Adelassia ed Allerame

di
Pietro Giuria

Tempo Di Lettura: 54 Minuti


I

Perché la leggenda pia e commovente fu
relegata alla veglia delle femminette e
dei fanciulli, come indegna di occupare
i passatempi d’un ingegno delicato o di
un eletto uditorio?… Ecco perché non
abbiamo poesia nel senso semplice ed
originale della parola, e perché non ne
avremo forse mai piú.

J. Collin De Plancy.

Uno dei piaceri piú soavi, piú nobili, e dirò anche, piú malinconici che si possano gustar viaggiando, perché sorgente di care e gravi meditazioni, è quello di perlustrar collo sguardo le scritte funebri di cui sono istoriate antiche lapidi, scritte che compendiano talvolta in poche parole una lunga vita di dolori, di virtù, di sacrifizii; sventure e glorie, casi di amori lacrimevoli, racchiusi in una tomba, e che spesso ti commuovono quanto le catastrofi rumorose delle nazioni, poiché, talvolta la storia d’un cuore non è meno interessante di quella d’un popolo. – Le ceneri, racchiuse in quel mausoleo, composero un giorno la bellissima giovinetta che fu sovresso delineata in atteggiamento d’un soave riposo; sognava ella forse una corona di sposa per il domani, e la morte, sorprendendola, le preparò un freddo letto sotto il coperchio d’un sepolcro; quel guerriero, armato da capo a piedi, stringe ancora la spada tra le mani raccolte al petto; e ti ricorda l’eroica imagine di Bajardo, il cavaliero senza rimprovero e senza paura, che bacia, moribondo, la croce dell’elsa, e compiange il suo vincitore, traditor della patria; quel santo vescovo, in abito pontificale, cogli occhi chiusi, colla fronte appoggiata sulla destra, non sembra che mediti, in cosí augusto raccoglimento, la fugacità della vita, il mistero della morte? Vedete; si appuntella leggermente col gomito, a guisa di pellegrino che la via lunga e l’ora tarda sospingono, ristà un momento per rinfrancarsi; ma i secoli eterni lo chiamano, e il suo desiderio già li precorre. Abitanti della tomba, coevi d’un tempo che passò per sempre, spirano una vita potentissima da que’ marmi, e dal limite di due mondi parlano a noi successori e pellegrini come essi furono, ad una gran meta. Il cuore umano, senza comprendersi, ha pure una arcana e profonda simpatia per le tombe, e si addolora sopra vicende che secoli antichissimi già travolsero nella loro rapina; gli esseri che qui dormono, calcarono un giorno il pavimento che noi calchiamo; si allegrarono della luce che innonda cosí vivace le nostre pupille, e che passa indifferente sui loro sepolcri. I marmi logori di quegli altari non conservarono traccia delle loro lacrime; l’orma dei loro piedi si è per sempre cancellata da questa terra; ma nulla si è perduto! Ci precedettero; succederanno tra poco altre generazioni; leggeranno nuovi nomi su nuove lapidi: la stessa solitudine, lo stesso silenzio, la stessa aspettazione dell’avvenire per chi dorme da cento secoli e da un’ora sola.

Queste riflessioni mi rampollavano nella mente, nel percorrere alcune lapidi mortuarie nell’abadia di Ferrannia, una delle quali, antichissima, ricorda il nome d’una nuora di Adelassia, già signora di quel paese. Alcuni dotti, dall’irsute sopracciglia, rigettarono, come favola, la tradizione popolare che sarà argomento del nostro racconto; ma il buon popolo, senza curarsene, non volle sbandire da’ suoi poveri focolai ciò che commove ed esalta dolcemente il suo cuore e la sua fantasia, ciò che forma la delizia delle sue veglie invernali.

