La ballata della piccola piazzaUn amico scrittore, Marino Magliani (del quale spero di leggere presto il suo ultimo romanzo uscito ancora per Longanesi: “La Tana degli Alberibelli“), circa dieci anni fa, quando dall’Olanda scende nella sua Liguria per una vacanza, incontra un uomo che oggi ha ottant’anni. Diventano amici. Passeggiano e parlano di letteratura. Marino si accorge di avere davanti una persona non comune, ne coglie la profonda cultura e la raffinata sensibilità. Gli domanda e scopre che ha un manoscritto nel cassetto; se lo porta in Olanda e lo legge. Ne resta incantato e si adopera per farlo pubblicare.
È il romanzo di cui ci occuperemo e il suo autore è un ligure schietto, radicato nella sua terra che non ha mai lasciato, Elio Lanteri.
Siamo in un paese ligure di frontiera, è il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’armistizio. Vi sostano, per il tempo necessario ad abbeverare i muli alla fontana che si trova nel centro della piazza, gli alpini ritornati dalla Francia. I paesani, curiosi, si radunano intorno a loro, ma non ne ricavano granché sullo stato della guerra. Si sa soltanto che la vicina caserma è stata abbandonata e tutti, chi più chi meno, ne hanno trafugato le vettovaglie per sfamarsi: “Era un giorno speciale: i soldati in borghese se ne tornavano a casa, e nella credenza noi avevamo un sacchetto di zucchero, un sacco di gallette e una borsa di tubi militari.”
Inviandomi il libro, Marino mi aveva scritto: Vedrai ti piacerà. Conosce i miei gusti, sa che mi affascinano le scritture dure, scarne, ma sprizzanti attenzione e sensibilità. Non si è sbagliato. La scrittura di Lanteri esalta il racconto, lo scolpisce, lo rende duro e luminoso come un diamante (“tra gli affasciati di ulivi ciarlavano i tordi.”). I nomi curiosi, tronchi (un vero e proprio campionario), dei personaggi sono come pietre muschiose nell’aspro paesaggio delle colline, inselvatichito da rovi e da ginestre: Ciulé (che ha le “gambe sottili da tordo”), Rafaé, Baté U calculu, Meo, Pié, Verdù, Filó, Andreolu U Vasca, Rubé, Giacco (dalle “gambe tozze e storte”), Nicó, Tunin, Violé, Pascé, Tumau, Tunó, Petruciu, Tola, Mausetu, Piuri, Giuà (“un vecchio con aria assente, distante dalle cose del mondo”) ed altri ancora. Questo, invece, è il paese: “In cima all’antico borgo del paese, appignate alla roccia, i muri delle case si sostengono a vicenda. Archi di pietra in alto attraversano il carruggio, stendono le mani per allacciarsi alla casa accanto. Il selciato è sempre umido, il sole raggiunge obliquamente le finestre più alte, i carruggi hanno un odore antico, appiccicoso, di muschio marcio.”
Arricchita da termini in disuso o nuovi, come affasciato, appignato, gerbido, beudo, masche, cavagno, mascalcia, arue, grimasse, e così via, la scrittura pare uncinarsi a noi per sollecitarne dolore e piacere: “Ha sempre nuovi colori, il grande ciliegio, e quando verrà l’inverno, nudo al vento batterà i denti, guardando il mare.”
Ancora una volta, il mare impone la sua tranquilla ma sempre vigile presenza nei romanzi degli scrittori liguri: “aprendo le braccia si può raccogliere il mare.”; “il latte munto profuma di erbe aromatiche e di mare.” È come un marchio, un segno distintivo di una comunanza plasmata dal mare, dal quale finiscono per essere placate le asperità e le tribolazioni del resto del paesaggio. Colline, uliveti, sentieri e terrazze, tutti attendono il mare. Là in fondo, esso scandisce il suo ritmo eterno in una continua incessante osmosi. Il tempo vi crea, così, uno spazio conchiuso, come un nido dentro il mondo: “Seduta sul gradino del casone, la nonna estrasse un pane dal canestro, ne tagliò due fette con il coltello, le bagnò di vino, aprì un pacchetto, e con la punta di tre dita cosparse di zucchero le fette.”
