Tutta FrusagliaChi si ricorda di Fabio Tombari? Ai suoi tempi era uno dei pochi scrittori italiani che viveva con il profitto dei suoi libri.
Nato a Fano nel 1899, vi morì nel 1989. Lasciò l’insegnamento come maestro elementare nel 1944 per dedicarsi completamente alla narrativa. Mi ha scritto l’amico scrittore Lucio Angelini, che vive a Venezia, ma è nativo di Fano “quando facevo le scuole elementari il maestro ci leggeva estasiato pagine da “Tutta Frusaglia”. A Fano era notissimo il ristorante/bar ‘Tutta Frusaglia’“.
Numerose le sue opere: “Tutta Frusaglia” fu la sua prima, considerata ancora la migliore. La pubblicò ad Ancona nel 1927 con il titolo: “Le cronache di Frusaglia”, con una piccola casa editrice, “Lucerna”, ristampata poi da Vallecchi nel 1929. Passò quindi alla Mondadori. Alcuni titoli: “La vita”, 1930; “La morte e l’amore”, 1931; “Le fiabe per amanti”, 1932; ” I sogni di un vagabondo”, 1933; Il libro degli animali”, 1935; “I ghiottoni”, 1939; “I nasi”, 1954; “L’incontro”, 1960; “Pensione Niagara”, 1969.
Nel 1931 Mondadori fa uscire di nuovo l’opera di esordio, a cui sono aggiunti altri racconti, con il titolo definitivo “Tutta Frusaglia”.
Il libro è diviso in XLII capitoli, tanti quante sono le cronache da raccontare, più il commiato.
Il primo racconto è significativo, giacché ci introduce nel mondo che visiteremo.
Due fatti strani accadono al narratore-protagonista: un’ombra pare seguirlo di notte e una citazione gli viene consegnata dall’usciere della pretura con l’accusa generica di furto, di cui non sa proprio niente.
L’autore va in cerca, dunque, dei paradossi e delle amenità della vita, a cominciare da quell’annotazione che riguarda, giunto in pretura, le grosse parole che sono stampate sopra lo scranno del giudice: “La legge è uguale per tutti”.
Così commenta: “Ma se la legge è uguale per tutti, pensai, perché ce lo scrivono?
Gli avvenimenti sono ambientati in un paese che non è difficile identificare con quello natale dell’autore, chiamato nel libro Frusaglia, collocato sulla costa adriatica, a sud delle Valli di Comacchio, tra la Romagna e le Marche, dove tutti si conoscono e conoscono tutto, e dei quali il capo riconosciuto è “sor Terenzio il farmacista”: “Essendo più alto di tutti, fisicamente, in ogni riunione, in ogni assembramento, è quello che domina la situazione.”
Vengono in mente, in questa prima cronaca di apertura, Dickens e soprattutto Collodi, quando si leggono le divertenti pagine del processo. Per Dickens il romanzo “Casa desolata”, del 1853, e per Collodi, naturalmente “Le avventure di Pinocchio”, del 1883, allorché, nel capitolo XIX, il burattino viene processato e condannato a quattro mesi di prigione poiché gli sono state rubate le monete d’oro dal Gatto e dalla Volpe. Dice l’avvocato che sostiene l’accusa contro il protagonista: “Io ancora mi chiedo perché non vi siano pene per coloro che pensano. Intanto le è noto, signor pretore, che la notte stessa alla mia cliente vennero a mancare due grasse pollastre.”
Dunque, la cifra stilistica di Tombari è legata alla riproduzione di un ambiente rustico dei primi del ‘900 con bozzetti di vita contadina caricati del sottile umorismo di chi vi vede comunque radunata insieme dabbenaggine e genuina innocenza: “Quant’era bella Frusaglia con tutte le stelle del mattino! Parevano le stelle tante ma tante lontane case di contadini col lume acceso nelle stalle, e il cielo una valle profonda.”
La scrittura mantiene sorprendentemente la sua freschezza: “Aveva una rabbia tale quella mattina il signor cuoco, una stizza così accanita contro i pesci, che avrebbe diavolato chissà che pretesto per bisticciarsi con qualcuno.”; e sono assenti del tutto i riferimenti che possano ricondurla alle rigonfie e manierate consuetudini letterarie di quegli anni. Altro brillante esempio: “Nacque l’anno delle palombe, a marzo, il giorno della fiera di San Longino, quando partorì la signorina Lea, che non s’è mai saputo chi è stato.”