II

Ed appunto, quando i primi soffii invernali scuotono le ultime frondi agli alberi delle montagne, e la natura, iscolorita, conserva tuttavia una soave bellezza, quasi vedova che, deposto ogni ornamento, si fa bella del suo dolore, in quella stagione dell’anno cosí malinconica che la religione con pio e gentile accorgimento consacrar volle alla ricordanza dei morti, visitai la chiesuola di Ferrannia, e i selvaggi burroni di Montenotte, dove le aquile di Napoleone conobbero le proprie forze, e si ammaestrarono a piú largo volo. Si veggono ancora, tra la ricca vegetazione silvestre che riprese i suoi diritti, gli avanzi delle trincee, dei ridotti, dove migliaia d’uomini si urtarono con tanta furia, e dove il giovane pastorello mena adesso la sua greggia e scopre talvolta, tra i sassi e le boscaglie, ossa umane, elmi irrugginiti, spade infrante. Quante vedove, quante madri aspettarono a lungo mariti e figli, che or giacciono in queste glebe o in fondo di que’ burroni travolti dall’acque montane, battuti dai venti! Qui si scontrarono la prima volta senza conoscersi, e qui senza odio si trucidarono! – Vedete, a poca distanza, sulla cima d’una collinetta soprastante a nero abisso, il castello di Cosseria, monumento del valor piemontese, castello di cui sorgono tuttavia alcuni enormi bastioni a perpendicolo sulla voragine. Piú basso, in riva d’un fiumicello, biancheggiano alcune casucce di contadini, alle quali sovrasta il campanile d’una chiesetta, che riesce sempre cosí pittoresca nel silenzio e tra il verde d’una foresta. Una specie di temporale o di uragano che si adunava tra le gole di que’ monti, scoppiò in un subito; e tra il rimbombo di torrenti che in poco d’ora ingrossarono, e tra lo stridere dei pini che la bufera affaticava, mi costrinse a cercar ricovero in un abituro, che avea piú aspetto di capanna che di casa. Sia pur benedetta l’ospitalità che ti apre il povero contadino ne’ suoi umili lari! Qui non ti incontrano que’ grugni di cane, dog, che il moderno incivilimento creò cerimonieri delle dure illustri porte, e che ti ringhiano fra le gambe con due ordini di denti, capaci di spezzarti un osso al primo colpo; qui non laquais in livrea, che inorridiscono alla voce di semplice monsieur; ma ti consola e ti previene lo schietto sorriso e il pudico invito d’una villanella, il saluto riverente ed affettuoso d’un buon vecchietto, che mi si fecero innanzi, e mi dissero il benarrivato. Un grosso cane da guardia, che non ha denti se non per il lupo, mi venne anch’esso all’incontro, con due occhi pieni di brio, d’intelligenza, quasi umani, e dimenando la coda come volesse significarmi che io era il ben venuto. Fu osservato acconciamente dai naturalisti che il cane guardiano dei contadini, dal pelo bianco, dal muso acuto, dalle orecchie tese e puntute, è il tipo di tutti i cani per coraggio, per fedeltà, parsimonia ed affezione; e tal era il mio nuovo amico accorso a festeggiarmi. Sopraggiunsero intanto, cacciati dalla pioggia, due robusti giovani, il maggiore dei quali era il marito della villanella che m’avea accolto con tanta modestia e cortesia, e padre di due fanciulli che si gettarono tra le ginocchia del buon vecchio, tutto gongolante di gioia e quasi ringiovanito nell’abbracciarli. Entrò anch’essa la vecchia madre con un fascetto di legna e di sterpi raccolti per la collina, e ne accese prontamente un gran fuoco per riscaldarmi ed asciugarmi le vestimenta. Il patriarca della famiglia, che or dirò Antonio, con un atto pieno di candore e di gentile delicatezza, mi invitò a sedere, a partecipare alla povera loro mensa; ed io, pieno il cuore d’un sentimento indescrivibile, un misto di tenerezza, di gratitudine e quasi d’invidia a quella scena domestica, che mi rivelava tanta virtù, tanta felicità di vita sotto quell’umile casolare, sedetti e rincacciai dentro un sospiro cui nessuno pose mente. Contemplava tratto tratto la serena maestà dì quella fronte incanutita senza rimorsi; il pudico sorriso della villanella nel trinciare il pane a’ suoi figliuoletti; la fisonomia aperta e vigorosa dei due giovani, contadini parci, infaticabili in tempo di pace, soldati intrepidi in tempo di guerra; e pensando a quel Sabino descritto da Orazio, il quale, vincitore d’Annibale, al cenno della severa madre porta a casa il fascio di legna, gli andava paragonando ai nostri lions, ai nostri eroi da teatro; ma Antonio, levandosi di tavola e raccogliendosi presso il fuoco, interruppe il filo delle mie riflessioni.

— È tempo di novellette, pensai fra me stesso, facendo capolino da un fenestrello, e guardando l’aria nera e minaccevole che avvolgeva le cime di quelle montagne, tra il mugolare del vento nel fondo dei burroni. Antonio, come che avesse letto ne’ miei pensieri:

“Questi monti e queste vallate, cominciò allora indirizzandomi il discorso, si ricordano di un’illustre signora che qui visse a lungo sconosciuta, e fu compagna de’ nostri padri. Eppure la era una gran dama figliuola d’imperatore! Mio nonno mi raccontava, e lo sapea da suo nonno – Dio li abbia in gloria! – che ella in povere vestimenta pascolava la greggia, lavava di propria mano i suoi pannolini e quelli di due suoi figliuoletti nell’acque del torrente; e che suo marito, illustre cavaliero di gran nome e di gran valore, lavorava nelle miniere di carbone, e col sudore della sua fronte procacciava, come noi, il vitto alla sua famiglia. — Voi che forse saprete leggere, soggiungea gravemente, l’avrete letto in un libro…”.

E qui frugava nella memoria.

— Troppo onore, risposi io tra me stesso; ma come si chiamava quella gran dama e quell’illustre cavaliero?

— Adelassia ed Allerame.

— Adelassia ed Allerame, ripetè sotto voce la buona vecchia, moglie del mio narratore, dandomi cosí ad intendere con una specie d’orgoglio innocentissimo, che anch’essa sapea assai bene quella novella.

— Intendendomi un po’ di lettura, risposi io volto ad Antonio, lessi appunto il nome di Adelassia in una lapide nella vostra chiesa parrocchiale.

— Quella è una sua nuora qui sepolta, rispose il vecchio gravemente; cosí mi affermò il curato che sa leggere il latino, e quell’iscrizione è latina. Ma l’Adelassia, di cui vi parlo, giunse povera e sconosciuta su questi monti; e quindi, ritornata allo splendor primitivo, ne divenne signora e feudataria. Sebbene ella sia morta da gran tempo, poiché il nonno di mio nonno ne avea intesa la storia da un altro nonno, conserviamo tra noi, poveri contadini, la grata memoria della virtù di lei, de’ suoi benefizi, ed insegniamo ai nostri figliuoli a benedirne il nome e pregare anche per lei nel giorno dei nostri morti.

