Osip Mandel’Stam, I lupi e il rumore del tempo, traduzione e introduzione di Paolo Ruffilli, collana «Biblioteca dei Leoni», L.C.E., Castelfranco Veneto 2013, pp. 96, euro 12,00 – ISBN: 8898613059
«I simbolisti cercano in ogni istante uno squarcio nell’eternità, gli acmeisti colgono nell’arte istanti che possono essere eterni» (Gorodeckij)
Poesia che non si asserva, non si conforma; denuncia del rumore del tempo, lucida, ironica, cristallina e meravigliata di vita, coglie la realtà nello spazio e nel tempo; costruisce per lottare contro il vuoto, cura la parola e la offre «come il cor mi ditta dentro». La lettura profonda della Divina Commedia lo accompagnò fino agli ultimi giorni di vita.
Questa poesia è quella di Osip Mandel’Stam e la traduce Paolo Ruffilli ad apertura della sua nuova collana (Biblioteca Dei Leoni).
In copertina la foto segnaletica di Mandel’Stam all’epoca del suo secondo arresto su fondo color legno, forse la tavola di un’altalena? «dondolavo in un mio vecchissimo giardino/ sulla tavola di una rustica altalena/ ed ecco che degli abeti mi balena/ l’immagine tra le nebbie del ricordo». La parola si connota nella specificità dell’essere sulla soglia tra terrestrità ed eternità che la destina al domani senza mai concedersi ad adattamenti «semplici» per essere compresa […] «conserva sempre le mie parole per il sapore di disgrazia e di fumo».
Ed è musica prima, «arriva da lontano» una partorienza di suono e parola da concertare come in uno spartito che diventa forma nella memoria e nel movimento delle labbra. «lo scalpiccìo operoso delle labbra, è il nesso che unisce il lavoro del flautista a quello del poeta».
Da una terra lontana e insondabile arriva quindi l’esperienza della poesia. «la parola, per me,/ veniva da distante./ Un a priori, quasi,/ l’avvertivo. Un eccitante» scrive Paolo Ruffilli in «Piccola colazione». È sufficiente leggere seguendo la punteggiatura così evidentemente marcata e quasi faticosa per percepire come essa, libera da ogni accademismo, accompagni la commozione e la vicinanza del traduttore poeta al poeta Mandel’Stam che illumina il testo anche nelle espressioni più dolorose.
Perché non c’è un bene che non sappia anche di dolore e neanche una sofferenza che non consenta la luce. E così assistiamo lentamente a quel passaggio di testimone che dalla custodia della moglie fino alla morte nel lager (o durante il trasferimento?) oggi ci consente la lettura di un grande. «È poeta colui che scuote i significati», li avverte nella loro pregnanza, nel ripudio dell’ovvio, nella dolorosa rilettura tesa ad eliminare o riprendere le parole «rimaste impigliate nelle maglie del verso». Mandel’stam era solito ripetere che neanche il rumore distrae il comporsi della parola quando sta per nascere, neanche quello terribile dei suoi tempi e neanche i lupi del totalitarismo russo poterono fermarlo nella sua energia creativa, continua, ossessiva, logorante e felice. Perché di felicità anche parlò il poeta. «la parola è guarigione dalla melanconia».
Le liriche di questa silloge, per ognuna delle quali è indicata la data di composizione, ci offrono una poesia di luci ed ombre, di fughe e tentativi di ritorno, di nostalgia e di accorata lettura del suo tempo; «Mia epoca, mia belva, chi mai/ potrà guardarti dentro gli occhi/ e col suo sangue unire le colonne/ vertebrali dei due secoli vicini?…» e ancora: «Finché c’è vita ogni creatura deve/ portarsi addosso la sua schiena/ e i flutti ondeggiano al gioco/ di un’invisibile spina dorsale [ […]] Mi è piombata sulle spalle la sanguinaria epoca dei lupi/ ma io non sono affatto per mia natura un lupo».
Eppure la svolta autoritaria della rivoluzione russa, bloccando e condannando la libera ispirazione dell’arte ne indicò la sua supremazia. «Se uccidono in nome della poesia, vuol dire che le tributano l’onore e il rispetto che merita, vuol dire che la temono, e quindi la poesia è il potere».
E iniziarono per Osip e la moglie Nadezda il confino da Itaca, la certezza della fine, il desiderio di volerne assaggiare fino all’ultimo la vita contropelo rispetto al mondo tra fughe di notte, elemosine, freddo, nel tempo sanguinoso della Russia non fu lupo fra i lupi e percorse la sua breve vita con la forza di chi non rinuncia ai propri ideali: «noi finiamo per dimenticarci spesso/ sotto un cielo effimero da purgatorio/ che il beato celeste deposito dei beni/ è la nostra casa smontabile mentre si vive».
A metà di Dicembre del 1938 giunse a Mosca all’indirizzo del fratello una lettera destinata alla moglie: «Mia cara bambina, non c’è nessuna speranza che questa lettera ti arrivi. Prego Dio che tu capisca quello che sto per dirti: piccola, io non posso né voglio vivere senza di te, tu sei tutta la mia gioia, sei la mia tutta mia, per me è chiaro come la luce del giorno. Mi sei diventata così vicina che parlo tutto il tempo con te, ti chiamo,mi lamento con te».
E anche questa lettera ultima è spartìto di parola e musica.