I personaggi si affacciano sulla scena in atteggiamenti e situazioni gustose, disegnate con l’occhio divertito e benevolo di un intenditore e amatore di quella vita semplice: “Invano Lindbergh aveva scavalcato l’Atlantico. Quegli uomini erano rimasti così, senza grandi imprese, senza grandi infamie, come gente del buon tempo andato.” Il sor Terenzio, il farmacista già ricordato, alto e massiccio come un “Cavour di pietra”, Padre Gaudenzio, “uno di quei frati boccacceschi che non la pensano male”, Sarcofago il campanaro del paese, protagonista di una divertentissima cronaca, la XXXVI, il brigadiere, il signor Lorenz, discendente dei feudatari del luogo, uno dei quali, il bel Giancarlo, “usava mettersi a tavola dopo mangiato.”,il ben pasciuto parroco”, “col solito breviario in mano”, Nando, Piran (“A tre passi di distanza, la sua pipa faceva svenire una vergine, gonfiava un rospo, preservava dai microbi, dagli insetti, dalla zanzara malarica, disinfettava in lungo e in largo tutto il padule.“, il fabbro innamorato Tito (“Se avesse potuto, con la mazza in mano, nudo il petto, scalare al tramonto le montagne, a sole caldo, avrebbe storto anche il sole.”) che di punto in bianco “non canta più”, i fidanzatini Vera e Gianni, l’oste Gabbanella, e tanti altri personaggi minori, che fanno da piacevole comparsa, diventano l’anima di un paese che ritrova e replica nelle loro stranezze la propria fisionomia: la descrizione che troveremo più avanti: “il vento rimase fino alle nove del mattino, impigliato fra gli alberi, a sbattersi come un pollastro” dà il segno di una fusione completa, in un unico blocco variegato, delle bellezze e delle stramberie della creazione, a tutto vantaggio, come per una predilezione miracolosa, del paese di Frusaglia: “è bello essere di Frusaglia”, “Sola, su tutto quel mondo sepolto, s’ergeva Frusaglia nel sole.”
Come si è visto all’inizio, uno dei temi cari all’autore è quello delle ombre. Esso compare spesso in mezzo a bozzetti ridanciani, da un piccola osservazione, da un accidente naturale, come ad esempio, una tempesta; subito, allora, la luce si trasforma nel buio, e soprattutto nell’ombra perniciosa, scaltra e avida nemica, acquattata alle nostre spalle, pronta all’aggressione inattesa: “Quando scende la notte e gli occhi dei gatti sfavillano, ed escono i leprotti dalle buche, e si buttano i falcacci sulle strade, tutte le cose si confondono e come un segreto ragno l’ombra fa la sua ragnatela affumicata. Così nella vecchiezza, crollando a rovina il corpo umano dopo la furia delle vicende e il pianto di non so quali tempeste dell’anima, colpisce la mente una tabe, come una macchia nella memoria, una strana macchia che si muove e si dilata. È la notte, la grande notte degli uomini che vien dietro a quelle ombre.”
Chi fosse tentato, quindi, di confondere questa raccolta di cronache di un paesino adagiato sulla costa adriatica per un intrattenimento destinato ai buontemponi, badi a non farsi trarre in inganno dal sorriso di cui è condita la piacevole scrittura (“Un rocchio di salsiccia fra quei denti di lupo gli sta come un sigaro.”, “Povera Vera, come ti ballano le poppettine alle scosse del pianto!”), la quale invece nasconde un ben più corposo significato: un monito perenne a considerare la vita come il risultato di una forza del cui immenso potere non conosciamo che la minima parte. Una delle cronache che riassumono più compiutamente la poetica, ad un tempo fantasiosa e partecipe, di Tombari è la XXXII, in cui è introdotta la figura di Serafino, un anziano navigatore che ha girato il mondo: “Non conosceva la geografia, ma aveva attraversato tutto il Bechua Land a piedi, navigato per sette mari, lavorato negli alberi della gomma sul fiume Negro, rapito una monaca a Para e militato come luogotenente in un esercito in cui tutti i soldati sono colonnelli.” Vengono in mente tanti novellieri, soprattutto della tradizione toscana, Boccaccio (che è anche ricordato da un personaggio, il prete) e Sacchetti per tutti, che hanno fatto da maestri a generazioni di raccontatori. Tombari ne sa cogliere e replicare l’arguzia e il sapido gusto: “Il buon Gonzaga, messo al bivio fra la lepre al forno e i polli arrostiti, aveva finito per abbracciare entrambe le strade della salute”. Gonzaga e il fratello Ernesto, detto Giorgione, sono dei cantastorie, dei “trovieri che il destino volle far nascere con una grande anima randagia e piena di canti e di fantasmi in un’età così meccanica.”