Lo schietto discorso di quel contadino avea qualche cosa di sublime e di commovente; e quell’eloquenza, ispirata dal cuore, mi affascinava.

La gratitudine è propria delle anime bennate e la piú bella virtù del povero, come la beneficenza è la piú bella virtù del ricco, pensava meco stesso. — Ma narratemi, buon vecchio, le avventure di questa Adelassia; ho per certo che il vostro racconto è piú umile e dilettevole delle tante scipitezze che formano la delizia delle sale, dove è raccolto tutto il bon ton, e dove l’annoiarsi è anche di bon ton. Ma il semplice contadino, che per sua buona fortuna non aveva udite mai siffatte parole barbaresche, senza badar punto al mio discorso, raccogliea tacito nella memoria le fila del suo racconto.

Tutti si composero a un religioso silenzio; persino il cane, che facea parte della famiglia, accovacciato presso il fuoco, tendea le orecchie quasi anch’egli stesse in ascolto. Continuava intanto al di fuori quella pioggia autunnale, lenta, monotona, lamentevole tra il fruscio delle foglie che la bufera avea divelte e accumulate nei solchi; quella pioggia che t’empie l’anima di una soave tristezza, e che venne descritta con tanta armonia imitativa da un poeta moderno in quel verso:

Melanconicamente i campi lava.

III

Udir novelle, ai focolari accanto,
Degli avi antichi, inebriare il core
Del balsamo d’amore,
Sono gioie per lui che non devia
Dalla terra natia.

L. Sani.

“La corte di Ottone il Grande, imperatore, s’ornava a festa; gli ambasciatori delle nazioni soggiogate traevano a’ suoi limitari; ricchezze immense, frutto di gloriose vittorie, e tributi di popoli brillavano nelle auree sale, disposte intorno a trofeo. Caccie, tornei, canti di menestrelli, tutto ciò che l’età di mezzo aveva di piú poetico, e l’impero d’Ottone il Grande di piú splendido, andava a gara per celebrare le imminenti nozze di Adelassia sua figliuola.

“Tutto era festa, ma un’anima sanguinava profondamente. La giovanetta assistea a quelle danze, a quelli spettacoli, come altri assisterebbe ai preparativi d’un supplizio, ai propri funerali. Dall’alto delle sue torri guardava con invidia la villanella tornar cantando al rustico casolare; ed avrebbe scambiato volontieri il suo splendido vestimento, le aurate sale de’ suoi castelli con quella povertà onesta, contenta, libera, paga del sorriso d’un bel cielo e delle ghirlande della natura. — Ma questa corona, dicea fra se stessa nell’uscir da una festa e raccogliendosi sola nella sua camera, questa corona è pur di ferro sulle mie tempia! pesa orrendamente sulla mia vita, perfino sui miei pensieri! — e premea la destra immagrita sulla fronte che le ardea come per febbre. Sorgea in piedi, correa a passi concitati, poi di subito rattenendosi e fissando gli occhi al pavimento con terribile immobilità:

“ — L’altare è pronto, ma la vittima non deve essere immolata. Ad Ottone, i scettri della terra: a me, i miei pensieri, il mio cuore, questo cuore che diverrà polvere, ma schiavo non mai! — Oh s’ei mi amasse! eslamò quindi con entusiasmo ineffabile, stringendo le mani al petto, irraggiandosi nel volto e nelle pupille, nell’espressione dell’anima assorta tutta in una sola speranza, in un’imagine di paradiso: — Oh s’ei mi amasse! — E gli occhi della giovinetta, poc’anzi quasi impetrati, quasi feroci per intera disperazione, nuotarono in due lacrime di soavità, con un sorriso tra l’angelico e il dissennato, che a sole parole non possiamo ritrarre.

“S’udì in quella un tintinnio d’arpa sottesso le finestre d’Adelassia.

Cara, segreta, ignota al sol, romita,
Vive la cura che m’accende il cor,
Risponde al tuo se a palpitar l’invita,
Poi come pria trema in silenzio ancor.

Arde simile a sepulcral facella,
Lenta, non vista, d’immortal virtù;
Ben la speranza può morir, non ella,
Benché oggi è fioca qual piú mai non fu.

Una lacrima sola, altro di tanto
Amore in pegno non chegg’io da te;
Unico, primo, ultimo dono, il pianto
Virtù non vieta, per chi più non è.nota 1

“Questo canto suonò sull’arpa del Trovatore e ruppe il silenzio della notte. Il cuore di Adelassia piú che il suo orecchio, conobbe quella voce, e si squarciò dinanzi a lei un nuovo avvenire, nel cui fondo sta una corona nuziale sopra l’altare, ed un serto di cipresso sopra d’un feretro.

“— L’una o l’altra di queste corone poco importa, sclamò Adelassia, amendue durano un’eternità.

