Uscito nel 1932, (in calce Rèpaci ha segnato la data del «7 novembre 1931 in Viareggio»), è il primo dei volumi che costituiscono la «Storia dei fratelli Rupe», conclusasi con «La terra può finire» del 1973. Prima del 1973 abbiamo, oltre al primo: «Potenza dei fratelli Rupe» (1934), «Passione dei fratelli Rupe» (1937), «Tra guerra e rivoluzione» (1969), «Sotto la dittatura» (1971).Vi si narra di una famiglia calabrese allo stesso modo che, nei medesimi anni, Giuseppe Dessì, che viene subito alla mente tra gli scrittori meridionali, racconta di una famiglia sarda, il cui capostipite è Angelo Uras. L’autore dichiarò di essersi ispirato alla storia della propria famiglia: «Questo romanzo è, nelle grandi linee, la storia di noi Répaci».
Répaci fu un assiduo animatore della vita culturale del secolo scorso. La sua memoria, oltre che a questa «Storia», è legata al Premio Viareggio, di cui fu il fondatore nel 1929 insieme con Carlo Salsa e Alberto Colantuoni. In Lucchesia, a Pietrasanta, morirà nel 1985. Prolifica fu la sua attività di giornalista, finché non l’abbandonò per dedicarsi alla stesura degli ultimi tre volumi della sua opera principale. Fu anche pittore.
La Morte, si potrebbe dire, appartiene al Sud, vi è di casa, come estrema falciatrice e come ispiratrice delle azioni degli uomini: «Quando il mondo è così lucente, sparire è così doloroso. Ciò dà rilievo, credito, potenza alla Morte.» Il romanzo si apre descrivendo la morte silenziosa di Antonio Rupe, che, come Angelo Uras nella saga di Giuseppe Dessì, è stato un uomo coraggioso e rispettato (era chiamato «Maestro») nel suo paese, Sarmùra, in origine «un castello di pescatori, poi ingranditosi, che prese nome dall’acqua che bevve Oreste pellegrino ad una sorgente». Ha lavorato una terra, Calimèra, arida, soda, infestata dalla malaria, e ne ha fatto un’azienda modello, finché la sventura (esito di cause in Tribunale) non si è accanita contro di lui, portando nella famiglia povertà e dolore. La sua morte peggiora le cose, ma, per fortuna, oltre alla vedova, ha lasciato dieci figli, tutti di forte carattere. Mariano il maggiore, davanti al morto, promette alla famiglia, e in particolare a Leto, il più piccolo, «il fanciullino» (del quale seguiremo tutti i sospiri e i passaggi della crescita) che penserà lui a procurare di che sfamarsi, con l’aiuto degli altri fratelli già grandi, Cino, Pietro e Tristano. C’è tutto il Sud in questo avvio. Ecco un brano dedicato alla descrizione di Sarmùra: «È un paese sempre pronto a mutar faccia, a sostituire i suoi blocchi di case strette aggrondate ferrigne con altre ancora più strette, più aggrondate, più ferrigne. Soprattutto più basse, ché il terremoto non ama la boria, perciò recide senza pietà le fioriture troppo ricche degli alberi di pietra, su cui gli uomini, questi uccelli dalle ali invisibili, fanno il nido.»
Répaci è un autore in cui si mescolano prodigiosamente asprezza e fantasia, solarità e incanto, in un’ambientazione di luoghi che hanno avuto altri celebri cantori vissuti tanti secoli prima, come Cassiodoro e Strabone, ai quali Répaci va collegandosi come un albero nuovo nella foresta antica.
