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(voce di SopraPensiero)Alberto Pellai, medico e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano, si occupa di prevenzione in età evolutiva. Conduce corsi di formazione per genitori e docenti, e nel 2004 ha ricevuto dal Ministero della Salute la medaglia d’argento al merito della sanità pubblica. Collabora con Radio 24 e ha pubblicato numerosi volumi, quasi tutti con le Edizioni Erickson di Trento. Ha scritto con Mario Lodi (e con Vera Slepoj) il libro Cara Tv con te non ci sto più. Come «Resistere» al potere della televisione (ed. FrancoAngeli, 1997). L’abbiamo intervistato a proposito del rapporto di Mario Lodi con la televisione.
Come ha conosciuto Mario Lodi?
All’epoca mi interessavo del rapporto tra l’educazione familiare e la televisione; avevo appena scritto un libro dal titolo Il bambino che addomesticò la televisione – che trattava proprio della possibilità per le famiglie di dare una buona «teleducazione» ai bambini; nello stesso momento Mario Lodi aveva scritto il suo La TV a capotavola e stava dando il via alla petizione (con raccolta di firme a livello nazionale) volta a cambiare la TV. Ci siamo incontrati grazie a questo interesse comune, finendo per unire le nostre forze nel progetto di un nuovo libro, Cara TV con te non ci sto più, scritto a 3 mani (c’era anche Vera Slepoj), del quale ho curato la parte più psicologica, mentre lui parlava della petizione (era riuscito a raccogliere oltre mezzo milione di firme) presentando al contempo delle lettere di genitori ed educatori che gli avevano scritto riguardo al binomio televisione-educazione.
Eppure sappiamo che Mario Lodi non è stato sempre contrario alla televisione; anzi, almeno inizialmente, vi intravedeva una nuova possibilità per l’educazione. Che è successo da quel punto in poi?
Inizialmente ha creduto in una TV che avesse una valenza pedagogica, educativa, non una TV del divertimento. Del resto egli ha sempre sostenuto che i bambini dovevano divertirsi giocando, e giocando insieme, con i giocattoli – non solo e non principalmente quelli dell’industria, ma anche e soprattutto quelli che riuscivano a costruirsi da soli o in gruppo con le risorse della natura. Eppure la TV conservava il fascino del mezzo d’istruzione che può arrivare a tutti, ovunque si trovasse; chiunque, in campagna, in montagna, nelle zone più lontane dai «centri culturali», poteva avere accesso ad un’autoformazione diffusa e condivisa. Possibilità sconosciuta alle generazioni precedenti, inimmaginabile senza la potenza della TV. Mario Lodi credeva in una televisione «alta», di qualità, che avesse alle spalle un progetto culturale. È chiaro quindi che la TV degli ’80 – che vedeva nei propri spettatori dei soggetti da formare non alla cultura, ma al consumo – era destinata a deluderlo.
Quindi il discorso di Mario Lodi non è rivolto solo agli studenti in età scolare, ma in primo luogo agli adulti.
Sì, la sua era una preoccupazione educativa che non si rivolgeva solo ai bambini ma all’intera società, facendo in parte propria la lezione del filosofo Karl Popper, che proprio in quegli anni pubblicava il suo Cattiva maestra televisione, in cui denuncia il fatto che la TV fosse diventata uno strumento nelle mani di una lobby che la sfruttava a fini unicamente commerciali.
Che impatto ha avuto su questo tema il vostro libro?