IV

“Al domani la caccia si sparse per la vicina foresta. Adelassia cavalcava un focoso palafreno, e seguia i vestigii sanguinosi d’un cignale che, già ferito, tentava di rintanarsi, rotolando sassi, rompendo arbusti coll’impeto cieco del suo istinto e colla furia della paura. La giovanetta, curvandosi graziosamente sulla persona, già stava per trafiggerlo col suo lungo giavellotto, quando il cignale, addossato ad una rupe, si volse addietro, ferì il cavallo; e questi, rotto il freno, spaventato, indocile alla voce, si cacciò a fuga precipitosa. Per dirupi scoscesi, aridi o nereggianti di folta boscaglia, per valli, sull’orlo a precipizii suona lo scalpito del palafreno, quasi il turbine lo trasporti. Le cime delle piante secolari della Germania, agitate dal vento, le nubi che di subito agglomerate dalla tempesta, si annodano o si disciolgono in mille forme fantastiche secondo il soffio della bufera; lo scroscio de’ tuoni e de’ venti che rimugghiano nelle caverne, nelle strette delle montagne; il rimbombo de’ torrenti che ingrossano in pochi istanti, lo impauriscono, lo percuotono, lo fanno rabbrividire, impennare. Adelassia, ferma in groppa, ma stanca ed anelante, afferra con una mano la criniera del cavallo, e volge addietro il bel capo, colle treccie disciolte ed ondeggianti, per vedere se alcun la segue. Uno solo è il cavaliero che ebbe animo e lena di tenerle dietro infaticabile; egli accorre a tutta briglia conficcando gli sproni nei fianchi del cavallo, e già sta presso a raggiungerla.

“ — Oh, è desso! è il Cavaliero che ebbe dalle mie mani, premio della vittoria, la purpurea sciarpa che ora gli splende sul petto; quel bianco pennacchio è suo!…

“Un palpito piú potente commosse il cuore della fanciulla; e le sue gote iscolorite s’imporporarono. L’impeto del cavallo si rallentava, perché il sangue sparso dalla ferita gli avea scemate a poco a poco le forze; e già accennava di stramazzare, quando il giovane cavaliero lo raggiunse, balzò di sella, ed afferrandolo per le briglie, pose un ginocchio a terra, e invitò con atto riverente la principessa a farsene sgabello per ismontare.

“ — Cavaliere, gli disse la principessa, puntando leggiadramente un piede sul ginocchio di lui.

“ — Cavaliere, vi deggio la vita.

“ — La mia vita è devota da gran tempo all’imperatore ed a voi… Adelassia!… degnissima sua figliuola, rispose modestamente il giovanetto.

“Ma il tremito della voce, le parole tronche e raddrizzate in diverso senso, dicevano ben altro, che non suonavano e tradivano un sentimento che tentava mascherarsi sotto le forme dell’ossequio. D’altronde, mentre ella nel balzar da cavallo strinse la mano del cavaliere per farsene un punto d’appoggio, non sentì forse che tremava nella sua? Uno sguardo involontario che si scambiarono nell’allegrezza de’ pericoli superati, non rivelò forse, come tratto di baleno, anima ad anima? Quello sguardo avea suggellato il loro destino, rivelato subitamente ciò che labbro umano non ha valore di esprimere.

“Il cielo rasserenavasi piú festivo che mai, come avviene dopo un rovescio improvviso di pioggia; un’amabile frescura scuotea dalle fronde le goccie d’acqua, che tremolavano a guisa di gemme indorate da un raggio occidentale. Adelassia salì in groppa al palafreno di Allerame, che tale era il nome del cavaliero; ed egli, ossequioso in atto, camminava accanto alla principessa; camminavano a capo chino, né l’uno né l’altro sapean rompere quel silenzio, pieno d’affetti tumultuosi ma profondi.

“Giunsero finalmente alle mura d’un convento, la cui rozza architettura accennava i primi tempi del cristianesimo introdotto nella Germania. Le brune e gigantesche torri di quell’edifizio, ombreggiate in parte dalle quercie della foresta, e parte illuminate dal purpureo tramonto, riflettevano i raggi soavi e malinconici e si specchiavano in azzurro lago ai piedi delle mura.

“Adelassia fermò il cavallo, e con profondo raccoglimento guardò a lungo la ferrea porta del monastero.

“ — Quelle porte, disse ella pacatamente, simili alle porte dell’eternità, non si aprono che una volta; bisogna, nell’entrare, che il nostro sguardo sia fitto ben addentro; guai rivolgerlo ancora addietro!

“ — Non per voi, amabile principessa, figliuola d’Ottone il Grande, speranza di tanti popoli!…

“ — Non si entra che una volta, proseguia Adelassia, quasi non udisse le parole di Allerame; e il suo accento si facea cupo, pronunciato con quella energia che nasce da un grande affetto — “Quelle porte racchiudono forse altre vittime della prepotenza, dell’orgoglio, vittime che i fiori nuziali già coronavano…”

“ — Come mai, Principessa, dite altre vittime? non siete forse la figliuola prediletta d’imperatore potentissimo? Non sono forse per voi quelle danze, quei tornei… le vicine nozze?… Dite piuttosto, amabile Principessa: quello è talvolta il ricovero di anime tribolate che vi entrarono con un mistero tremendo in fondo dell’anima, con un mistero che trarranno forse nel sepolcro, poiché la morte è un desiderio, è un unico scampo, quando una speranza, folle sí, certo, ma che racchiude tutti i palpiti di un’esistenza, si è dileguata in eterno!

“La voce del cavaliere, concitata per un momento, andò spegnendosi languidamente, mentre il suo sguardo volgeasi al cielo. Adelassia non perdè sillaba di quelle parole, che tutte le percuotevano sulle fibre del cuore; e fissandolo con uno sguardo penetrante, temperato dalla dolcezza di una profonda ed affettuosa mestizia:

“ — E voi, Cavaliere, soggiungeva la giovanetta, voi, splendore delle feste, gloria de’ tornei, sospiro di tante illustri damigelle, come mai nutrite in animo cosí tristi sentimenti? Vi travaglia forse qualche secreto dolore, che io… che l’imperatore mio padre possa alleviare? Ottone saprà rimertare il valor vostro, procacciarvi una sposa degna di voi!…

“ — Oh Adelassia! amo, è vero, una creatura piú che terrena; ma l’amore che mi divora è sepolto dentro il cuore; follia, delitto sarebbe l’appalesarlo… ed ora piú che mai!

