(voce di SopraPensiero)

Lo scrittore cinese A Yi (pseudonimo di Ai Guozhu), probabile futuro maestro della letteratura del Sol Levante tra gli autori intorno ai quarant’anni, ha raccolto consensi in Occidente con la sua opera di esordio «E adesso», tradotta nel nostro Paese nel 2016 dalla casa editrice Metropoli d’Asia. Giudizi positivi sono giunti anche da parte dei lettori italiani, che hanno apprezzato il romanzo per la descrizione essenziale ma efficace del tema della violenza giovanile nella Cina moderna. Ne è un esempio il protagonista, che a causa dei vuoti esistenziali dimentica la differenza tra il bene e il male, arrivando a commettere un crimine con un modus operandi da serial killer. Una storia caratterizzata da vicende capaci di colpire per la loro violenza ingiustificata, con la descrizione di immagini di forte effetto che sollecitano profonde riflessioni. Un modo di raccontare che può non piacere perché troppo diverso dai canoni narrativi classici, ma indubbiamente interessante e originale.

Il tema centrale è l’incapacità dei giovani di trovare una dimensione sociale. È questa l’unica malattia del protagonista e narratore (le vicende sono raccontate in prima persona), se può essere considerata una patologia la sua apatia. Condizione psicologica dovuta a una società che non si chiede se il ragazzo ha delle qualità da valorizzare, perché ritiene più comodo condannarlo a un’esistenza priva di ideali. Società matrigna, a iniziare dalla zia che lo ospita in un suo appartamento interno a un’accademia militare per uno scambio di favori con i genitori, ma lo considera un peso, un inquilino da tenere sotto controllo e da trattare male all’occorrenza. La donna sembra essersi dimenticata che ha di fronte suo nipote, venuto dalla campagna per trovare un futuro migliore in città. Migrazione che rappresenta la necessità di rompere con le sane tradizioni della società contadina cinese, per apprendere nelle metropoli lo stile di vita occidentale.

Le vicende narrate nella prima parte del romanzo, inevitabilmente riportate in base al punto di vista del protagonista, concorrono a dare prova della sua visione alterata della realtà, che lo spinge a scaricare il risentimento per la sua condizione di disadattato facendo star male gli altri. Fin dalle prime pagine, dove si diverte a far perdere tempo a una povera commerciante senza acquistare niente. L’altra scena essenziale per delineare la psicologia del ragazzo è l’incontro con il vecchio che abita nell’appartamento di fronte al suo, l’unica persona in grado di incutergli timore. Un signore scorbutico, che porta a spasso il suo cane, pronto a trattarlo male con gli stessi toni pesanti che è solito riservare alle persone a suo avviso fastidiose.

In una vita sprecata proprio nell’età migliore, quando si dovrebbero coltivare sogni e grandi aspirazioni per il futuro, l’unico raggio di sole che illumina le giornate del narratore è Kong Jie, innamorata di lui malgrado il giovane sia incapace di affezionarsi a qualsiasi persona o animale. Lo dimostra la vicenda raccontata senza rimpianto dove uccide il cane dell’amica con un violento calcio, evitando di farsi vedere da lei. Nemmeno l’amore della ragazza lo lusinga: anzi, dopo aver palesato disinteresse, decide di scaricare su di lei la sua malvagità, uccidendola senza un motivo razionale.

Il protagonista la chiama per chiederle aiuto, sostenendo di non essere più in grado di gestire il rapporto con la zia, ma quando lei lo raggiunge nel suo appartamento la pugnala dopo essersi messo alle sue spalle, con ampio spargimento di sangue. L’assassino esclude ogni desiderio di sesso o di stupro, anche se è l’omicidio stesso a scaturire dall’incapacità di fare sesso, non certo per problemi fisiologici (nelle prime pagine il ragazzo racconta di masturbarsi più volte al giorno), ma per un blocco mentale. Nel suo inconscio il coltello che penetra la carne rappresenta il membro e il sangue che fuoriesce lo sperma, da questo punto di vista un omicidio ingiustificato acquista un movente psichico.

La povera Kong Jie muore tra atroci sofferenze, ma il suo carnefice, malgrado inorridisca per il delitto efferato, non si può trattenere dal continuare a pugnalare persino il cadavere. Subito dopo in preda al panico si lava più volte e scappa, certo che nel giro di poche ore la famiglia dell’amica si renderà conto della sua assenza. Per il ragazzo inizia una fuga disperata, che lo conduce sempre più lontano, fuori dalla città, in luoghi dove incontra personaggi che con il loro comportamento mettono in evidenza il suo stato d’animo profondamente angosciato, ma anche l’ipocrisia di una comunità guidata dalla falsità e dalla cattiveria. Lui non è altro che uno dei prodotti peggiori di questa società.

Il giudizio negativo dell’autore non risparmia nemmeno i più piccoli. Quando il protagonista si lascia avvicinare da un bambino, che all’apparenza sembra solo desiderare la sua amicizia, dovrà tornare a fuggire in fretta e furia rendendosi conto che il traditore ha chiamato la polizia e lo sta per consegnare nelle sue mani.

Ormai il cadavere martoriato di Kong Jie è stato ritrovato e il suo assassino è ricercato in tutto il Paese. Lui continua a fuggire, ma è una fuga senza un piano, dettata più dall’istinto che dalla ragione; lo dimostra il momento della cattura, quando si consegna di sua spontanea volontà nelle mani dei poliziotti in borghese, malgrado abbia fino a non molto prima desiderato di eludere la giustizia. Un atteggiamento paradossale, che rivela ancora una volta una psiche controversa e una mentalità priva di ogni ideale.

Quando gli agenti mostrano al ragazzo, che ha appena vinto una partita a biliardo con il proprietario di un bar, la sua foto, il suo aspetto fisico è talmente cambiato da essere irriconoscibile. E infatti sul momento non viene riconosciuto dai poliziotti, che capiscono di aver trovato il loro uomo solo quando lui spavaldamente dice alle loro spalle «Ho ucciso Kong Jie». Immediatamente il giovane viene picchiato, arrestato e portato in prigione. Lì è soccorso dalla madre, che nei giorni del processo appare molto più angosciata di lui per il destino che lo attende, la pena capitale. Punizione a cui è lo stesso assassino a non volersi sottrarre, rifiutando di partecipare al sotterfugio che l’avvocato assunto dalla madre ha escogitato per salvargli la vita.

Un finale contraddittorio, che a un’attenta lettura lascia ampio spazio a riflessioni sulla psicologia del protagonista e, volendo, in generale sugli aspetti più orribili della devianza dell’uomo moderno. Come un serial killer, anche il ragazzo non ha un movente per giustificare il suo assassinio, se non un giudizio alterato della realtà, maturato in seguito alla sua condizione di disadattato. Condizione non certo determinata dalla madre, che si impegna fin dal suo trasferimento in città per fare in modo che possa vivere agiatamente, ma da una comunità crudele e priva di ideali, di cui anche lui è figlio. La conseguenza della terribile lezione che riceve dalla società urbana, palesemente occidentalizzata, è un gesto di inconcepibile violenza sulla donna che lo ama, un omicidio che nel momento in cui viene compiuto spaventa persino lo stesso assassino. La fuga è una reazione istintiva inevitabile, ma la cattura, da lui stesso sollecitata, è la dimostrazione che in un angolo remoto della sua mente desidera la punizione.