parti dell’impero, non trassero ambasciatori per festeggiare il nuovo nato; ma accorsero pochi amici e il buon curato; e la gioia fu solennne, augusta, serena, santificata dalla religione. Adelassia sorrise, lacrimando sul pargoletto, e volgendosi ad Allerame che parea assorto in una triste riflessione:
“ — Allerame, gli diceva ella con uno sguardo di bontà sublime, è vero, che il nostro bambino non è ravvolto in fasce di porpora; non sarà che il figliuolo d’un povero contadino… Eppure, soggiungeva, chiedendo di spargergli in fronte ella stessa le sante acque, — posso aprirgli il regno de’ cieli, se quello della terra non è piú il nostro; oh è pur esso un angioletto, l’erede del re dei re! — E il volto di quella donna si illuminava e pascea lo sguardo nelle sembianze del suo bambino con quel sorriso ineffabile, donde il pargoletto sa riconoscere la propria madre.
“Lasciamo ora che la buona famigliuola passi tranquilli e oscuri giorni nel suo villereccio abituro; le esistenze piú fortunate non sono forse le piú modeste, le piú secrete?
XII
“Ivi ad alcuni anni, narra la tradizione, si guerreggiò ferocemente tra i Liguri e i Saraceni, presso l’isola di Sardegna. I Genovesi, odiati piú che altri mai dai Barbareschi, poiché stavano a baluardo della Cristianità, tenendo poco sicure dagli oltraggi di que’ ladroni le ceneri di S. Siro che si trovavano nella chiesa dei Ss. Apostoli fuori le mura, le trasportarono in San Lorenzonota 2. Ma allora, prosegue la tradizione, e il Foglietta la conferma, una fontana vicina al porto del Molo, in una piccola strada che dicevasi Fontanella ed ora Bordigotto, scaturì sangue invece d’acqua per un’intera giornatanota 3. Le menti inorridirono a quello strano spettacolo, e si tenne per foriero di pubblica calamità. Ed ecco che una notte, mentre i marinai Liguri stavano lontani sull’armata, i Mori irruppero improvvisamente dentro le mura di Genova; e siccome era deserta de’ suoi difensori, orribilmente la devastarono. Le infami navi, sopraccariche di preda e di prigionieri, già stavano alla vista dei lidi d’Africa, quando i Genovesi, tornati in patria, e trovato quel gran lutto, rimbarcatisi a tutta furia, raggiunsero i barbareschi e ne menarono vendetta ferocissima. E poc’anzi i nemici del nome cristiano, occupate le due estremità d’Italia, irrumpevano persino a Roma, e papa Giovanni VIII scriveva all’imperatore Carlo il Calvo: — La campagna è interamente rovinata da questi nemici di Dio. Passano essi alla sfuggita il fiume che viene da Tivoli a Roma, e saccheggiano la Sabina e i luoghi vicini… Hanno distrutto le chiese e gli altari; menati via schiavi, ed uccisi con varii generi di morti i sacerdoti e le religiose, e fatto perire tutto il popolo all’intorno. — Né meno terribile era divenuta la potenza de’ Musulmani a Frassineto, che minacciava d’allargarsi maggiormente verso Liguria.
“Chiamato da tanti mali, Ottone imperatore calò in Italia: e nelle sue lunghe pellegrinazioni, tra il fragore degli eserciti e i disegni della politica, il pensiero della smarrita sua figliuola l’avea pur sempre accompagnato.
“Adelassia era già madre di parecchi figli quando ebbe avviso della calata di suo padre in Italia. Potesse almeno, non vista, rivederlo, udire almeno il linguaggio della sua patria! Ottone, abbassando i feudatarii, avea dato mano all’incremento dei Comuni; e perciò i popoli lo proseguivano con rispetto e con gratitudine. Adelassia se ne inorgogliva nel secreto del suo cuore, e pregava Iddio consolasse la vecchiaia di suo padre, che l’affetto d’una figliuola non potea piú rallegrare.
“Era una sera di inverno. Il vento fischiava lugubremente tra gli abeti della foresta, ed un povero lumicino rischiarava debolmente l’abituro d’Allerame. Adelassia sedea pensosa e lavorava; Allerame, tratto tratto, sogguardava quasi di furto il volto pallido, macilento, ma sereno della sua sposa, i meschini arredi della sua casuccia e ratteneva a forza un sospiro.