“ — Onorato Cavaliere come voi siete, non può, certo, esser vile o colpevole l’amor vostro.

“ — È tale, Principessa, che niuna umana forza potrà trarmelo nemmen colla vita; godea almeno di vagheggiarla collo sguardo, come santa cosa, come un volto di quegli angioli che io vedea ne’ miei sogni, fanciullo innocente, ignaro della vita; godea pascermi segretamente dell’amor mio; ma anche questa gioia mi sarà tolta! Tra poco ella dovrà partire.

“ — Ma siete voi certo, soggiunse Adelassia con accento indescrivibile, che la giovane del vostro amore non sia infelice piú di voi, piú di voi disperata della prossima sua partenza?…

“ — Adelassia, che dite mai? proruppe il giovane, fissandola in volto la prima volta, e vedendo quegli occhi bellissimi innondati di lacrime; v’accora forse il partire?… Voi pure amate?…

“ — E chi tel disse? — Me lassa! nol dissi io stessa!

“E qui, abbassando il velo, ruppe in lacrime.

“ — Oh immensa gioia! voi pure amate?…

“ — Si, amo te, Allerame! e l’amor mio è profondo, disperato quanto il tuo. Che vale dissimularlo? Piú potente di una corona, piú potente di quanto vive sopra la terra, piú potente di me stessa è questo affetto puro ed incolpabile, primo ed ultimo della mia vita!

“E qui passò un momento di silenzio, uno di que’ momenti che rivelano all’anima la sua immortalità, e in cui pare che la fragile nostra argilla debba spezzarsi, come vaso di cristallo, per il soverchio della fiamma che vi si accese. Allerame, alzando il capo, dopo una cupa riflessione, e come uomo precipitato dal sommo della gioia all’abisso dell’amarezza:

“ — Ma voi, Principessa, soggiungeva, non siete voi sposa ad uno de’ suoi baroni?

“ — Pur troppo! ma queste nozze non si compieranno giammai.

“ — E vostro padre, l’Imperatore, che ne ha data la sua parola, vorrà egli comportarlo?

“ — No, certo.

“ — E come dunque?…

“Sopraggiunse in questo mentre la cavalcata, la quale, rannodatasi dopo quell’acquazzone, cercava d’ogni parte la Principessa. I due amanti, interrotti in sí mal punto nel loro colloquio, si ricomposero; e tutti s’avviarono allegramente, almeno in vista, alla volta del castello imperiale.

V

“Da quel giorno avvenne un gran mutamento nell’esistenza di due anime, Adelassia ed Allerame. Non era piú quel dolore che si aggruppa intorno al cuore senza refrigerio né di lacrime, né di parole; non piú il loro pensiero, segregato affatto dalle cose viventi, dalle speranze dell’avvenire, si smarriva in vuoto immenso, tenebroso, che l’egra fantasia popolava colle sue larve. Soffrivano, ma sapeano di soffrire l’uno per l’altro, ed era questa ciò che dicesi dai moderni voluttà del dolore.

“Ma il giorno delle nozze incalzava. Adelassia, prostata ai piedi di Ottone, gli dichiarò a viso aperto non essere ella preparata a tal nodo; non volere contaminare con uno spergiuro, dinanzi a Dio, la coscienza propria e il regal sangue d’Ottone:

“ — Dovessi anche scambiar queste gemme, queste splendide vestimenta con un saio di monaca, con un cilicio, e questa corona che voi mi deste, con un serto di acute spine, no, questo labbro non tradirà mai il libero accento del mio cuore.

“ — E sia pure, sciagurata, rispose Ottone ritirandosi sdegnosamente dopo aver fatto prova di parole ora soavi ed ora minaccevoli; sia pure! nessun principe della terra potrà lagnarsi, se gli hai negata la tua mano per darti unicamente a Dio… a Dio solo!

“E rigettava, partendo, le lacrime e le preghiere della figliuola; ma ella, drizzandosi alteramente sulla persona:

“ — Nessun uomo, qualunque sia, otterrà questa mano senza prima averne il cuore — mormorò Adelassia, rimasta sola, tra una cupa rassegnazione del presente e il ferreo suo proposito per l’avvenire; e pallida e taciturna accompagnò a lungo collo sguardo l’imperatore che si allontanava.

“E quelle porte che, simili alle porte dell’eternità, non si aprono che una volta, come disse la Principessa affissandole con un funesto presentimento nel giorno piú delizioso della sua vita, si spalancarono dinanzi ai passi della figliuola d’Ottone. Ella ascese con piè fermo la gradinata, e abbassò il capo nell’entrarvi, come salda quercia che declina la sua cima sotto l’impeto istantaneo della bufera, per rialzarla piú vigorosa a cielo sereno”.

— Ma dunque l’han fatta monaca, esclamò con uno slancio di pietà e di indegnazione la buona villanella, madre dei due fanciulli — Dunque l’han fatta monaca!

— No, rispose il vecchio — se l’uscio è chiuso, si passa anche per la finestra.

