Al Teatro Rasi di Ravenna il testo del giovane drammaturgo diretto da Roberto Magnani su musiche di Giacomo Bertoni
L’abbandono come necessità di sopravvivenza e come antitesi alla nostalgia, al sentimento e alla memoria affettiva. Il viaggio verso l’ignoto e le domande esistenziali, oltre a quelle più prosaiche, che porta con sé questa esperienza. Un atto unico, scritto dal drammaturgo Jacopo Gardelli ai tempi del Covid ma portato in scena solo ora e diretto da Roberto Magnani sulle sonorità cupe del musicista Giacomo Bertoni e un’atmosfera oppressiva che incombe sui due protagonisti, una coppia in fuga da un’imminente quanto non ben precisata catastrofe.
La prova aperta dell’opera ospitata dal Ridotto del Teatro Rasi di Ravenna è stata anche l’occasione di intervistare drammaturgo e regista sullo spettacolo prodotto da Ravenna Teatro e Cisim.
Come è nato questo testo, quali sono state le tue fonti di ispirazione e perché c’è stata questa gestazione così lunga?
Jacopo Gardelli: “In realtà la gestazione è stata corta, nel senso che il testo l’ho scritto alla fine del 2021 e di getto, però è rimasto a lungo nel computer perché non ero molto sicuro di quello che avevo scritto, essendo molto diverso dai lavori precedenti, un testo molto più secco, più oscuro. Riguardo l’ispirazione, erano i giorni della pandemia, quindi a livello inconscio, ho riprodotto nell’opera quell’atmosfera claustrofobica, dove i protagonisti non possono uscire e l’ambiente è diventato ostile; questo è un po’ quello che abbiamo vissuto in quei giorni. Quando il testo è stato portato in scena e l’ho visto prendere vita, mi sono reso conto che alcuni autori e autrici c’erano, anche qui a livello inconsapevole e sono tutti autori e autrici che fanno dell’ellissi e della privazione la loro cifra poetica: Harold Pinter, Alice Munro, il Cormac MacCarthy de La strada sono tutti autori in cui c’è un mondo che si avvia ad una chiusura. Poi, come dico nelle note di regia, il testo contiene anche qualcosa che va oltre quello che intendevo scrivere. Questo perché come dice Milan Kundera: Se l’autore è più intelligente del testo che scrive, meglio che cambi mestiere. Il testo, infatti, una volta scritto, dice molto di più di quanto esprime l’autore, vive di vita propria, perché accada è un mistero ma è così”.
Per quanto riguarda la regia che hai affidato a Roberto Magnani, il tuo testo si è adattato fin da subito al suo stile di regia in cui, per usare le sue stesse parole, il teatro è una questione musicale?
Roberto Magnani: “Io non ho uno stile di regia. Ho una visione oscura, questo sì. Per quanto riguarda la parte musicale, Jacopo fa parte di un collettivo, Studio Doiz, che al suo interno ha divere forze e diversi talenti: oltre a quello di scrittura di Jacopo, c’è anche quello recitativo di Lorenzo Carpinelli che è il protagonista maschile di Abbandono e quello musicale di Giacomo Bertoni, che conoscevo già e io avevo in mente quel tipo di musica elettronica e intuivo che lui avrebbe potuto fornirmi quelle ambientazioni. Con i due attori, fin dal primo giorno, ho detto: ‘Non sono un regista che può indicarvi la strada dandovi delle dritte sulla psicologia, sull’intenzione del personaggio. Per me tutto è musica. Quindi per me prima arriva l’intonazione di una battuta e dietro l’intonazione, tutto il substrato psichico, quelle sono robe vostre, è un viaggio che dovrete costruire voi, io da regista, vi posso indicare che musica dobbiamo suonare insieme’. Da regista, si tratta di concertare, come ho detto in un’altra intervista con te, tutti i vari linguaggi che compongono il teatro, quindi anche le luci, le parole degli attori, suonano insieme alla musica”.
Riguardo gli attori, Lorenzo Carpinelli lavora con voi da anni, mentre di Alice Gera cosa ci dici?
Roberto Magnani: “Alice Gera è stata una mia scelta registica, la prima scelta registica è individuare gli attori. La conosco da quando aveva 15 anni, è di Conegliano Veneto, dove sono andato per tanti anni a fare laboratori con la non scuola di Martinelli. Nel frattempo, lei è cresciuta e si è ammalata di teatro, si è trasferita a Bologna dove ha frequentato l’Accademia Galante Garrone e dopo varie esperienze ha costruito un suo Collettivo che aveva già avuto a che fare con Studio Doiz per un bando di Emilia Romagna Teatro (Ert) e quando si è trattato di scegliere la protagonista femminile con Jacopo, dopo aver considerato varie figure, mi è balzato in mente il viso di Alice e devo dire che sono molto contento della scelta”.
Nel dirigere il lavoro di Gardelli, ci sono state anche suggestioni provenienti dal di fuori, ad esempio da altri tuoi lavori o autori a cui sei legato?