“ — Adelassia, cominciò finalmente il Cavaliero con un misto di tenerezza e di compassione: tuo padre, l’imperatore, non saprà certo ritrovarti in queste spoglie e in questo rustico casolare…
Adelassia gettò un sospiro al nome di suo padre; ma temendo che suo marito potesse averlo in mala parte, interpetrandolo diversamente, s’affrettò a rispondere:
“ — Io sono orgogliosa e lieta di queste spoglie, poiché non v’ha stato cosí povero, che ci tolga la coscienza di noi stessi, e l’essere virtuosi e felici. Se io dovessi ricominciare il mio cammino, ti porgerei un’altra volta questa mia destra, e tu Allerame – non è egli vero? – l’accetteresti un’altra volta come quella della tua sposa; e Adelassia ti seguirebbe, felice dell’amor tuo, superba della sua povertà
“ — Sei tu pur sempre la mia Adelassia, esclamò Allerame con entusiasmo, superiore sempre ad ogni grado che il mondo ti possa offrire! — Amo anch’io la mia povertà, poiché lo splendore della fortuna non mi avrebbe rivelato mai, quanto è veramente, la gagliardia e l’altezza della tua anima, cui nulla potrebbe aggiungere il pregio d’una corona. Allerame, possedendo l’amor tuo, non ha piú che invidiare al mondo intero; viva semplice contadino, e muoia dimenticato! ma il nostro Alfredo, il nostro primogenito, cosí nobile, cosí leggiadro, cosí pieno di alti spiriti, non sarà anch’egli che un contadino? Questo pensiero – lo confesso – è maggiore del mio coraggio.
“E cosí dicendo, volgeva lo sguardo ad un letticciuolo, ove posava tranquillamente il suo primogenito, dopo aver passato un giorno intero in assidua fatica, per aiutare anch’egli coll’opera delle sue braccia l’esistenza della famigliuola.
“ — E l’esercito, rispose pronta Adelassia, non apre forse a chicchessia il cammino della gloria? un asilo sempre nobile alla virtù ed al coraggio? Oh quando vedrò un elmetto sulla fronte cosí leggiadra, cosí vivace del mio primogenito, — va! — saprò dirgli senza piangere, — la tua carriera è quella dell’onore, e vestito di queste spoglie, a difesa della tua patria, soldato e principe sono una cosa!
“ — Il nostro Arrigo sarà soldato! — E la fronte di Allerame ringiovaniva, il suo sguardo si riaccendeva, come quello dell’aquila, che dalle sbarre della sua gabbia di ferro travede per un momento il sereno dell’orizzonte e la cima delle montagne; — ed io potrò rimettergli la mia spada, e dirgli ancora: va, rivendica la fama di tuo padre, dimostra l’altezza de’ tuoi nascimenti coll’opere del tuo braccio: sii grande, e generoso! — E il vecchio soldato ruppe in lacrime, e si nascose la fronte tra le mani.
“Trasse quindi da un ripostiglio una ricca spada, che Adelassia gli avea rimessa, come premio della vittoria d’un torneo, e che egli avea sempre conservata con un rispetto, direi quasi, religioso. Rimirandola ora dopo tanti anni, in condizione cosí diversa, e percorrendo col lampo della memoria le vicende della sua vita:
“ — Questa spada, soggiungeva, la ricevetti dalle tue mani, o Adelassia, ed era cavaliero, e tu bellissima ed invidiata sopra tutte le dame della corte imperiale! Ma l’acciaio di questa spada, ravvolta in rozzi cenci, non scemò di lucentezza, come l’anima mia non scemò punto dell’amor suo, della sua fede, del suo coraggio. Passi ora in altre mani, e sia l’unica eredità del figliuol nostro! Sì! proseguiva orgogliosamente, giovane, d’alti spiriti e con una spada, non v’ha grado cosí luminoso della fortuna, che non possa conseguire col suo valore.
“E al domani, il giovane Arrigo, benedetto dai parenti, superbo della spada di suo padre, colla nobile confidenza della giovinezza, abbandonava non senza lacrime il povero casolare, dove era nato, e s’avviava all’esercito di Ottone, per domandargli ciò che l’esercito accorda sempre ai generosi, asilo e gloria”.