— Ma noi, soggiungeva la contadina con quella eloquenza del cuore, con quella chiarezza di idee che nasce da coscienza retta, ed alla quale torna piú facile oppor sofismi che ragioni — Noi non sacrifichiamo il sangue nostro… ma noi, riprendeva sogguardandomi timidamente, quasi temesse d’avermi offeso, siamo poveri ed ignoranti contadini.

Questa titubanza ne’ suoi principii, o piuttosto questo riguardo delicato per l’ospite, m’impose l’obbligo di rispondere, poiché forse quell’anima retta e immacolata avrebbe potuto attribuire ad ignoranza il santo ed onorato procedere dei loro costumi:

— Il Signore benedice i vostri talami, le diss’io, perché l’ambizione, l’avarizia non presiedono a questo passo solennissimo che la religione ha santificato come sorgente di nuovi doveri, di nuovi affetti, donde informar si deve tutta la vita. Voi non ne fate un mercato abbominevole, beffando Iddio che ne ha istituito un sacramento, e chiamandolo a complice e testimonio d’un sacrifizio umano. I vostri matrimonii non sono mostruose unioni tra vecchi e giovani, abborrite talvolta dalla natura e riprovate dalla morale; e perciò i vostri figliuoli sono robusti contadini e valorosi soldati; e perciò siete contenti della vostra povertà onorata, senza punte di rimorsi, senza spasimi di gelosia, senza l’abbiettezza di chi ha vendute le sue membra e senza il brutale dispotismo di chi le ha comperate. L’uomo che ha ottenuto i vostri primi affetti, è il padre dei figli vostri, il compagno della vostra vita nell’armonia dell’età conforme, nei desiderii, nelle speranze della gioventù, nel riposo della vecchiaia; e cresce intanto intorno a voi florida e numerosa la vostra prole, come i rampolli dell’olivo lussureggiano intorno al ceppo dell’albero.

— Ma voi, Signore, che parlate cosí bene, riprese l’inesorabile mia avversaria colle schiette grazie della natura, ditemi dunque, perché simili sacrifizii, sacrilegi dinanzi a Dio, mostruosità in natura, infamia nella morale, si commettono tante volte fra i signori, ricchi, ben creati!…

La domanda avea la punta avvelenata dal dardo, ed era lanciata troppo direttamente perch’io potessi schermirmene. Dovea forse all’anima nobile ed innocente della pastorella svelare una serie di misteri, la cui conoscenza, come il pomo d’Eva, produce la morte? Non vorrei mai che tanti romanzi di Sue e compagnia cadessero nelle mani del popolo, poiché la medicina dello scopo sarebbe tarda alla morsicatura dell’aspide che intacca il cuore. Non seppi che rispondere; e il mio lettore, per poco che conosca le ruote interne della nostra società, sotto tanta splendida mostra di incivilimento e tanti bei nomi a cose sozze, per cui talvolta sei costretto ad invidiare la compagnia degli Ottentoni, non avrebbe saputo rispondere meglio di me. Per buona sorte il mio discreto narratore riprese il filo del suo racconto; ed io mi ritrassi ben volontieri da quella lizza.

VI

È facile argomentare a che riuscisse questa catastrofe; l’epigrafe affatto popolare e tutta propria di questo racconto, ce ne avverte di per se stessa.

“Quando l’Imperatore ebbe forza di ricomporsi, sollevò da terra il giovanetto, e riconoscendo in lui le sembianze della smarrita sua figliuola, tanto pianta segretamente, non potea saziarsi di rimirarlo e di abbracciarlo. Spacciò quindi alla volta di Ferrannia, nunzii del suo perdono, il vecchio monaco, suo nipote e due scudieri, acciò ricondussero alla sua presenza Allerame ed Adelassia. Non descriveremo la scena commovente tra l’Imperatore, la sua famiglia e l’antico commilitone, quando dopo tanti anni, dopo tanti e varii casi si ricongiunsero; perché il cuore dei lettori potrà facilmente interpretarla.

“Si bandirono feste, tornei; e Adelassia, Allerame e il loro primogenito vi assistettero accanto all’Imperatore, vestiti anch’essi pomposamente con assise del loro grado. Ma la buona Adelassia, nella prospera sua fortuna, non ebbe cuore di abbandonare quel romitaggio che le avea dato ricovero in tempi calamitosi; ed allora l’imperatore la creò feudataria della contrada, dove ella visse ancora molti anni, in compagnia d’Allerame, non immemore degli antichi amici, ma cortese a tutti e benevola, come le antiche sue sventure e la sua grande anima le comandavano”.

— Epperciò noi, soggiunse il vecchio, noi poveri contadini ne veneriamo ancor la memoria, e preghiamo ogni anno per lei, al volgersi di questa stagione, come preghiamo pei nostri padri che la conobbero personalmente, e ne perpetuarono la tradizione presso questi umili focolari. —

— E sia benedetta la memoria di questa donna! dissi anch’io. Se le mura del suo castello fossero state un ripostiglio di rapine, una sede di tirannia, la mano de’ vostri padri le avrebbe distrutte con ferro e fuoco, e l’area della sua abitazione si terrebbe come luogo scomunicato. Ma Adelassia colla bontà dell’animo, co’ suoi benefizii e non coll’orgoglio dell’ignoranza, giustificò i favori della fortuna, e soprastò sempre coll’altezza morale ai varii casi della sua vita. Amò nei poveri vostri panni la virtù semplice, ignota agli uomini, forse anche a se medesima, esercitata nelle vigilie e nelle fatiche; nè temette di offendere la squisitezza de’ suoi nervi con inoltrare il piede, angiolo consolatore, sotto il tetto affumicato del contadino onesto e laborioso. Fu degna del vostro ossequio e piú ancora dell’amor vostro; nè voi falliste a questo debito di gratitudine, perché il povero non è ingrato.