All’autore piace la vita semplice che si conduce in campagna, ma non indulge mai alla nostalgia. Il controllo è, a questo riguardo, assai severo.
Ogni avvenimento del paese dà origine ad una cronaca: la chiassosa e multicolore fiera, la caccia con gli amici all’unico storno di Frusaglia, la figlia di Gerolamo messa in cinta da Nando, il vino del prete, il quale tiene anche un diario: “Ho ancora i capelli infangati d’inchiostro, per il gran vagare nei paduli della fantasia.”, la leggenda delle “cagne magre e bramose” che di notte escono dalla pineta di Ravenna, “cacciate avanti da un diavolo per mordere i polpacci alle anime degli insepolti.”, la processione, lo sposalizio di Attilio e di Tilde, e così via, rivelano una mente arguta e alla continua ricerca degli aspetti più gustosi, vivaci e, perché no?, strampalati della vita. La qualità dell’autore sta nell’arte di ricamare piacevoli bozzetti in cui movimento e colore viaggiano a braccetto sorpresi nell’intimità da un occhio capace di illuminarli e rivelarli.
Leggete questa descrizione di Giovanni, poeta e sagrestano: “era brutto e orribile. Goffo, pesante, fuor di bilico, con un gran cranio che gli acciaccava la faccia, quella faccia terrea, cespugliosa per la barba rossiccia spuntata a casaccio, come i capperi della casa, sul mento e sopra il naso; un’andatura da orso, un par d’occhi da bove. E poi era miserabile. […] Beveva nel piatto come una tromba marina: succhiava.”
Oppure questa: “La montagna, cupa regione di spettri e di selvaggine, s’ergeva di fronte. Quei dirupi, quegli antri, quel groviglio scomposto di massi e di quercioli, tutta la patria orribile e tempestosa dei vecchi masnadieri marchigiani, sembrava, sotto l’incubo del nuvolame, creata da scalpelli diabolici in un giorno di bestemmie e di bufera.”
Come pure sa dare tutto il sapore fascinoso dei ricercatori d’oro che in Alaska tentano la fortuna nel racconto del frusagliano Leonardo Sventola che è tornato al suo paese: “raggomitolati nelle nostre pellicce cercavamo il caldo e pensavamo lontano.”
Tombari è bravo a sommare il tenebrore della natura (“vaghe ombre diffuse”), talvolta rappresentata in preda a violente tempeste e ad oscurità misteriose (“Sotto il velo di pianto della pioggia, la povera campagna nostra odorava di morte”), alle suggestioni di una fantasia esotica in una miscela quasi incantata, al modo del cantastorie che voglia lasciare un segno di turbamento in chi lo ascolti o lo legga: “Veniva dalle nubi un canto strano, monotono freddo che faceva pensare a carovane di nordici discesi da lontane terre coi loro canti a bocca chiusa.” Lo fa quasi sempre come introduzione al racconto vero e proprio. Vi si legge, talvolta, anche un sentimento tragico legato al mare, come nel racconto del naufragio del peschereccio “Enea” (Cronaca X), che ricorda l’analogo sentimento infuso nei suoi scritti di mare dal viareggino Lorenzo Viani.