In realtà quel libro è rimasto una pubblicazione un po’ di nicchia, probabilmente anche a causa del mutamento che l’epoca stava subendo. Ricordo che non molto tempo prima io – come lo stesso Lodi – giravo l’Italia di scuola in scuola per dare consigli ai genitori su come dare una buona «teleducazione» ai figli; c’era un grande interesse per la questione e ricevevo richieste continue, da ogni parte del Paese. All’uscita del libro, invece, le cose erano già cambiate, e tutto questo interesse sembrava svanito. Non è difficile indovinarne le cause: erano gli anni in cui si stava passando da «uno schermo televisivo in ogni famiglia» a «uno schermo televisivo per ogni membro della famiglia». Fu quel periodo in cui il regalo-tipo per la prima comunione del bambino era un televisore nuovo per la cameretta (non per niente questa era anche la copertina del libro: un bambino davanti allo schermo che proietta un cartone dell’orrore). A loro volta, quelli sono stati gli anni che hanno anticipato la generazione dei «nativi digitali», i quali hanno a propria disposizione più di uno schermo (PC, TV, smartphone, tablet ecc.).
Quindi potremmo dire cha a vent’anni di distanza da quei libri e da quella petizione queste idee rimangono attuali?
Basti osservare che l’ultimo ventennio ha visto la TV penetrare – grazie alla spinta di una lobby dapprima economica, poi anche politica, soprattutto in Italia – prepotentemente nelle famiglie, con l’effetto di ridurre negli adulti la consapevolezza del proprio ruolo di educatori, rispetto all’impatto che gli schermi hanno nelle nostre vite e sulle nostre vite. Non è un caso che adesso i giovani si trovino alle prese con una molteplicità di schermi, senza che i genitori siano in grado di valutarne le conseguenze. Questo era proprio il tema del romanzo sulla televisione di Mario Lodi, La TV a capotavola, basato sull’intuizione che la presenza di una TV in ogni famiglia avrebbe prima o poi monopolizzato le relazioni e fatto male a tutti, non solo ai bambini.
Eppure ci sono professori più ottimisti al riguardo, per i quali i giovani mostrano oggi una consapevolezza sull’uso degli schermi che i loro genitori non hanno mai possseduto.
In realtà c’è questa teoria ultradiffusa del «bambino competente», che sarebbe capace più degli adulti di auto-orientarsi, auto-regolarsi, auto-determinarsi. Da psicologo osservo invece il contrario: cioè l’effetto destabilizzante di questi strumenti, che fanno saltare la consueta attitudine umana a compartimentare le attività (distinguendo gli ambiti) e a darsi delle regole. Gli schermi si muovo infatti in direzione opposta, verso l’assenza di regole e di limiti: sono sempre accesi ed invitano (anzi, sfidano) non a fermarsi a un certo punto, ma ad andare sempre più avanti (si pensi ai videogiochi). Se a questo si aggiunge che sono anche fortemente «uncinanti» ed eccitanti, si capisce bene di quale tipo di «educazione» siano portatori. C’è infine un esperimento che tutti i genitori possono fare semplicemente a casa propria: dire al figlio che gli permetteranno di giocare al computer per un’ora sola. Al termine del periodo, invariabilmente si sentiranno rispondere: «Come, è già passata un’ora? Mi sembrava di aver appena cominciato!». In questa risposta c’è l’evidenza che il tempo – dentro a uno strumento tecnologico di questa natura – non va alla stessa velocità del tempo della vita reale, e di conseguenza finisce per dissociare dalla vita reale, gettando il bambino in un mondo parallelo che ha altre regole, altri tempi, altre modalità di fruizione.
Cosa consiglierebbe a dei genitori che vogliano recuperare la lezione di Mario Lodi oggi, su questo tema?
Essere genitori vuol dire non delegare agli strumenti tecnologici – che sono dei baby-sitter fantastici: si può perfino arrivare a dimenticarsi di avere un figlio quando questi è in compagnia di uno schermo – il proprio ruolo di educatori. Bisogna prendere coscienza che questi strumenti colonizzano le potenzialità di pensiero, la creatività e l’espressività della mente del bambino. Cosa dire dunque ai genitori? Una cosa molto semplice: non consegnate i vostri figli nelle mani della tecnologia. Non rinunciate a fare i genitori. Nessuno schermo, per quanto iridescente, può sostituirvi.