Sono cambiati i tempi ed ora (siamo nel 1908) circolano nuove idee, di cui i fratelli Rupe si fanno portatori; sono idee socialiste, rivoluzionarie. Per questo i maggiorenti di Sarmùra, guidati dall’avvocato Licèrta, «un uomo senza scrupoli che s’è arricchito con le eredità e l’usura», cercano di screditarli e di mantenerli isolati, ma cozzano contro la loro tenacia e la loro tempra di combattenti forti e decisi: «Il pensiero del domani deserto può esser più pauroso di un abbraccio di vipere.» Sono abituati ormai alle avversità e alla lotta contro la natura aspra e il destino mai compiacente. Non temono nulla. Nei Rupe si riflette nitidamente il carattere di Répaci, schierato dalla parte degli oppressi e nemico pervicace del parassitismo e dello sfruttamento. Il romanzo sfoga una tale fede in una scrittura sanguigna e accidentata, illeggiadrita, ogni tanto, da preziosi arabeschi: «Si leva l’Alba dal suo letto rugiadoso e profumato, steso nella vallea, infila la sua migliore vestaglia, trapunta di fiori celesti pallidi, si raccoglie i capelli biondi sulla nuca, e va al ruscello a lavarsi la faccia. Sua madre, la Notte, la guarda con dolce malinconia, scrolla il capo, e svanisce.»
Sono le idee socialiste riproposte poco più tardi ne «Il mulino del Po» (1938-’40), il capolavoro di Riccardo Bacchelli, quelle sostenute dal ventottenne Mariano Rupe per la difesa e il riscatto del «contadiname». La gente lo ammira e lo rispetta, giacché non ha paura, al contrario di Donna Maria, la madre, che teme per la vita del figlio e si appella alla saggezza di un vecchio socialista, Michele Parrello, affinché lo induca ad una maggiore prudenza. Lancia i suoi strali contro i padroni esosi ed arroganti dalle pagine del giornale rivoluzionario «La Falce», di cui è direttore. Ha una barba che gli arriva al petto, «bionda e ricciuta come quella del Nazzareno. Veste sempre di nero e porta un cappello a grandi tese che gli dà un’aria romantica.» Anche «Novecento», il bel film di Bernardo Bertolucci, del 1976, riprenderà gli stessi temi.
Rèpaci, quindi, appare come uno dei capostipiti della rappresentazione di una civiltà contadina umiliata e sofferente, colta nel momento di una non semplice, travagliata e lunga emancipazione.
Il romanzo, attento ai fermenti sociali («Ci son già nell’aria e Lenin e Mussolini»), non trascura tuttavia di osservare la crescita dei più piccoli Rupe, di Leto in modo speciale (si ricordi che Leonida era il minore dei dieci tra fratelli e sorelle). Questi osserva i grandi e vorrebbe già essere come loro. Una sposina quattordicenne, Grazia, il cui marito è partito per l’America subito dopo il matrimonio, è la più bella di tutte le donne che vengono a lavorare alla fornace. Se ne sente attratto. La ragazza non gli nasconde di nutrire per lui della simpatia. Leto e Nèoro, quando la domenica esce «La Falce», sono in strada a fare gli strilloni e quasi sempre si accapigliano con i ragazzi che vendono il giornale dei padroni, «La Nuova Sarmùra», che al contrario del giornale socialista, vende, però, assai meno copie.
Cino, più ancora di Mariano (nel quale «più limpido è il socialismo»), si sente rivoluzionario, «innamorato di Robespierre», vuol lasciare «un segno di sé nel mondo». È il più inquieto e complesso della famiglia. Cova dentro di lui «l’odio del borghese di tradizione e di cultura, che è dovuto uscire dalla sua classe, per una dura lezione di cose, e che non può guardare, senza rodersi, quelli che, nella classe, ci sono restati». Ha anche il vizio del gioco delle carte («Per vincere l’inquietudine che lo travaglia con dell’altra inquietudine.»), che a Sarmùra infetta gran parte del paese, ma non Mariano che lo riprova. Mariano è un esempio per tutti: «In lui la forza diventa spesso umiltà, che è la forza suprema.»