E qui strinsi la mano al buon vecchierello, e vedendo queto il vento e il cielo rasserenato, uscii fuori dalla casuccia, coll’anima racconsolata delle tante bricconerie ed abbiettezze che il fasto e l’arroganza vorrebbero inorpellare.

Fine.


nota 1 – Alcuni vollero che Adelassia ed Allerame si rifuggiassero nelle colline del Monferrato; ma noi, senza contraddire nè approvare questa asserzione, possiamo addurre una serie di storici accreditati che stabiliscono la dimora dei nostri due personaggi nelle montagne della Liguria, alcuni in Alessi o Alassio, nome che dicono derivato da Adelassia, ed alcuni altri più comunemente, nel villaggio di Ferrannia, poche ore distante da Savona. Chiunque, si trarrà a visitare queste vallate, ne udrà il racconto dai contadini, e potrà leggere un’iscrizione che conservasi nell’abbadia di Ferrannia, dove si accenna ad una nuora di Adelassia che fu ivi sepolta. Il Monti, istoriografo della città di Savona, racconta distesamente questo fatto, ma in modo che rivela piuttosto la facoltà inventiva d’un romanziere, che la fedeltà e la critica d’uno storico; e perciò ci facemmo lecito di allontanarcene.

L’esimio cav. Davide Bertolotti, nel suo viaggio nella Liguria, stabilisce la dimora dei reali fuggitivi tra le colline di Alassio o Alessi, presso Lingueglia. — «L’origine di Alassio, dice egli, viene dal Giancardi e dall’Armanno attribuita alla figliuola di Ottone il Grande: cioè a quell’Alassia od Adelassia, celebre pe’ suoi amori e la sua fuga con Allerame, eroe del sangue di Vitichindo, o principe di stirpe italiana, o veramente avventuriere del decimo secolo, ma certo — progenitore della stirpe dei sette marchesi, a’ quali fu comune il nome del Vasto. — Il fatto che Allerame prendesse in moglie una figliuola d’Ottone I, sembra istorica verità. Ma i particolari de’ loro amori, della lor fuga, della oscura lor vita, e della loro riconciliazione coll’imperiale suocero e padre, hanno sí fatto color di romanzo, che i migliori critici ora consentono nel rigettarli del tutto». — Tuttavia ci sia permesso di notare che, attenendosi alla tradizione, i due fuggitivi passarono solamente per Alassio, e che la loro stabile abitazione fu in Ferrania. Ad ogni modo questa tradizione appartiene pur sempre alla Liguria.
«Molti favolosi racconti si spacciarono intorno ad Allerame. Le leggende dei chiostri ed i romanzi cavallereschi lo dicevano figliuolo abbandonato di un milite che, peregrinando insieme colla moglie per non so quale sua divozione, avevalo lasciato alla ventura. Cresciuto il garzone, e fattosi valente nelle armi e bello nelle maniere, aveva richiesto d’amore Alassia figliuola di Ottone, e questa avendogli compiaciuto, eransi insieme ridotti tra i monti d’Albenga. Colà avevano vissuto una vita tutta di quiete, ma stentatissima, cosicché il marito attendeva a vendere carbone, e la moglie faceva certi suoi lavorietti di ricamo. Per un giro di strani avvenimenti furono poscia scoperti e ricevuti novellamente in grazia dell’Imperatore: il genero allora ottenne dallo suocero l’investitura di vasti stati. Ma queste son fole, e per quanto la fantasia di raccoglitori di tradizioni popolari sia stata sollecitata dal racconto di simili casi, noi scorgeremo sempre in essi difetto di verità, e ci atterremo alla fede dei documenti che provano essere stato Allerame figliuolo del conte Guglielmo, possente barone in queste contrade, ed avere ricevuto dall’Imperatore la ricognizione del possesso legittimo de’ beni allodiali di cui era ricchissimo, colla giunta del titolo di marchese». Conte Federigo Sclopis, Dell’Antica Legislazione del Piemonte.