XIII
S’incontrano nella vita degli uomini avventure cosí strane, che in un romanzo, ti parebbero inverosimili; eppure non v’ha fola da romanzo che sia piú strana, piú fantastica di certi fatti reali. I Pagani dicean fato questa forza che soprastava al loro intendimento; e questo fato, divinità cieca, sorda, inesorabile, o per dir meglio, negativa, signoreggiava uomini e dei. Piú tardi, la barbarie o la corruttela, l’appellarono destinazione, e chi rifiutò culto ed omaggio ad un Essere giusto, intelligente, attribuì la divinazione perfino alle cicogne, alle cornacchie, ed ebbe paura dei folletti e delle streghe. I Cristiani, indirizzando ad una gran meta l’intelligenza umana, rigettando ogni idea brutale, materiale, donde nascono tiranni e schiavi senza coscienza, senza pudore, adorarono nelle catastrofi piú singolari il dito della Providenza, e l’uomo potè umiliarsi senza abbassarsi.
E il dito della Provvidenza dovea riunire i personaggi del nostro racconto per le vie piú strane, piú inaspettate, e ricomporre affetti e cose nell’armonia primitiva.
“Dopo una gran battaglia che si protrasse a tarda notte, continua la tradizione, un vecchio monaco, avvolto nel bruno suo mantello, sostenendo colla destra una lanterna, il cui lume ripercuoteva sinistramente nei laghi di sangue, in mille strani aspetti d’agonia e di morte, s’avanzava a passo tardo, vaccillante; e qui porgea conforti ad un moribondo, là refrigerio e medicina ad un ferito. Il fioco raggio della lanterna battè a caso sul volto d’un giovanetto, giacente a terra, ma sollevato ancora sul gomito, in atto di frenare il sangue da una ferita a sommo il petto. Il monaco s’inginocchiò a fianco del soldato, gli fasciò la ferita, e sostenendolo dolcemente, lo trasse in disparte presso una fonte; ne attinse acqua in un elmetto, e l’appressò alle labbra scolorite del giovane sconosciuto. Intanto s’udia lontano l’ululato dei cani, il nitrito lamentevole dei cavalli sui cadaveri dei cavalieri, l’urlo famelico dei lupi calati al piano, e lo strillo degli uccelli carnivori. Il cuore del vecchio rabbrividiva a quello scempio, a quel ludibrio di umane membra; era pallido, ma non di paura, nè perché nuovo gli riuscisse quell’orrendo spettacolo. Accostò il lume alla faccia del moribondo; e quelle forme cosí giovanili, quella bellezza quasi donnesca, colpirono il romito di maraviglia e gli richiamarono un’antica imagine, l’imagine d’Adelassia; guardò la spada e gli parve di riconoscerla, gli parve d’averla già veduta al fianco d’Allerame nel momento dell’ultimo suo congedo.
“Il vecchio monaco era Igildo, l’antico capitano d’Ottone, il solitario che avea dato ricovero ai due amanti fuggitivi. Udendo che l’esercito germanico scendea in Italia, non seppe reggere al desiderio di seguire le antiche sue bandiere; e il giovinetto, che Igildo soccorreva in modo cosí prodigioso, era Arrigo, il primogenito d’Adelassia, che in quella giornata, nella sua prima battaglia, avea fatto maravigliare col suo coraggio i soldati i piú audaci e provetti. Figuratevi ora quel vecchio capitano, entusiasta pur sempre sotto i panni di monaco, della gloria militare, che salva il primogenito della figliuola del suo imperatore e di Allerame, che egli armò cavaliero, e che amò sempre colla tenerezza d’un padre.
“Dopo alcune domande e risposte, concitate, concludenti, per cui non ebbe piú dubbio sull’essere del giovanetto, Igildo gli chiese nuove de’ suoi genitori, del modo del loro vivere, del luogo in cui si erano ritirati; e fermò in animo di presentarsi all’imperatore, chieder grazia per i due fuggitivi, a titolo degli antichi suoi servizii, e di quelli dell’eroico giovanetto, che avea contribuito gagliardamente alla vittoria della giornata.
“Di lì a pochi giorni, non sí tosto Arrigo potè reggersi e camminare, il vecchio Igildo, s’avviava seco lui alla tenda dell’imperatore, e fatto ristare il suo compagno distante alcuni passi, si avanzò solo, e chiese alla guardia d’essere ammesso.