Se la scrittura è asciutta, il mondo che si apre davanti a noi è un mondo di magia e di mistero, che fa pensare a certi romanzi di Carlo Sgorlon, “Il trono di legno”, ad esempio. Le atmosfere si fanno impalpabili e tutto si arresta per penetrare oltre la soglia di un reale che a poco a poco si stempera, si assottiglia e svanisce. “La Cicchetta, ossia la morte che fa la caccia ai bambini e taglia loro i fili della vita (“porta con sé il destino di alitare il freddo”); il vecchio calvo e barbuto (lo incontreremo di nuovo nel finale) che indica a Pascé, il padre, dove è rimasto impigliato Mé, il figlio in fasce che una masca, ossia una strega, ha fatto precipitare in un dirupo; il richiamo ai primordi con “Omi” e “Dones” che erravano nudi da una grotta all’altra e potevano sentire il battito del cuore dell’Ubagu e la sua voce “che sussurra come in una conchiglia di mare.”; l’eremita che vive nella grotta di Dragurina, aprono scenari che ci proiettano oltre la soglia dell’umanamente riconoscibile: “Mi fermai stupito a guardare in alto la faccia luminosa, era una luna ben nutrita e rotonda. Sonnambula in cielo, solo per me cavalcava e sembrava guardare giù la mia casa. […] il gatto di Artemisia, non fissa mai la luna rotonda, sa che la luce che emana è il sole dei morti.” Lanteri procede con una tale naturalezza in un racconto che non ha più i consueti confini, che il lettore vi si trova immerso senza avvedersene. Si veda, ancora, la descrizione dell’inverno all’inizio del capitolo III. La scrittura diventa così la chiave miracolosa per aprire la porta dietro la quale si nasconde il mistero, che si fa presenza e prolungamento della vita, vivibile anch’esso nonostante la sua indecifrabilità.
Un tale connubio tra il magico e il fiabesco (il cielo che si sostiene con delle corde legate alle rocce dei monti, come un azzurro tendone, oppure: “Quando piove, in cielo si forma un lago e sotto il lago c’è un colapasta.”) e una storia ambientata in tempo di guerra, una guerra che sta svolgendosi sotto gli occhi dei personaggi, costretti a rientrare presto a casa per via del coprifuoco (lo zio Pié, il cui vero nome è Pietro Morscio, attende il ritorno del figlio Rubé, dato per disperso: “Dimmi, Giacco, tornera?”), rendono un’atmosfera di rara suggestione. Di nuovo Sgorlon può essere il richiamo più vicino, con il suo “L’armata dei fiumi perduti”.
Per il pastore Giacco, (“Figlio di pastori che si tramandavano da generazioni il mestiere, gente antica, che annusava il tempo e l’erba.”), “In alto, secondo lui, oltre la volta celeste, esisteva la piana immensa del grande tempo, dove tutto era immobile, fisso come le stelle.
Quest’altra è un’immagine tanto bella da ricordarci il “Pinocchio” di Luigi Comencini, uno straordinario capolavoro: “A novembre, come a un segnale di tromba, i vecchi abbandonano le panchine della piazza, si spostano sui sedili di pietra della loggia, al riparo, dove non soffia la tramontana. Seduti in fila, avvolti nelle ampie mantelle, accumulano l’ultimo sole, a bocca aperta, come lucertole.”
Anche la descrizione del cinema del paese, che troviamo nel capitolo VII, rammenta un film: “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore: “Baudo iniziò a girare la manovella e si udì il tric-trac della pellicola che si svolgeva nei rulli; era il momento magico delle immagini sul lenzuolo.”
Ma ce ne sono altre disseminate nel romanzo che riportano al presente una realtà che, miracolosamente, non è più il passato: “Bettonegu, il messo del paese, con la sua trombetta attraversò la piazza dirigendosi verso il portico della loggia; portava il solito cappello nero, con l’immagine di una minuscola tromba sulla visiera.” Al capitolo XIV, la descrizione del funerale del piccolo Meo è un piccolo gioiello: “Meo, ti ho visto nascere, ti ho battezzato e somministrato la comunione, sarei stato felice di aver potuto celebrare anche il tuo matrimonio.”, dice il prete davanti alla fossa.