Agli autori citati dall’A. come parlanti delle avventure di Allerame, aggiungi il Loschi, Compendii storici; e l’Armanno, Lettere: ma specialmente il secondo, sì dove racconta che l’istoria della fondazione d’Alassio, sì dove si difende dalle critiche che gli furono mosse per quel racconto.
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nota 2 – Per piú d’un secolo Genova fu travagliata orrendamente dai Saraceni; Gerolamo Serra cosí ci descrive la tristissima condizione di que’ tempi: «Era appena innoltrato il nono secolo, quando i Normanni e i Saracini presero quasi a vicenda ad infestare il mare Mediterraneo e l’Italia. I primi entrarono nella Magra l’anno 860, credendo trovarsi nel Tevere, e saccheggiarono la nuova città di Luni. I secondi si posero nel vicin golfo di un placido mare, facendo un nido di pirati, e nella riviera occidentale s’impadronirono di Frassinato fra Monaco e Nizza, non lungi, oh quanto i tempi cangian le cose! dal gran trofeo di Augusto. Cosí avviluppata e stretta da due lati opposti, la Liguria non fu conquistata come dinanzi, ma cadde nondimeno in estrema miseria. Armati e piccoli legni scorrevano le sue riviere, tornando a’ loro ricoveri quand’erano inseguiti o sopraccarichi di preda. Poderosi navili impedivano ogni navigazione lontana, proteggevano ogni sbarco importante: case, chiese, famiglie, viandanti, terrieri, nient’era sicuro, e questa barbara rapina durò quasi cent’anni. Allora gli antichi monumenti, sottratti a’ Longobardi, furono annichilati; le vie rotte, le leggi dimentiche, e la maggior parte degli abitanti, non trovando piú sicurezza sulle amene rive del mare, si trasferirono ne’ luoghi piú aspri e piú atti a difesa. Di questa ritirata de’ Liguri alla montagna rimangono infino ad ora i segni. Sdrucite castella ingombrano i gioghi soprastanti al littorale, e i passi angusti che menano a quelle. Altrove le terre marine hanno negli stessi lor traffici e nelle coltivazioni un non so che di origine recente; e dove piú s’interna la valle o sale il monte, là comincia il borgo già ricco di privilegi, ma povero oggigiorno d’industria e di popolazione. Inoltre l’ecclesiastica gerarchia attribuisce alle pievi montane una costante giurisdizione sulle parrocchie marittime, ch’è indizio certo di anteriorità. Finalmente la volgar tradizione s’accorda con le vecchie leggende a raccontare che nelle parti piú scoscese e remote si seppellivano i corpi de’ cari parenti, e occultavansi le inargentate reliquie de’ Santi, lungi dal disprezzo e dall’avidità degl’infedeli. Nell’anno 877 il corpo di S. Romolo fu portato dalla villa Matusiana a Genova; e in Genova stessa le ceneri di S. Siro, predecessore di Romolo, si trasferirono dalla basilica de’ dodici Apostoli in quella di S. Lorenzo, come in parte meno esposta ai corsari. La popolazione eziandio ammucchiossi negl’interni quartieri della città sotto il riparo dell’antico castello; onde le strade al mar piú vicine rimasero vuote di abitatori, e diventarono col tempo piccoli campi, vigne, canneti, fossati; nomi che, rifatte di poi e ripopolate, conservano ancora. Tra Fasce e Cornua, due monti a levante, si trova un villaggio, e nel suo mezzo una cappella, con questa iscrizione a noi pervenuta mediante successivi ritocchi: Sancta Maria de Cesarego (cosí ha nome il villaggio) defende nos in bello; Santa Maria di Cesarego, difendeteci in questa guerra! Alla preghiera de’ montanari rispondeva col cuore l’intera nazione, ma non pigliava ardire. Sventurata! A’ suoi nepoti soltanto era serbato di rammentarsi che i Maccabei pregavan da santi e combattevano da lioni».
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nota 3 – L’egregio storico sopraccitato cosí racconta l’invasione e la rotta dei Saraceni:

«Già nello spazio di due anni (dal primo saccheggio dato alla città dai Mori) il piú delle case, delle torri, de’ templi era in istato; già comparivano le perdute ricchezze, e un’armata composta di piú compagnie minacciava i Saraceni che avevano messo piede in Corsica; quando un’altra selva di navi partita improvvisamente dalla Sicilia o dall’Africa, diè fondo presso a Genova, e atteso che il fiore degli abitanti era in sulle galee, entrò senza contrasto, prese le intere famiglie, distrusse quanto potè in pochi giorni e si allontanò. In questo mezzo i Genovesi ritornavano dalla Corsica, ove avevano occupato qualche castello de’ Mori. Ma nell’avvicinarsi al porto, non vedevano il lido gremito di gente, non udivano i soliti gridi di allegrezza; e le torri apparivano abbattute, e le case in rovina. Approdano, discendono ansiosi, e dai pochi che rimanevano ancora, intendono come i Saracini avevano la città espugnata, messala a sacco, e molti uomini uccisi; ma le giovani donne e i fanciulli piú dilicati erano strascinati al giogo degl’Infedeli. Fu subito deliberato di sarpare un’altra volta, riavere la miglior parte di se medesimi, o morire. Già l’isolotto dell’Asinara, sulle coste della Sardegna, è alla vista, vele saracine sembrano quelle; il vento, la velocità de’ remi, la smania d’esser subito alle mani han già divorato il cammino. La battaglia comincia, e dubbia non è; ché i nimici impediti dalla preda non fanno l’usitata difesa; quasi tutti son presi. Cosí variando fortuna le cose, i barbari in catene, e le donne e i fanciulli cristiani in libertà, fra gli abbracciamenti de’ loro congiunti, entrarono nella terra poco avanti lasciata. Le croniche antiche, se il citato codice è veramente autentico, confondono i due fatti in uno solo; e tutte parlano di una fontana d’acqua, che vaticinando le narrate disgrazie, sgorgò sangue, ov’è al presente la piazza del Molo».
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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Adelassia ed Allerame
AUTORE: Pietro Giuria
CURATORE: Rigoli, Aurelio
NOTE: Racconti popolari che, nella prima metà dell'Ottocento "rinomati scrittori italiani" (Pietro Giuria, Emanuele Celesia, F. Ramognini) recuperarono dalla tradizione orale e trasposero in prosa d'arte, per la ben nota raccolta di Angelo Brofferio "Tradizioni italiane".

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti popolari dell'Ottocento ligure. - Palermo : Edikronos, 1981. - 2 v. ; 17 cm. - vol. 1.: 203 p. - vol. 2.: 226 p. - (I Contastorie)

SOGGETTO: FIC027080 FICTION / Romantico / Brevi Racconti