Sono ben oltre un centinaio le opere di questa autentica e imbattuta regina del gotico, che godette di un successo di pubblico davvero invidiabile: una straordinaria macchina da best seller. Di contro non godette dei favori della critica. I suoi romanzi, il primo dei quali fu «Rina, o l’angelo delle Alpi», del 1877, hanno visto varie riduzioni cinematografiche. «Il bacio di una morta», di cui ci occuperemo, vanta due trasposizioni: la prima del 1949 ad opera di Guido Brignone; la seconda del 1974 per mano di Carlo Infascelli. Entrambe con lo stesso titolo del romanzo.
Un’altra opera celebre è «La Sepolta viva», del 1896, che ad essa è strettamente congiunta, come lo è «La vendetta di una pazza» annunciata dall’editore come «seguito e fine al «Bacio di una morta»», e uscita nel 1894, inframezzata da «L’orfanella di Collegno», del 1893.
«Il bacio di una morta» si apre con una lunga dedica al marito Marcello Quinterno, che va segnalata per la delicatezza del sentimento e per il debito di riconoscenza che l’autrice riconosce nei confronti del marito: «Se la mia vita triste, ritirata, ha un lato luminoso, è la vostra tenera e cordiale bontà per me. A voi debbo l’ispirazione di molti miei lavori; voi svegliaste in me l’idea di sollevarmi alquanto dalla mediocrità.»
Alfonso, sposato con una donna andalusa, Ines, non ha più notizie della contessa Clara Rambaldi, sua sorella. Un giorno riceve da lei una richiesta d’aiuto e quando giunge a casa sua apprende la notizia che è morta da pochi giorni.
La morte farà da guida a questa storia. Essa sarà sempre presente, sin dalla visita che Alfonso ed Ines faranno alla tomba della sorella: «Il solenne silenzio che regna in quel luogo, sacro al riposo dei morti, i grandi alberi, le croci mortuarie, tutto è propizio alle più folli e deliranti visioni. La è la morte: davanti, di dietro, al nostro fianco, sotto i nostri passi, sotto l’erba che calpestiamo; è impossibile sottrarsi al suo pensiero. Anche l’uomo più forte, più scettico trema, si sente il cuore stretto da una gelida pressione. I monumenti assumono ai nostri occhi un aspetto strano, fantastico, bizzarro; ombre vaghe, sfumate, sembrano librarsi dinanzi a noi, fra le tombe, nell’aria; un sudor freddo scorre per tutto il corpo, le labbra diventano mute.»
La bara, che si trova depositata nella cappella in attesa della sepoltura, viene scoperchiata e assistiamo ad una descrizione di Clara che ci suggerisce il confine labile tra vita e morte. Clara sembra viva, la sua bellezza è intatta. Potremmo definirla viva o morta, indifferentemente: «Ella era bella di una celeste purezza, e sotto quelle trine candide, con quel vestito bianco, pareva una vergine assopita nei pensieri del cielo.» È un passaggio chiave, che va al cuore stesso della ispirazione e della poetica dell’autrice, strettamente legate al suo tempo. L’aspetto gotico e macabro è rafforzato qui da un romanticismo in certi punti perfino esasperato, che però in quegli anni conquistava ed esaltava molti lettori. Non è da escludere in questo rapporto tra la vita e la morte, in questa corrispondenza di sentimenti tra i vivi e i defunti, la suggestione dell’opera foscoliana «Dei sepolcri», del 1806.
Il racconto si svolge quietamente, con tempi mai frettolosi, anzi tendenti ad una sorta di dilatazione. Si direbbe che sia proprio da questa dilatazione che derivi, pur nel macabro in cui ci ritroviamo immersi, la leggerezza della storia. Se si eccettui lo stile che paga un largo tributo al suo tempo (»Clara teneva i gomiti appoggiati alla balaustrata e con una delle bianche e affusolate mani sosteneva la bionda testa. Non si poteva vederle il viso, ma dai sospiri frequenti che le sollevavano il petto, si capiva l’affanno che le pesava sul cuore.»), si potrebbe dire che il gotico della Invernizio è agli antipodi degli horror che invadono la narrativa e il cinema di oggi, allo stesso modo che il poliziesco di un Conan Doyle o di un’Agatha Christie sono lontani dai pesanti e spesso violenti gialli che invadono gli scaffali delle librerie.
Nella trama compaiono anche tracce di quel fiabesco macabro (figli sgraditi e allontanati) che ritroviamo in tante favole, da Cenerentola, a La bella addormentata nel bosco, a Pollicino, e così via, per limitarci alle più note. Poco o niente invece troviamo di quanto di importante era appena accaduto o stava accadendo in Francia con autori come Stendhal, Balzac, Flaubert, Hugo, Maupassant, Zola, se si fa eccezione per Alexandre Dumas e Eugène Sue, ai quali la Invernizio è debitrice di qualche tributo (ad esempio a «Il conte di Montecristo», nel camuffamento di Clara – «la Dama Nera» – recatasi a Parigi per vendicarsi sul marito e ritrovare la figlia Lilia). I due autori d’Oltralpe, infatti, assai famosi e popolari, non possono essere stati ignorati dalla Invernizio, che ne deve aver assorbito, da essi più che da taluni minori, alcune fantasie.
Da quando Clara è uscita dalla catalessi che l’aveva fatta credere morta, la storia ripercorre per larga parte l’antefatto. Ossia, Clara viene a sapere da unvecchio e devoto servitore della madre defunta, Nemmo, dell’esistenza del fratello. Ne prende cura, all’insaputa del padre, che lo crede precipitato in un burrone come gli ha raccontato, mentendo, il capraio Ronco che lo accudiva sin dalla nascita, e ne fa un giovane elegante e istruito.
Il rapporto tra Alfonso e Clara, della quale Guido ignora che il primo sia fratello, sarà causa di incomprensioni e litigi tra i due sposi. Come lo sarà Nara, l’affascinante e malvagia ballerina, che, sedotto il cuore di Guido, si frapporrà fra lui e la moglie. Questa è una delle descrizioni di lei: «Era splendidamente bella ed abbigliata con elegante semplicità. Nulla di più voluttuoso dei suoi occhi grandi, stupendi, dalle pupille luminose: il suo colorito bruno era alquanto animato: le labbra sensuali, di un rosso vivissimo, spiccavano sullo smalto dei denti bianchi, umidi, come quelli di un fanciullo: la bruna lanugine, che gettava una specie d’ombra agli angoli della bocca, dimostrava il carattere focoso, appassionato di quella donna: le sue narici rosee si dilatavano frementi: nello sguardo aveva qualcosa d’indefinito, d’imperioso.»
Mescolando a tratti il genere macabro con quello cavalleresco, l’autrice tesse una trama che si va via via infoltendo e complicando, sostenuta com’è da una immaginazione ricca indubbiamente di notevoli suggestioni. Sciantose maliarde, conti, duchi e marchesi, duelli, fughe e riapparizioni, veleni, collegano la Invernizio alle correnti europee del romanzo avventuroso e popolare.
Non si può nascondere che il peso degli anni grava fino alla fine sul romanzo, in vero più sulla scrittura che sulla cupa storia, la quale, infatti, ancora mantiene tesi i fili della narrazione. Figlia intera del suo tempo (si pensi all’uso di certe parole, come colpabilità in luogo di colpevolezza), ne consegna a noi le tracce con una testimonianza di consuetudini e di sentimenti oggi del tutto mutati.