Répaci ci delinea i tratti, ad uno ad uno, dei componenti della famiglia, uomini e donne, ma già indica al lettore i due personaggi che nella storia dovrà tenere d’occhio come solidi punti di riferimento, Mariano e Cino. Tristano ha anche lui una sua peculiarità, che è tutta spirituale: «La dolcezza del carattere di Tristano ha trovato il suo completamento nei pellegrinaggi spirituali, ha scoperto il bene dappertutto e se n’è saziata, è arrivata, in sede culturale, a un cordiale relativismo, pur restando intera e inattaccabile sul terreno morale e affettivo.» Pietro avrà invece una storia d’amore con una donna sposata, Sara. Gilda è la più caparbia tra le quattro sorelle, non si lascia intimorire, «non cede mai, replica nelle discussioni all’infinito, non ammette di potersi sbagliare.» Si arrende solo davanti a Mariano e a Cino, al quale sente di assomigliare. A lei l’autore dedica una descrizione delicata e commovente, che vale la pena riportare, limitandoci al brano iniziale: «Gilda è cagionevole di salute. La miseria della famiglia l’ha colpita nel momento più delicato dello sviluppo. È rimasta fragile e scialba. La sua carnagione ricorda certe piante acquatiche che si scolorano negli stagni. Le sue labbra sono pallide e asciutte. Il suo corpo un po’ slegato e infantile: il gambo di una rosa tea. È tutta ardore sotterraneo, sviluppo di nervi. Gilda sente il temporale come se la sua persona fosse una gran ferita cicatrizzata. E, quando il vento infuria, o quando il tuono rotola sulla casa, lei diventa uno spettro, fa paura, la sua faccia si tira sulle ossa, prendendo la forma del teschio.»
Materia e spirito, principio e fine, vita e morte, si congiungono in questo ritratto che ha pochi precedenti per originalità e introspezione, e demarca una personalità creatrice che, a quella vulcanica e passionale, unisce miracolosamente una ispirazione carica di sottile e sofferente umanità: «I bambini la temono e cercan rifugio presso Anita, quando l’altra li minaccia o, semplicemente, li guarda con i suoi occhi bui.»
Lina è la maggiore, ed anche la più bella, non solo della casa ma di tutta Sarmùra: «Lina ha l’intelligenza di Cino e l’orgoglio di Gilda. [ […]] Non c’è nessuna fanciulla di Sarmùra che le stia a pari per la sobria eleganza delle mosse, per la distinzione della camminata, per certa regalità che è nella povertà, allorché la si sappia portare con lievità, non con dispetto. [ […]] I giovani di Sarmùra, tra i quali non pochi ricchi figli di proprietari, aspettano, la domenica, al varco, alla messa, od in ‘Villa’, la bella figlia di Antonio Rupe.» Ma Lina «non li degna di un’occhiata.»
Répaci ci fa entrare, con questi accurati ritratti dentro la casa dei Rupe, oltre che dentro i personaggi. Infatti, la descrizione non li riprende nella loro staticità come succede in un dipinto, ma imprime a ciascuno un movimento che si propaga, ad uno ad uno, nella famiglia, sopra la quale vigila con il suo silenzio e la sua discrezione la madre Donna Maria.
Il romanzo è strutturato a cerchi concentrici. Si parte da quello domestico, e a mano a mano ci si allarga al paese, alla società, ai problemi politici e sociali, tenendo sempre presente, però, che, in quei luoghi, le nuove idee non possono fare a meno di legarsi strettamente alla tradizione, così che è necessario convivere con una specie di alleanza tra Gesù e Marx, tra il «Sermone della montagna» e «Il Capitale». A Sarmùra, ossia, regna questo dittaggio: «Se il Signore non c’è avrò sentito suonar gratis l’organo. E, se c’è, mi guadagno una fetta di paradiso.»