L’autore si muove su diversi registri narrativi. L’abilità sta, ancora una volta, nella sicurezza della scrittura, nel dominio quasi maniacale di essa, riuscendo Tombari a non farsi sorprendere mai da tentazioni che lo trascinino oltre il suo ruolo di novellatore. Tre esempi, fra i molti che si potrebbero fare. Il primo è dato dal racconto della morte del vecchio Piran, che occupa la cronaca XIII. Il secondo dalla straordinaria, per misura ed efficacia, cronaca XXXIX, che racconta la morte di capitan Bomba e del suo trasporto funebre, che attraversa il paese nel corso delle feste di carnevale, e tutti credono che quella piccola processione sia una riuscita mascheratura. Il terzo è dato dall’ultima cronaca, la XLII, in cui viene ricordata la giovane e sfortunata Maria (“con un sorriso da malattia sul volto pallido e i grandi occhi stellanti, pareva ritornare da un sogno ferita.”), amata dal narratore. Le coloriture, le scenografie, le emozioni sono date sorprendentemente ogni volta nella giusta misura, con il tocco del farmacista che sa dosare la sua pozione: scrive a proposito di Camillo Pompilio, un incallito cacciatore: “Gli animali del posto, quando lo vedevano, con quel suo rosso faccione sconvolto ogni tanto dal tic nervoso, smarrirsi per la selva come un’anima in pena, gli cacavano sul cappello.”
Un aiuto considerevole gli è offerto dalla spontaneità e dalla estrema naturalezza con cui introduce vocaboli ed espressioni popolari che fanno da gradevole sostegno alla scena: “tuoni spaccherecci”, “avevano bezzicato passeri e galline”, “per andare all’accompagno funebre”, “il vento, come un boaro lontano”; “Vostro padre ha il parletico?”, “con quel cacafuoco in pugno”, “intemperie bubbolanti alla lontana”, “quatto quatto entrai nella canova: una di quelle canove da osterie solitarie”, “col volto scombuiato chissà per quale misfatto”, “infilzato dal trisulco del diavolo”, “la casa del piovano”, “lungo i ghiareti ondeggiavan le pioppe”; “Le parole le diavolava così nella mente”, “Fuggirono a catastrofe”, “Passa una man di tempo”, “sotto un cielo grambretannico”, “una sbornia da muro a muro”; “aveva improntato tutte le spese”, “recutizione”, “cerque”, “indigete”, “acquivento”, “chiassío”, “cutrettola”, “abburatta”, “quacquereccio”, “vangile”, “arola” (la troveremo spesso e sta per camino, focolare), e tante altre ancora, che potremmo addirittura mettere insieme per ricavarne un piacere a sé.
Esempi numerosi si potrebbero fare per quanto concerne la capacità di descrivere efficacemente servendosi soltanto di brevi tratti. Uno su tutti. Il babbo di Nando è stato trovato morto mentre attendeva, seduto davanti casa, la selvaggina: “io l’ho chiamato tre volte: babbo, babbo, babbo. Ha in mano lo schioppo, la testa gli pende come un uccello morto, la pipa gli è cascata in terra.” Lo stesso paese e i suoi abitanti sono dipinti con pochi segni, ma assai efficaci: “Frusaglia, nome strano, gente matta, visi da paradiso, facce da coltellate. Vivono, su, sui loro grossi monti come gufi sul tetto d’una basilica.”, “come ogni umano paese ha il suo cimitero che dopo la nomina del Conte a medico condotto han dovuto allargare tre volte.”
Nessuno potrà mai negare all’autore la capacità di creare immagini con la stessa bravura con cui certi pittori fiamminghi, quali ad esempio Brughel il vecchio e Bosch, dipingevano volti e scene delle loro genti e dei loro luoghi.
Vedete, qui, nella Cronaca XVIII, come la mamma del narratore, appena accennata, s’impone invece per la sua delicatezza: “Laggiù, in fondo alla gaia cittadina illuminata, quel debole lumicino che vedi tra il fogliame è la mia casa: la mia mamma fa la cena.”
La Cronaca XXI, in cui si parla della giovane e irrequieta sposa Gertrude, dell’enorme toro da riproduzione, delle veglie nella stalla nelle sere d’inverno, dei vespri, dà un’ulteriore contezza della qualità narrativa di Tombari. È certamente un racconto che, nella sua misura contenuta, riesce a dare un particolare rilievo ai gruppi di immagini che vi compaiono, i quali prendono luce nella penombra, come in un quadro di Rembrandt.