La nonna di Damìn (che significa Adamo), l’io narrante, Teresì, è lo strumento narrativo con cui è realizzata l’onnipresenza del passato: “La nonna dice che l’inverno si è risvegliato, tossisce e si libera del catarro, presto risalirà il monte per scomparire dietro il valico del Toraggio.” È lei che, accanto al focolare, sollecitata dai due nipoti, uno dei quali è Nicò, racconta storie, narrazioni che hanno sempre dell’arcano.
Esse fanno contrasto con la guerra, cercano di tenerla lontana, di scacciarla. Siamo nel 1944, l’anno terribile delle rappresaglie nazifasciste. Il dolore penetra nelle case, dissemina ferite e tragedie. Il paese è invaso dagli sfollati. La nonna e il fratello Pié hanno dato rifugio a Esther, un’ebrea. Provvedono a lei e a trasferirla di volta in volta in luoghi più sicuri.
A Giugno arriva la notizia che “gli inglesi sono sbarcati in Francia.” A luglio quella che gli americani “bombardavano i ponti ferroviari sulla costa.” In paese c’è Verdù che ascolta radio Londra. È una guerra taciturna, per nulla assordante, eppure permea di sé la vita degli abitanti del paese. Tutto sembra scorrere normalmente salvo che un orecchio sta sempre teso altrove a percepirne l’ovattata presenza: “nella notte fredda, sulla valle, di quando in quando, cadeva una bomba.” I movimenti dei gog (i tedeschi; il termine è ripreso dall’Apocalisse 20:8) e dei Maquis (i partigiani francesi che si collegavano coi partigiani della divisione Garibaldi operante sulle alpi liguri, formazioni di cui faceva parte Italo Calvino) sembrano lenti e furtivi. La casa della nonna è il centro del mondo, dentro e intorno ad essa s’incatenano le vicende. Le scandisce un tempo fatto di gesti e di sussurri che nascono da lontano: “Che fate alla sera in casa dopo il coprifuoco?”, “Niente. A volte la nonna ci racconta una storia.” Tutto è attraversato dall’occhio dei ragazzi, che paiono più forti della guerra. Se la guerra tende a distruggere, essi si nutrono delle storie della nonna per sopravvivere e vincere.
Giunge il maggio del 1945, i tedeschi sono in rotta, in paese ritorna la fiducia: “sul fiume stavano ripristinando i ponti, e la giara nella cantina era piena d’olio.”; “Tra poco saliranno i camion e faremo i primi soldi” dice la nonna, che, però, non ha fatto i conti con la cicchetta che già si è portata via il piccolo Meo ed ora, nel momento della gioia, si viene a prendere Nicò: “io la vidi, non era più alta dello schienale di una sedia, portava un lungo vestito nero con un bavero bianco, aveva alla cintura un paio di piccole forbici appuntite e brillanti.
Attraversò la sala, sfiorando appena il pavimento, e scartò le donne che bisbigliavano il rosario.
Palpò il velluto nero dove Nicò era adagiato, si sollevò sulla punta dei piedi, si protese, contemplò da vicino la sua faccia bianca, e gli soffiò dolcemente sugli occhi un alito gelato. Poi si voltò e incrociando il mio sguardo, mi fece un cenno col capo, quindi si avviò e superò la porta.
Celé ripose il rosario, prese uno scialle di lana e si coprì le spalle, sussurrò a zia Artemisia, che le stava seduta accanto: «Questa è l’ora fredda.»”
Come nel bel romanzo di Salvatore Satta, “Il giorno del giudizio”, Damìn torna dopo tanti anni a far visita al suo paese. Siamo nel 1988, viene da Marsiglia, dove vive. Molti sono morti o andati via, come lui. Rafaé è rimasto; gli chiede perché. Gli risponde: “qui cammini e senti risuonare il passo, altrove cammini e tutto tace.” Dalla cima del monte, Damìn volgerà lo sguardo in direzione del mare e, come a comporre un presepe, gli appaiono i suoi morti.
C’è bisogno di libri come questi, ispirati da una vocazione autentica. Se ne stava nascosto in un cassetto, come una perla racchiusa in uno scrigno dimenticato. Ci volevano la passione e l’ostinazione di Marino Magliani per portare alla luce uno scrittore che chissà quant’altro avrebbe potuto raccontare. Speriamo che gli anni che oggi gravano sulle sue spalle non siano troppo pesanti e possa donarci ancora di queste storie.

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