Non c’è, il Signore, per Concetto, «caporale» alla Fornace dei Rupe, detto «Mezzomo» per la sua impotenza sessuale, il quale si macera nella sofferenza e la notte fugge di casa come un pazzo ed erra per ore e ore nella campagna. Quando fa ritorno, sua moglie, Nina, cerca di consolarlo, ma Concetto ha la rabbia in corpo e se la prende anche con lei. In paese si dice che Nina si sia fatta degli amanti. Siamo entrati, come si vede, in una casa che non è più quella dei Rupe, e ci affacciamo anche nella casa della signorina Bàrbaro, la maestrina povera che fa lezioni ad alcuni ragazzi del paese, tra cui Leto; poi passiamo dalla prostituta Paola, detta «Veneranda», «distesa sul letto insieme con un omaccione seminudo.»; andiamo anche a Torino, alla pensione Carmagnola, dove è alloggiato Tristano Rupe, e conosciamo la padrona Emilia e la sua famiglia, e così via. Sono trasferimenti graduali che si prefiggono un disegno complessivo che – si avverte – si comporrà in un grandioso mosaico, con tessere che già si presentano ricche di cesellature e di una qualità di scrittura spesso superba, in cui il verbo al presente e l’uso misurato di termini tipici del luogo – che meriterebbero uno studio a parte tanto sono funzionali alla storia (bastino quell’ «amaritudini» o quella «perdonanza», o quel «riconoscitive» invece di riconoscibili, o anche quel «ciuciulianti» e quell’ «iemale» in luogo di invernale) – creano una successione assai gradevole di freschezza e di vivacità. Leggiamo, ad esempio, questa descrizione di Sara, la moglie di Cosimo, il cantoniere, sempre reclusa in casa dalla gelosia del marito, nel momento in cui scende a dare un po’ d’acqua a Pietro Rupe: «Si mostra sulla soglia in tutta la vivezza della sua avvenenza. Il corpo della donna è almeno bello quanto il suo viso. Un po’ piccolino, ma mosso e spiccato; uno di quei corpi che, anche sotto il rozzo arbascio, mostrano la festosità delle loro linee;di quelli che disegnano sulla veste che li ricopre una vaga morbidezza di movenze, l’incavo del grembo e l’onda delle mammelle. È bianca di carnagione, ed ha sui capelli un oro rosso, che ricorda certi cieli settembrini sul tramonto, allorché l’estate lenta a svanire dà le sue serate di addio con una magnificenza riassuntiva e miracolosa.» Si osservi l’uso sapiente e preciso delle parole, tese ad un difficile connubio, qui felicemente raggiunto, tra sensualità e leggerezza.
Ma Répaci è molto bravo in tutte le descrizioni, tanto di personaggi quanto di ambienti. Quando ci fa entrare nella pensione della signora Emilia, a Torino, sentiamo la familiarità che unisce tra di loro i vari pigionanti, tutti un po’ innamorati dalla bella Renata, figlia della padrona. Così pure, si muovono e sorridono davanti ai nostri occhi le maschere del carnevale esposte, a Sarmùra, nelle vetrine dei negozi. Respiriamo le atmosfere e le gioiosità della «festa delle Verginelle, che ricorda alla lontana i pranzi dei padroni ai servi nelle ‘saturnali’ latine.» Ascoltiamo le lamentele dei cani rinchiusi nel canile, lo «stabulario», dove Milord, il cane «di senno e di tavolino» dei Rupe, che vi è stato imprigionato dall’acchiappacani, tiene testa agli altri dodici compagni con argomenti presi in prestito dai suoi padroni; udiamo il chiasso e ci beiamo della luminosità della festa della Madonna del Carmine, che inaugura la stagione dei bagni: «Dappertutto è confusione: amici che si chiamano, gole che cantano spiegate, mandolini e chitarre che attaccano ariette in voga, donne che sorridono, occhi che si cercano, mani che hanno l’argento vivo.», alla quale fa seguito, come inframmezzo, la tragica leggenda della «disonorata». Le pagine dedicate al mare sprizzano di chiarità solenne.