“Il monaco fu introdotto, e rimase faccia a faccia coll’imperatore, il quale, deposto l’elmo, sorreggevasi la fronte chiuso ne’ suoi pensieri, in uno di que’ momenti, in cui, cessato il fragore delle armi, spenta l’ebbrezza della vittoria, e allontanati i cortigiani, sentìa anch’egli d’esser uomo, povero ed infelice nella sua clamide d’imperatore.
“Amendue si guardarono senza far motto, soggiogati da un’antica reminiscenza. Quella fronte, quello sguardo acuto, scintillante del monaco non erano ignoti all’Imperatore; quelle forme austere e nobili le travedeva, quasi per sogno, tra la polvere delle battaglie, ai raggi d’un altro sole, il sole della giovinezza tramontato per amendue. Il monaco si fece avanti d’un passo, e guardandolo fissamente:
“ — Incanutimmo amendue, Sire, voi imperatore ed io monaco, e tra poco compariremo dinanzi ad un altro re.
“Queste parole, poco obbliganti per se medesime, furono pronunciate con un accento cosí solenne, con aspetto cosí umilmente altero, che Ottone, invece di indispettirsene, ne rimase soverchiato; e il monaco proseguiva:
“ — Altre volte questo petto vestì una corazza invece di questo saio, e ricevè nobili ferite in campo, a gloria e sostegno vostro; — e qui scoperse il petto, ed accennò ad una larga cicatrice che lo solcava profondamente. — Ma il vecchio capitano fu presto dimenticato; Igildo morì per voi da gran tempo.
“ — Igildo! proruppe Ottone, rannodando a quel nome i suoi pensieri, e levandosi da sedere con atto d’abbracciarlo; tu Igildo, l’antico capitano?
“Scomparve in quel punto ogni distinzione; l’imperatore e il vecchio monaco piú non erano che due antichi compagni d’armi, dal cuore aperto, dal piglio soldatesco.
“Dopo un colloquio caldo e confidente, il monaco si ricordò della sua missione, e volle tentar l’animo del sovrano.
“ — Imperatore! acquistaste potenza e gloria, beni sommi a giudizio umano; ma – permettete la domanda al vostro fedel servo, all’antico commilitone – siete voi felice? V’ha cosa che non dipende nè dalla gloria nè dalla potenza, e che Dio comparte anche all’infimo de’ mortali, la pace con se stesso. Ottone, amendue incanutimmo, vi ripeto; dormiremo amendue tra poco, voi in una splendida tomba imperiale, ed io, oscuro monaco, nel chiostro d’un convento; ma anche nella tomba imperiale non si riposa, se qualcuno piange al di fuori per colpa nostra, o se vi calammo con un rammarico inconsolato, forse anche con un… rimorso!…
“ — Di non averti rimeritato come certo avrei dovuto, rispose Ottone con un sospiro.
“ — No, imperatore; non chiesi nulla per il sangue che ho versato da questo petto; l’abito che indossai non ha invidia del vostro manto. Ma Adelassia, la vostra figlia, soggiunse il monaco, fulminando direttamente l’animo dell’Imperatore, dopo averlo disposto; Adelassia, la vostra figlia?…
“ — Dio eterno! proruppe Ottone a quelle parole, e sollevandosi da sedere. Adelassia! Sai tu ove sia Adelassia, la mia figliuola?
“E qui scomparve l’Imperatore; restò il padre, dalla canizie amareggiata, dal cuore sanguinoso per una ferita su cui gettava, alla vista dei popoli, il suo manto d’imperatore.
“ — O Adelassia! riprese quindi con voce lamentevole, abbandonandosi sopra la sedia e colla fronte tra le mani:
“ — Adelassia mi ha abbandonato! ed io purtroppo lo meritai.
“Il monaco, sempre ritto, imperturbabile, almeno in apparenza, contemplava la miseria umana sotto il fasto della grandezza.
“ — E se Adelassia fosse viva, ripigliava pacatamente, non abbandonando mai collo sguardo i moti dell’Imperatore:
“ — Se Adelassia ritornasse… se fosse madre d’illustre figliuolo… d’un soldato valoroso…
“ — Oh venga la mia figliuola, la mia Adelassia! Prima di morire…
“E mentre i singhiozzi e le lacrime interrompevano l’Imperatore, il monaco ritraea colla destra le cortine della tenda, ed accennava ad Arrigo d’avvicinarsi.