Roberto Magnani: “No, ti potrei dire che quando Jacopo mi ha mandato il testo stavo studiando la riscrittura di Giovanni Raboni dell’Alcesti ed erano due testi che avevano delle vicinanze molto simili ma in realtà, in questo testo sono finite moltissime cose personali, private, che Jacopo non sa” (ridono).
Jacopo, nella presentazione del testo hai scritto che il tema dell’abbandono si può declinare in vari modi e pone domande disturbanti: cosa siamo disposti ad abbandonare per poterci salvare? cosa significa salvarsi? si può salvare una coppia in una società disgregata? Tu che risposte ti sei dato?
Jacopo Gardelli: “Non ho risposte. Se avessi risposte non farei questo lavoro. Chi ha risposte scrive saggi, chi non ha risposte scrive letteratura. Io sono partito da un’immagine, quella del cielo, quella più certa, che non può esserci strappata, perché è là, fissa e immutabile, dai tempi dei tempi. Quando ho iniziato a scrivere, avevo in mente questa immagine di una coppia in difficoltà, che si chiede se in quest’altro luogo dove arriveranno, il cielo sarà lo stesso. L’idea era quella di mettere in discussione la radice di quello che siamo, soprattutto capire cosa siamo. Possiamo definirci da soli o abbiamo bisogno di altre persone per farlo? La domanda che pongo è: in un momento in cui la società sta andando in sfacelo, come accade qui, dove i protagonisti sono completamente soli, si può salvare una relazione a due?
I due personaggi vediamo che rispondono in modi molto diversi al contesto in cui si trovano: lei è molto più legata al passato. Una delle battute fondamentali del testo, siamo quello che lasciamo, è sua. Il personaggio maschile risponde invece in modo più ferino, naturale, darwiniano mi verrebbe da dire, in cui prevale l’istinto di sopravvivenza. Un incubo, una finestra che si apre per un tempo breve, una scheggia, un atto unico, che non dà risposte e forse pone più domande più di quante non ne risolva”.
L’atmosfera dello spettacolo rimanda a tanti scenari distopici quali la catastrofe ambientale o la guerra nucleare o la pandemia. Il teatro come si pone in un contesto simile? Può aiutare quel tipo di abbandono che serve alla nostra sopravvivenza?
Jacopo Gardelli: “Se possa renderci migliori non lo so. Il teatro è una finestra, così come qualsiasi altro tipo di arte, è un’antenna, qualcosa che ci fa prendere coscienza di qualcosa che magari avvertivamo solo a livello inconscio, come idea ricevuta, direbbe Flaubert. Penso alle immagini costanti di catastrofi a cui siamo sottoposti continuamente dai mass media. Ho 30 anni e se mi guardo indietro, penso a tutte i disastri che la televisione ci ha mostrato in questi decenni: dalla centrale elettronucleare di Fukushima allo tsunami in Indonesia, ma anche l’alluvione in Romagna. Viviamo in decenni dove c’è una riflessione costante sul fatto che il mondo possa finire, anche se in realtà siamo noi a finire. Mi piacerebbe parlare con ragazzi giovani e chiedere: Ma qual’è la tua idea di futuro? La generazione dei nostri genitori un’idea ce l’aveva ed era ben definita, con valori di riferimento. Oggi, invece è il pensiero escatologico ad essere molto presente in noi”.
Il tema dell’abbandono si presta ad essere applicata anche alle relazioni di coppia. In questo spettacolo la coppia è già in crisi per motivi personali ai quali si aggiunge il resto. Secondo te, come ci si salva in un contesto simile?
Jacopo Gardelli: “Non ti so dire se questa coppia alla fine riuscirà a salvarsi. Il finale è aperto. Io so che questo spettacolo non avrebbe potuto esistere se non avesse avuto per protagonista una coppia, quindi la relazione, l’aspetto duale, rimane un elemento fondamentale e imprescindibile”.
Se vi accadesse di vivere davvero una situazione simile, a quale dei due personaggi pensate che somigliereste di più?
Roberto Magnani: “In realtà ognuno di noi è tutti e due i personaggi perché ognuno di noi ha entrambe le componenti: io sono una persona totalmente nostalgica e attaccata ai ricordi, ma anche una persona che si organizzerebbe per tentare di scappare. Ognuno di noi, come si racconta nel discorso di Aristofane nel Simposio, è scisso”.
Jacopo Gardelli: “Credo che l’essere umano si definisca solo se ha un progetto, quindi fra i due, sarei probabilmente più vicino a lui, anche per pavidità. Avere un’idea di futuro, di conseguenza, penso sia indispensabile, non dico per essere felice ma semplicemente per esistere. Oggi viviamo tempi in cui la parte della nostalgia per il passato, dovuta alle poche speranze verso il futuro, rischia di diventare ingombrante, come lo zaino che si porta sulle spalle il protagonista”.
E quali oggetti portereste con voi?
Jacopo Gardelli: “Dei libri”.
Roberto Magnani: “Un coltello”.
Anna Cavallo