Un capitolo comincia così: “Da un gatto m’è nato un pèsco” e vi si narra la sciagurata fino di Lindoro, il gatto del narratore, che fu sepolto con accanto un nocciolo di pesca, che si trasforma presto in una pianticina a cui darà lo stesso nome del gatto.
Tombari mostra una fantasia assai fervida, capace di creare situazioni e personaggi all’infinito. Le cronache si arricchiscono spesso di comparse destinate con brevi tratti a trasformarsi in comprimarie. Non vi è una cronaca che annoi, tutte spingono al sorriso e al monito. Il narratore si definisce spesso uno scavezzacollo, un godereccio della vita, un monellaccio irriverente pronto a dissacrare e a schernire, conosciuto in paese per queste sue attitudini; neanche il parroco e la chiesa sono risparmiati dai suoi lazzi. Tutta la consuetudine del tempo che riconosceva nel sacerdote un’autorità degna di rispetto e di obbedienza trapela condita dalle facezie di un irriducibile castigamatti.
Tombari ha la battuta pronta: “Per poco che il sindaco si fosse dimenticato di far allargare il cimitero, e più nessuno sarebbe morto.”
Il mare (“nemmeno la vetrina d’un gioielliere è così ricca e lucente”) è una delle presenze costanti e vive del libro; la sua voce, il suo colore, il suo profumo accompagnano le gesta degli uomini. Si può dire che Frusaglia ha tra i suoi molti colori che la ravvivano e la sostengono, proprio al centro, come fossero i suoi occhi, il colore del mare: “La casa dei vecchioni è proprio sulla spiaggia del mare, a una sassata dal porto. Quando nei meriggi d’estate batte la maretta calda di scirocco, stando in quella casa par di abitare nei mari del Sud, con una sedia a sdraio sotto quattro palme, un barilotto sfasciato su delle casse di birra, l’odor dei maccheroni con le vongole in cucina, un par di sigari e una grand’aria di mare.”
I monti, invece, vi rappresentano la magnificenza oscura e intima della natura, un punto di unione in qualche modo con la divinità. Ecco come descrive gli Appennini, un vero e proprio inno d’amore, che ricorda in qualche modo l'”Addio ai monti” manzoniano: “Non è alta catena l’Appennino. Simile a un mare in tempesta, percorre con le sue immense onde la Penisola. Su quelle cime di scaglia dura non abitano che una dozzina di aquile spennacchiate, vecchi lupi dispersi e pochi frati bianchi. Non vi cresce grano, la vite non vi alligna. All’Italia non dànno che erba per le pasture e forza idraulica per le turbine. E appena appena, lungo creste selvagge, maturano le buone castagne per l’inverno. Le campane del vespro toccano le cime quando a valle è compieta. Però è bello, in autunno, vederli scolorire quei monti, confondersi, morire del male della sera. Allora guardandoli si partecipa dell’ascetismo proprio dei luoghi alti, così che dalla prima stella, come da una finestruzza d’oro, parrà poi che si affacci sul mondo la buona barba di Dio. Sì, siete pur belle, le mie montagne, che il diavolo vi sprofondi.”
L’inaugurazione del treno, sapidamente narrata nella penultima cronaca, diventa una specie di avvertenza per tutti noi dell’imminente affaccio del nuovo nel mondo chiuso di Frusaglia, destinato a mutare volto agli uomini e alla natura.
Tombari lo intuisce, lo sa, e così, con parsimonia e delicatezza, si accomiata da noi, con una specie di addio al suo tempo ormai concluso: “Così finiscono, amici, le prime e le ultime cronache di Frusaglia.
Io vorrei che ognuno di voi potesse leggere queste mie cronache, ciascuno con la sua donna, d’inverno accosto all’arola, mentre sul fuoco gira l’arrosto e sfrigola.
Vorrei poi che fuori cadesse la neve, perché ognuno di voi potesse maggiormente sentire il tepore della casa.
Vorrei inoltre che il vostro vino fosse sincero, e buono il vostro pane, affinché sian rese grazie alla terra.
Infine, vorrei che s’udissero le campane a ricordare a ciascuno la preghiera di Dio.
Domani all’alba, dopo la messa d’oro, prenderò solo per una lunga strada. Alla prima osteria berrò un bicchier di vino alla salute vostra, amici.
Commiato che è, esso stesso, ritratto d’un tempo felice e lontano.

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