“ — Adelassia vive, e qui ai vostri piedi è suo figliuolo. —”
XIV
Han faeto un disnà ch ‘u l’e
Duou un’anno e un dì;
Se ti gh’ei ti gh’ea m’asci.
Hanno fatto un pranzo che
durò un anno e un giorno;
se ci eri tu, ci era anch’io.
È facile argomentare a che riuscisse questa catastrofe; l’epigrafe affatto popolare e tutta propria di questo racconto, ce ne avverte di per se stessa.
“Quando l’Imperatore ebbe forza di ricomporsi, sollevò da terra il giovanetto, e riconoscendo in lui le sembianze della smarrita sua figliuola, tanto pianta segretamente, non potea saziarsi di rimirarlo e di abbracciarlo. Spacciò quindi alla volta di Ferrannia, nunzii del suo perdono, il vecchio monaco, suo nipote e due scudieri, acciò ricondussero alla sua presenza Allerame ed Adelassia. Non descriveremo la scena commovente tra l’Imperatore, la sua famiglia e l’antico commilitone, quando dopo tanti anni, dopo tanti e varii casi si ricongiunsero; perché il cuore dei lettori potrà facilmente interpretarla.
“Si bandirono feste, tornei; e Adelassia, Allerame e il loro primogenito vi assistettero accanto all’Imperatore, vestiti anch’essi pomposamente con assise del loro grado. Ma la buona Adelassia, nella prospera sua fortuna, non ebbe cuore di abbandonare quel romitaggio che le avea dato ricovero in tempi calamitosi; ed allora l’imperatore la creò feudataria della contrada, dove ella visse ancora molti anni, in compagnia d’Allerame, non immemore degli antichi amici, ma cortese a tutti e benevola, come le antiche sue sventure e la sua grande anima le comandavano”.
— Epperciò noi, soggiunse il vecchio, noi poveri contadini ne veneriamo ancor la memoria, e preghiamo ogni anno per lei, al volgersi di questa stagione, come preghiamo pei nostri padri che la conobbero personalmente, e ne perpetuarono la tradizione presso questi umili focolari. —
— E sia benedetta la memoria di questa donna! dissi anch’io. Se le mura del suo castello fossero state un ripostiglio di rapine, una sede di tirannia, la mano de’ vostri padri le avrebbe distrutte con ferro e fuoco, e l’area della sua abitazione si terrebbe come luogo scomunicato. Ma Adelassia colla bontà dell’animo, co’ suoi benefizii e non coll’orgoglio dell’ignoranza, giustificò i favori della fortuna, e soprastò sempre coll’altezza morale ai varii casi della sua vita. Amò nei poveri vostri panni la virtù semplice, ignota agli uomini, forse anche a se medesima, esercitata nelle vigilie e nelle fatiche; nè temette di offendere la squisitezza de’ suoi nervi con inoltrare il piede, angiolo consolatore, sotto il tetto affumicato del contadino onesto e laborioso. Fu degna del vostro ossequio e piú ancora dell’amor vostro; nè voi falliste a questo debito di gratitudine, perché il povero non è ingrato.
E qui strinsi la mano al buon vecchierello, e vedendo queto il vento e il cielo rasserenato, uscii fuori dalla casuccia, coll’anima racconsolata delle tante bricconerie ed abbiettezze che il fasto e l’arroganza vorrebbero inorpellare.
Fine.
nota 1 – Alcuni vollero che Adelassia ed Allerame si rifuggiassero nelle colline del Monferrato; ma noi, senza contraddire nè approvare questa asserzione, possiamo addurre una serie di storici accreditati che stabiliscono la dimora dei nostri due personaggi nelle montagne della Liguria, alcuni in Alessi o Alassio, nome che dicono derivato da Adelassia, ed alcuni altri più comunemente, nel villaggio di Ferrannia, poche ore distante da Savona. Chiunque, si trarrà a visitare queste vallate, ne udrà il racconto dai contadini, e potrà leggere un’iscrizione che conservasi nell’abbadia di Ferrannia, dove si accenna ad una nuora di Adelassia che fu ivi sepolta. Il Monti, istoriografo della città di Savona, racconta distesamente questo fatto, ma in modo che rivela piuttosto la facoltà inventiva d’un romanziere, che la fedeltà e la critica d’uno storico; e perciò ci facemmo lecito di allontanarcene.