Finché il dolore di Répaci per la miseria della sua terra, non esplode nel canto di chi l’ama intensamente: «Manca di tutto la Calabria, eppure, nell’incontrarla, non le sai mettere a paragone, per varietà, bellezza e maestà, altra terra, al mondo.»
Si capisce così che tutta l’attenzione che l’autore pone nel ritrarre uomini e cose che le appartengono, discende dal grande amore di un figlio che non la dimentica.
La narrazione procede con passaggi da una situazione all’altra, ma un tale frammentarismo (che trova la sua esemplificazione visiva nelle scene del terremoto del 28 dicembre 1908, conosciuto come il terremoto di Messina, che distrusse anche Sarmùra) non manca tuttavia di unicità posto che i personaggi che appaiono sulla scena si portano dietro un pezzo di Sarmùra, coi suoi segreti nascosti nelle case, con i caratteri chiusi e forti dei suoi abitanti, con le trafitture che provengono da una terra bella e tragica.
Concetto, di cui si è già parlato, ne è un esempio. Si è sposato da poco con Nina, una donna bella e sensuale, che fa girare la testa agli uomini. Ma Concetto si rivela impotente. Nina cerca di confortarlo, è buona con lui, ma il marito teme che prima o poi lo tradisca («è di quelle che lasciano dove passano odor di letto.»), e allora chiede a Mariano, verso cui nutre una vera e propria adorazione, di diventare lui, prima di altri, l’amante di Nina. Gli confida queste cose e poi «fila verso casa, a capo basso, come se portasse sulle spalle un peso enorme.»
Anche la natura ha la selvaggia bellezza che la lega ai suoi abitanti. Catanzaro è una città battuta dal vento, ed ecco come Rèpaci la descrive: «Passa la gente rasente i muri, sfidando la collera dei cornicioni e delle graste fiorite sui davanzali, si tiene stretti gli abiti sul corpo, come se qualche ladro glieli volesse portar via. Le donne, preoccupate, come sono, di tirarsi sulle gambe le sottane, che le dita del vento arricciolano con stravaganze barocche, fanno i visi duri e sciupati. Suonano le campane delle chiese, ma il tempo interrompe le loro cadenze melanconiche con i suoi arditi virtuosismi di controfagotto. Sbattono usci e finestre, volano i cappelli dalle teste arruffate, e i ciottoli delle strade hanno le gobbe lucide come bottoni di reclute passate in rivista dal generale. Il generale è quell’ululante maestrale, che butta ali di gabbiani sciaguattati sul verde smeraldo del mare e, sulla terra, criniere di leoni.» Pare di avvertirvi la selvatichezza di un Lorenzo Viani. Altre pagine intense sono dedicate alla piaga della siccità: «Gli scogli aprono le bocche mostruose, mostrano le gengive secche, i denti infocati, le gole bronzate. Le terrazze si pelano di ogni verzura. La terra ha preso un colore rossiccio ed è tutta grumi. Nelle sue incrinature appaiono corpiccioli di serpi, di lucertole, di salamandre, di scarafaggi, di scoiattoli, di topi, morti di sete. Arriva, specialmente la sera, da lontano, la peste delle carogne abbandonate nella campagna desolata. Si sbarrano le porte e le finestre, per impedire alla peste di entrare nelle case e di impregnarle.»
Il brigante Malaspina, «generoso e crudele», che una notte va a trovare Pietro Rupe,è «un figlio di Calabria, che ha succhiato aceto forte dal seno materno.»
Il romanzo vive e si sostiene per tutto il suo percorso su di una tale asciutta e raffinata selvatichezza, capace di sprigionare profumi aspri e intensi. Le singole parole si avvinghiano alle tradizioni severe di un’antica terra e ne trasudano.
Così come in Verga il tema è quello dei vinti e della «roba», in Répaci sono la miseria e la Malasorte a inselvatichire gli uomini. Il percorso per sconfiggerle è sempre arduo e lascia profonde ferite. Rare volte l’uomo riesce a spuntarla e a dimenticare. Si vedano le pagine sulla siccità e sul terremoto, amaramente avvolte dai segni di un destino ineluttabile.
L’analisi che il Brigante Malaspina e i fratelli Rupe fanno delle condizioni del Sud, che hanno preceduto e seguito l’arrivo di Garibaldi e dei piemontesi, richiama alla mente altri scrittori che hanno seguito l’esempio di Répaci e trattato lo stesso tema, a partire da Carlo Alianello fino a Raffaele Nigro.
Le vite private dei Fratelli Rupe, dunque, dopo averci dischiuse, coi loro frammenti, le porte di una società arretrata e desiderosa di cambiamento, ora si riuniscono in un’azione comune che si collega alla verità e al suggello della Storia. Dice il brigante: «A me pare che da Roma non arrivino che sbirri e agenti delle imposte. Dobbiamo farci mangiare da questi pidocchi, senza neppur tentare di far sapere che siamo ancora vivi, e che, in un momento di disperazione, sapremmo appiccare il fuoco, non solo alla Calabria, ma all’Italia intera?»
Cino, che rammenta il movimento insurrezionale di Tommaso Campanella (1568 – 1639), «il più illustre comunista della sua terra», fallito miseramente nel 1599, e poi, promosso da un suo seguace, fallito nuovamente nel 1634, è il più perspicace nell’analizzare i rischi di un’alleanza tra il movimento dei socialisti e il brigantaggio: «Noi concepiamo l’insurrezione in modo diverso. Per noi son le masse che creano dal di dentro la rivoluzione.»
L’idea però di unire Campanella e Marx, «La città del sole» e il «Manifesto dei Comunisti», lo alletta.
Tale progetto, sebbene sia al centro dell’attenzione dei maggiori protagonisti, scorre nel romanzo come un fiume carsico, apparendo e sparendo, ma lasciando sempre intorno a sé il rumore della sua presenza.
Il paese continua a vivere il suo quotidiano; Leto, cresciuto e conquistati nuovi amici, continua a fare la sua scoperta del mondo reale. Il compagno di scorrerie di Leto e Nèoro, Ciccio Attisani, un giorno porta quest’ultimo davanti ad una baracca dove stanno in attesa, «seduti su sgabelli e su sassi», degli uomini. Ogni tanto uno di essi entra nella baracca e ne esce dopo una decina di minuti. Nèoro non capisce, ma ad un tratto compare sull’uscio una donna tutta nuda – la prima che egli vede -, si tratta di Filomena «la mala cristiana», una prostituta «dalla pancia grossa e dai seni enormi e flosci che ricordano gli otri delle ciaramelle», la quale avverte quegli uomini che se non hanno denaro è meglio che se ne vadano, giacché lei non fa «credenza» a nessuno: «Chi è il primo si faccia avanti […] Qui ce n’è per tutti, se Dio vuole […] Si batte spudoratamente le mani sulle natiche che stioccano lascive e rientra nel capanno.»
Pare di vedere una delle donne di Fellini. Si tratta di pagine molto vivide, che sottolineano la capacità, sempre sorvegliatissima, di Répaci di modulare su più timbri la sua scrittura. Filomena la malacristiana, Marianna la zingara, presso la quale la gente si rifugia per essere liberata dalla Malasorte, sono figure che ripropongono la visione di una civiltà rustica che viene da lontano, non ancora consumata dal tempo e destinata, anzi, a perpetuarsi: «Marianna arriva a tutto. Più dotata dell’erba ruta, la quale, dice il proverbio, spegne sette mali, la zingara, quando s’è messa una pallina di sale in bocca, e ha chiuso, in mano all’affascinato, un chiodo, e gli ha lambita la fronte tre volte, e tre gli ha alitato sul viso, e tre ha sputato per terra, e ha recitato, per ultimo, il ‘carme’ di scongiuro, il suo potere non conosce limiti, s’identifica col destino.»
Ciccio Attisani è affetto da impetigine. Una parente di sua madre, una «gobbetta», lo porta dalla zingara. Ciccio vuole che vadano con lui Leto e Nèoro, i suoi più cari amici, affinché vedano anche loro. L’operazione è sbrigativa: «Dopo avergli imposte le mani sulla testa, ed aver mormorato alcune oscure parole, gli unge con la sua saliva la macchia pruriginosa, e gli soffia in viso. Ordina alla gobbetta di procurarsi la saliva di un uomo che ha passato lo Stretto di Messina, la quale è definitiva per l’impetigine, e di mettere al malato un cornetto di corallo nella tasca sinistra della giubba, contro la malìa.»
Qui non è solo protagonista il paese che si trova al centro della storia, non c’è solo la Calabria, ma tutto il Sud antico e fascinoso che ancora perdura. Vi si aggiunga la festa della «Bara», che rappresenta ogni anno l’ascesa al cielo della Madonna, in cui gli scoppi di mortaretti, le bancarelle, il canapo che solleveràl’ «Animella», rappresentata da una bambina che fingerà l’ascensione al cielo, creano quella chiassosa celebrazione paesana che ancora oggi tramanda la tradizione religiosa e popolare del Sud. Anche se, purtroppo, nell’occasione ricordata da Répaci, all’ «Animella» accadrà una disgrazia.
È un malaugurio, giacché da lì a poco, nel corso di un comizio nella piazza centrale di Sarmùra, ci saranno incidenti tra il popolo socialista e le forze dell’ordine, e si conteranno «una diecina di feriti: sei sovversivi, due agenti, un carabiniere e un soldato. Fortunatamente feriti lievi.»
Cino è riuscito a scappare e si è rifugiato nella immensa foresta della Ferrandina, dove il brigante Malaspina ha stabilito il suo quartiere generale, che nemmeno i soldati osano sfidare. Malaspina, infatti, vi tiene una vigilanza e una disciplina ferree: «ispeziona le milizie almeno due volte la settimana, e sempre in ore impreviste, chiama a rapporto i capi subalterni, la mattina di domenica, obbligandoli a sentir la messa – che viene celebrata da un prete spretato, omicida ed evaso da Nisida, davanti a un rudimentale altare, con l’immagine di Gesù e la lampada accesa».
Mariano invece ha trovato asilo da Concetto, dove vive Nina, la moglie di cui Concetto vuole che Mariano diventi l’amante. Così accadrà, infatti, in modo affettuoso e tenero; ciò nonostante recherà comunque un immenso dolore allo sfortunato marito: «Resta, Concetto, a far la guardia al nido. La guardia, perché nessuno turbi il rito che si sta compiendo, che un altro, più degno, celebra per lui, col suo consenso, con la sua complicità. Si appoggia con le spalle al tronco di un ulivo, e così aspetta l’alba. Varca la soglia dell’abituro invecchiato di dieci anni. Nel suo genere, un eroe ed un martire.»
Poi, all’alba del 28 dicembre del 1908 si scatena improvviso il terremoto. La tragedia, minutamente descritta, si trasforma attraverso il lutto e il dolore in una palingenesi redentrice che trova nelle parole di Tristano, accorso da Torino ad assistere i fratelli, il suggello di una fede e di una speranza ritrovate, giacché «Il terremoto ha spaccata la terra, come avete veduto, ma ha anche spaccate, guastate, le anime.»
La partenza da Sarmùra di alcuni dei Rupe, tra cui Cino, per rifugiarsi provvisoriamente a Torino, ospiti di Tristano, conclude la prima parte di una saga che resta una delle più imponenti nella storia della nostra letteratura.