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(voce di SopraPensiero)Luigi Zoja è uno psicanalista italiano di fama mondiale. Già Presidente del Centro Italiano di psicologia Analitica e del Comitato Etico dell’Associazione Internazionale per la Psicologia Analitica, è autore di libri tradotti in 14 lingue, tra i quali: Nascere non basta. Iniziazione e tossicodipendenza (ed. Cortina) e La morte del prossimo (ed. Einaudi).
Si è passati, negli ultimi trent’anni, dalla «droga per protesta» al consumo trasversale di massa. Com’è accaduto?
Ho cominciato a occuparmi di tossicodipendenza quarant’anni fa, all’epoca della pubblicazione del mio primo libro, Nascere non basta (ripubblicato nel 2003, N.d.R.). Lavoravo in clinica a Zurigo e ci capitavano casi di pazienti gravi che in Italia non erano riusciti a trovare una cura adeguata. Quello che osserviamo oggi è che, nel mondo moderno, le persone sono sempre più tentate di far uso di sostanze che alterino lo stato di coscienza. Non lo definirei tuttavia un problema della droga, quanto piuttosto un problema del mercato, del consumismo, del fatto che mediamente nei Paesi occidentali la popolazione ha un tenore di vita che le permette di spendere denaro per cose non strettamente necessarie. Una quota del bilancio individuale viene stanziata in maniera ormai fissa (e crescente) per i «godimenti», tra cui compare il consumo di sostanze «stupefacenti» (come le si chiamava un tempo). Il quale consumo non è più qualcosa di extra rispetto all’ordinario ma tende sempre più a integrarsi nella vita di tutti i giorni. Oggi viene ritenuto un diritto della persona concedersi una certa quantità di piaceri.
Si arriva alla droga per caso, o perché se ne sente in qualche modo il bisogno?
In realtà, per quanto dicevamo, né l’una né l’altra cosa. Si arriva alla droga come si arriva a qualunque altro tipo di piacere in vendita; la differenza con il passato è che prima i consumatori tendevano a riunirsi in piccoli gruppi e a fare di questa loro attività una specie di segreto; oggi il consumo non ha più quest’aspetto e si configura piuttosto come una specie di «terapia antistress». Ecco che, in una città come Milano, ad esempio, dove i ritmi di lavoro possono essere molto faticosi e dove si tende spesso a lavorare nei fine settimana ancor più che negli altri giorni (per poter rispettare delle scadenze ecc.), l’uso di cocaina dilaga: perché è innegabile che la cocaina aiuti enormemente a tollerare la fatica. D’altro canto, è difficile parlare di bisogno: la civiltà umana ha vissuto per millenni senza nessuna delle sostanze che conosciamo oggi, eccetto l’alcol; e nessuno ne sentiva il «bisogno». Si potrebbe parlare di bisogno solo nel contesto consumistico in cui nuovi bisogni vengono indotti dal mercato: la cosiddetta «necessità del superfluo».
Quanto conta il contesto nell’avvicinarsi alla droga?
Il contesto conta molto. Per quanto certe definizioni di un tempo, rimaste un po’ come slogan, siano ormai desuete (si pensi alla cocaina come «droga dei ricchi», cosa che non è più vera da tantissimo tempo), resta il fatto che le diverse sostanze hanno ancora un legame con il contesto: la cannabis, o canapa indiana, viene ancora consumata come forma di protesta, mentre la cocaina ad esempio non ha mai avuto questa connotazione; e in effetti le due sostanze tendono a diffondersi in ambienti diversi tra loro (la canapa si ritrova più facilmente in contesti relativamente «alternativi», la cocaina si ritrova più in ambienti lavorativi).
Ma è veramente possibile condurre una vita da consumatori abituali socialmente integrati? Qual è il prezzo da pagare?
L’uso di droghe non permette di distinguere in maniera netta fra chi è «dentro» e chi è «fuori»: ormai per la varietà e per la diffusione di sostanze diventa difficile categorizzare in maniera così recisa. Quello che si osserva è che esistono certamente modi d’uso delle droghe che risultano compatibili con una vita «normale»: si può prestare attenzione ad assumerne nei fine settimana, ci si può autolimitare in maniera adeguata, e la vita finisce per integrare questa attività fra le altre. Del resto questo non è niente di nuovo: nei Paesi del nord-Europa c’è sempre stata la tradizione (seppur discutibile) dell’abuso di alcol nei fine settimana. L’alcol tuttavia è sempre stato radicato nella cultura europea, mediterranea in particolare: qui si è sempre in qualche modo riusciti a mantenerne l’uso entro certi limiti di tollerabilità (la compatibilità con il lavoro, ad esempio). Ciò che però non riesce ugualmente a tutti: c’è chi non tollera l’alcol, o chi non riesce a trattenersi, e lì l’uso fa presto a trasformarsi in abuso.
Quindi esiste una componente individuale.
Sì, e anche forte, legata in specie a dei fattori organici; non si può far dipendere tutto dalla cultura e dalla psicologia. Diciamocela tutta: il problema, che davvero limita l’uomo in ogni direzione, è la dipendenza in sé. La mancanza di libertà interiore, per cui poi i pensieri del “pensante” non sono attendibili. Non è filosofia astratta, è anche esperienza clinica. Naturalmente le dipendenza da alcool o sostanze è tossica dal punto di vista fisico, mentre quella da TV o da altre persone (la mamma ricattatoria, il capo carismatico) non lo è. Ma questo secondo tipo può essere più mortale ancora. Le overdose di eroina avranno probabilmente ucciso qualche migliaio di europei durante l’ultimo secolo; mentre, a proposito di leader carismatici, Hitler e Stalin da soli sono stati responsabili di decine di milioni di morti in un tempo ben più breve. E comunque dietro alle tossicodipendenze più gravi si annida (non sempre ma molto spesso) una dipendenza nell’infanzia (poi non risolta da adulti) da genitori disfunzionali, anaffettivi o comunque patologici.
E possono esserci danni permanenti alla personalità?
La personalità non subisce quasi mai danni irreversibili. Quella che invece viene danneggiata, nel caso di assunzione di sostanze chimiche, è evidentemente la struttura neuronale del cervello: lì il danno è difficile da quantificare, ma è ben visibile ad esempio negli scompensi del sistema nervoso, del linguaggio, della memoria… è ad esempio il caso, ben noto, del delirium tremens.
Com’è la vita psicologica del tossicodipendente? E com’è invece la vita psicologica di chi ha provato la droga e ha deciso di rinunciarci?
Questa della «tossicodipendenza» è una questione nodale che vorrei affrontare senza mezzi termini. Dicendo subito che sono contrario all’utilizzo di simili etichette (per quanto possano risultare comode in tanti contesti), perché la verità è – come in parte già accennavo – che non è possibile tracciare limiti precisi alla nozione di dipendenza. I fattori in gioco sono troppi: il contesto, appunto; la risposta individuale alla sostanza; la propria capacità personale di integrare l’uso nella vita quotidiana e addirittura di trarne in un certo senso giovamento. C’è che ha bisogno di un bicchiere di vino per tirarsi su, e non per questo perde il controllo (anzi, si sente meglio): si può chiamarlo «tossicodipendente»? O addirittura sostenere che abbia bisogno di una cura disintossicante? È evidente che non è così, anche se l’esempio è un po’ estremo. A un livello un po’ più alto, anche l’uso di sostanze può avere effetti e limiti paragonabili all’esempio precedente. È difficile, se non in casi veramente estremi, parlare di tossicodipendenza. E questo anche per un altro motivo: la tossicodipendenza, a guardarla abbastanza da vicino, appare in tutto simile a ogni altra forma di dipendenza che conosciamo e sperimentiamo oggi (vi accennavamo prima): quella da televisione, ad esempio. E io credo che la televisione, in dosi massicce, faccia molti più danni che una delle sostanze di cui stiamo parlando, in piccole dosi. Ma anche ad esempio nel caso dell’uso continuo ed esteso di tranquillanti: quel caso non si caratterizza come tossicodipendenza, ma ne ha tanti tratti in comune. E nella nostra società sovreccitata pare che questo consumo sia in aumento.
Qual è dunque la soglia oltre la quale poter parlare di tossicodipendenza?
Direi che, fin quando in una persona l’aspetto costruttivo prevale sulla schiavitù, non si possa parlare di tossicodipendenza. Ciò nonostante le tentazioni possano essere forti per quella persona; e per quanto l’uso possa essere abituale.
Ciò nonostante il fatto che la psiche di questi soggetti si ritrovi inevitabilmente modificata dalla sostanza?
Il punto è che questi soggetti sentono la modificazione ottenuta come normale, come adatta, e riescono a continuare a condurre l’esistenza (ma anche, più banalmente, una cena di lavoro) in un modo che a loro piace e che li porta a star bene anche con gli altri. C’è chi, al contrario, rifiuta del vino a tavola perché avverte quella alterazione minima con disagio. Insomma, la questione è troppo relativa al soggetto per farne una classificazione tanto generale. Questo non significa, al contrario, che la droga faccia bene: ho conosciuto molti forti consumatori che hanno smesso completamente perché l’eccesso era diventato controproducente. Non esistono limiti assoluti.
Però esistono droghe che conducono direttamente all’«anormalità»: gli allucinogeni, o l’eroina.
Certo, ma non sottovaluterei l’effetto distensivo e pacificante che queste sostanze offrono prima di allucinare (un caso lampante è quello dell’LSD25, che conosco approfonditamente per averlo studiato a lungo); perché è quello il vero motivo per cui si assumono le sostanze. È difficile trovare chi si faccia un acido per il gusto di allucinare. Star meglio psicologicamente è sempre l’obiettivo fondamentale dell’assunzione di droga.
Insomma: non possiamo parlare di normalità e di anormalità in bianco e nero.
È un po’ il succo delle mie letture di Jung, che quasi subito riunciò a parlare di malattia mentale e di «guarigione» psichica. Siamo al solito bivio fra la psicanalisi e la medicina: la seconda si basa sull’idea di guarigione (e quindi di successo della terapia) come «restituzione allo stato anteriore»; mentre la prima ritiene che il successo della terapia consista proprio nell’aver trainato il soggetto al di là di quello stato anteriore che aveva generato il disagio mentale. È la trasformazione e la crescita contro la conservazione; anche se non c’è un vero e proprio scontro, ci troviamo di fronte a due idee piuttosto incompatibili. È Jung a compiere questo grande scarto: tra l’idea di guarigione e quella di «individuazione», cioè riuscire a scoprire se stessi per poterlo finalmente essere: nozione se vogliamo già nota all’antichità classica, che ne faceva il fine della formazione giovanile, la paideia. Scoprire e vivere al meglio i propri potenziali, questo è l’obiettivo dell’analisi junghiana; che non è incompatibile in linea di principio con un’assunzione moderata e controllata di sostanze stupefacenti.
Un invito alla consapevolezza, a 360 gradi.
L’esistenza è degna (e in certi casi addirittura possibile) solo quando è consapevole. Il pensiero critico e libero è più importante – anche se meno rassicurante – delle categorie «chiare e distinte» che alla fin fine non si attagliano alla realtà. Mantenere una mente aperta è l’unico modo per comprendere il nostro mondo moderno. E per cercare soluzioni ai tanti problemi che ha.