L’esimio cav. Davide Bertolotti, nel suo viaggio nella Liguria, stabilisce la dimora dei reali fuggitivi tra le colline di Alassio o Alessi, presso Lingueglia. — «L’origine di Alassio, dice egli, viene dal Giancardi e dall’Armanno attribuita alla figliuola di Ottone il Grande: cioè a quell’Alassia od Adelassia, celebre pe’ suoi amori e la sua fuga con Allerame, eroe del sangue di Vitichindo, o principe di stirpe italiana, o veramente avventuriere del decimo secolo, ma certo — progenitore della stirpe dei sette marchesi, a’ quali fu comune il nome del Vasto. — Il fatto che Allerame prendesse in moglie una figliuola d’Ottone I, sembra istorica verità. Ma i particolari de’ loro amori, della lor fuga, della oscura lor vita, e della loro riconciliazione coll’imperiale suocero e padre, hanno sí fatto color di romanzo, che i migliori critici ora consentono nel rigettarli del tutto». — Tuttavia ci sia permesso di notare che, attenendosi alla tradizione, i due fuggitivi passarono solamente per Alassio, e che la loro stabile abitazione fu in Ferrania. Ad ogni modo questa tradizione appartiene pur sempre alla Liguria.
«Molti favolosi racconti si spacciarono intorno ad Allerame. Le leggende dei chiostri ed i romanzi cavallereschi lo dicevano figliuolo abbandonato di un milite che, peregrinando insieme colla moglie per non so quale sua divozione, avevalo lasciato alla ventura. Cresciuto il garzone, e fattosi valente nelle armi e bello nelle maniere, aveva richiesto d’amore Alassia figliuola di Ottone, e questa avendogli compiaciuto, eransi insieme ridotti tra i monti d’Albenga. Colà avevano vissuto una vita tutta di quiete, ma stentatissima, cosicché il marito attendeva a vendere carbone, e la moglie faceva certi suoi lavorietti di ricamo. Per un giro di strani avvenimenti furono poscia scoperti e ricevuti novellamente in grazia dell’Imperatore: il genero allora ottenne dallo suocero l’investitura di vasti stati. Ma queste son fole, e per quanto la fantasia di raccoglitori di tradizioni popolari sia stata sollecitata dal racconto di simili casi, noi scorgeremo sempre in essi difetto di verità, e ci atterremo alla fede dei documenti che provano essere stato Allerame figliuolo del conte Guglielmo, possente barone in queste contrade, ed avere ricevuto dall’Imperatore la ricognizione del possesso legittimo de’ beni allodiali di cui era ricchissimo, colla giunta del titolo di marchese». Conte Federigo Sclopis, Dell’Antica Legislazione del Piemonte.
Agli autori citati dall’A. come parlanti delle avventure di Allerame, aggiungi il Loschi, Compendii storici; e l’Armanno, Lettere: ma specialmente il secondo, sì dove racconta che l’istoria della fondazione d’Alassio, sì dove si difende dalle critiche che gli furono mosse per quel racconto.
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nota 2 – Per piú d’un secolo Genova fu travagliata orrendamente dai Saraceni; Gerolamo Serra cosí ci descrive la tristissima condizione di que’ tempi: «Era appena innoltrato il nono secolo, quando i Normanni e i Saracini presero quasi a vicenda ad infestare il mare Mediterraneo e l’Italia. I primi entrarono nella Magra l’anno 860, credendo trovarsi nel Tevere, e saccheggiarono la nuova città di Luni. I secondi si posero nel vicin golfo di un placido mare, facendo un nido di pirati, e nella riviera occidentale s’impadronirono di Frassinato fra Monaco e Nizza, non lungi, oh quanto i tempi cangian le cose! dal gran trofeo di Augusto. Cosí avviluppata e stretta da due lati opposti, la Liguria non fu conquistata come dinanzi, ma cadde nondimeno in estrema miseria. Armati e piccoli legni scorrevano le sue riviere, tornando a’ loro ricoveri quand’erano inseguiti o sopraccarichi di preda. Poderosi navili impedivano ogni navigazione lontana, proteggevano ogni sbarco importante: case, chiese, famiglie, viandanti, terrieri, nient’era sicuro, e questa barbara rapina durò quasi cent’anni. Allora gli antichi monumenti, sottratti a’ Longobardi, furono annichilati; le vie rotte, le leggi dimentiche, e la maggior parte degli abitanti, non trovando piú sicurezza sulle amene rive del mare, si trasferirono ne’ luoghi piú aspri e piú atti a difesa. Di questa ritirata de’ Liguri alla montagna rimangono infino ad ora i segni. Sdrucite castella ingombrano i gioghi soprastanti al littorale, e i passi angusti che menano a quelle. Altrove le terre marine hanno negli stessi lor traffici e nelle coltivazioni un non so che di origine recente; e dove piú s’interna la valle o sale il monte, là comincia il borgo già ricco di privilegi, ma povero oggigiorno d’industria e di popolazione. Inoltre l’ecclesiastica gerarchia attribuisce alle pievi montane una costante giurisdizione sulle parrocchie marittime, ch’è indizio certo di anteriorità. Finalmente la volgar tradizione s’accorda con le vecchie leggende a raccontare che nelle parti piú scoscese e remote si seppellivano i corpi de’ cari parenti, e occultavansi le inargentate reliquie de’ Santi, lungi dal disprezzo e dall’avidità degl’infedeli. Nell’anno 877 il corpo di S. Romolo fu portato dalla villa Matusiana a Genova; e in Genova stessa le ceneri di S. Siro, predecessore di Romolo, si trasferirono dalla basilica de’ dodici Apostoli in quella di S. Lorenzo, come in parte meno esposta ai corsari. La popolazione eziandio ammucchiossi negl’interni quartieri della città sotto il riparo dell’antico castello; onde le strade al mar piú vicine rimasero vuote di abitatori, e diventarono col tempo piccoli campi, vigne, canneti, fossati; nomi che, rifatte di poi e ripopolate, conservano ancora. Tra Fasce e Cornua, due monti a levante, si trova un villaggio, e nel suo mezzo una cappella, con questa iscrizione a noi pervenuta mediante successivi ritocchi: Sancta Maria de Cesarego (cosí ha nome il villaggio) defende nos in bello; Santa Maria di Cesarego, difendeteci in questa guerra! Alla preghiera de’ montanari rispondeva col cuore l’intera nazione, ma non pigliava ardire. Sventurata! A’ suoi nepoti soltanto era serbato di rammentarsi che i Maccabei pregavan da santi e combattevano da lioni».
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nota 3 – L’egregio storico sopraccitato cosí racconta l’invasione e la rotta dei Saraceni:
«Già nello spazio di due anni (dal primo saccheggio dato alla città dai Mori) il piú delle case, delle torri, de’ templi era in istato; già comparivano le perdute ricchezze, e un’armata composta di piú compagnie minacciava i Saraceni che avevano messo piede in Corsica; quando un’altra selva di navi partita improvvisamente dalla Sicilia o dall’Africa, diè fondo presso a Genova, e atteso che il fiore degli abitanti era in sulle galee, entrò senza contrasto, prese le intere famiglie, distrusse quanto potè in pochi giorni e si allontanò. In questo mezzo i Genovesi ritornavano dalla Corsica, ove avevano occupato qualche castello de’ Mori. Ma nell’avvicinarsi al porto, non vedevano il lido gremito di gente, non udivano i soliti gridi di allegrezza; e le torri apparivano abbattute, e le case in rovina. Approdano, discendono ansiosi, e dai pochi che rimanevano ancora, intendono come i Saracini avevano la città espugnata, messala a sacco, e molti uomini uccisi; ma le giovani donne e i fanciulli piú dilicati erano strascinati al giogo degl’Infedeli. Fu subito deliberato di sarpare un’altra volta, riavere la miglior parte di se medesimi, o morire. Già l’isolotto dell’Asinara, sulle coste della Sardegna, è alla vista, vele saracine sembrano quelle; il vento, la velocità de’ remi, la smania d’esser subito alle mani han già divorato il cammino. La battaglia comincia, e dubbia non è; ché i nimici impediti dalla preda non fanno l’usitata difesa; quasi tutti son presi. Cosí variando fortuna le cose, i barbari in catene, e le donne e i fanciulli cristiani in libertà, fra gli abbracciamenti de’ loro congiunti, entrarono nella terra poco avanti lasciata. Le croniche antiche, se il citato codice è veramente autentico, confondono i due fatti in uno solo; e tutte parlano di una fontana d’acqua, che vaticinando le narrate disgrazie, sgorgò sangue, ov’è al presente la piazza del Molo».
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TITOLO: Adelassia ed Allerame
AUTORE: Pietro Giuria
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)
SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti