L’autrice è una psichiatra con la passione per i viaggi; il marito ancora più di lei, e così la coppia si ritrova a percorrere ogni tanto itinerari inconsueti, fuori dalle linee del turismo ufficiale, in mezzo a sorprese e a difficoltà improvvise. L’esercizio, l’esperienza consentono loro di resistere e di tornare a casa arricchiti di sensazioni e di immagini. L’Africa è la terra preferita, l’Africa più nascosta, quella che invia loro i messaggi più suggestivi. Daniela non ce la fa a tenere tutto per sé, e così racconta agli altri attraverso i suoi libri: “Ho raccolto qui storie di incontri con animali, paesaggi lontani e persone diverse, così come si raccontano al ritorno agli amici (e soprattutto ai loro bambini, che si divertono molto ad ascoltarle), e vi ho aggiunto alcune riflessioni.” Questo brano è tratto dalla introduzione dell’autrice, già di per sé ricca di attrattiva e di fascino: “Sono tuttavia convinta che in viaggio il tempo scorra diversamente, e particolari luoghi e situazioni lo dilatano a dismisura.” A proposito dell’incontro con culture diverse e dei processi psicologici che si avviano nel viaggiatore, osserva: “Viaggiare, ricordiamolo, significa anche saper tornare. Per saper tornare, bisogna innanzi tutto non perdersi.”
In viaggio uno dei piaceri più avvertiti è quello di poter incontrare altri viaggiatori come noi, per sentirsi vicini la sera intorno ai falò, quando più avvertita è la paura delle belve, sempre affamate e in cerca di prede. Daniela ne ha una paura esagerata, lo sa ma non può farci nulla. Ha visto come i leoni squartano le prede, uno spettacolo orribile: “È la morte meno dignitosa che posso immaginare.” Una notte sente dei piccoli rumori, sembrano quelli di uno sciacallo, e invece sono di un branco di elefanti: “Bestioni che pesavano tonnellate facevano lo stesso rumore che può fare un minuscolo topo.”
Per chi non ha mai esplorato luoghi come questi, il libro, scritto con semplicità e gradevolezza, è una miniera di conoscenze. L’autrice riesce a farci viaggiare con lei, ad essere con lei presenti in quei luoghi. La penna è delicata, una sapiente mano femminile indagatrice ci sa porgere esperienze emozionanti conservandone intatti i colori e i profumi: “Ci aveva colpito l’inconsueta luminosità del paesaggio, che sembrava deserto. Poi sotto un’acacia scorgemmo una giraffa, completamente immobile. Guardammo meglio e vedemmo altri animali altrettanto immobili all’ombra degli alberi. Li guardammo a lungo aspettando che si muovessero. Ma erano come fissati nel paesaggio incandescente. Poi, come dal niente, come per magia, comparvero alcuni elefanti. Attraversarono il fiume, neri e lucidi. Sparirono uno alla volta negli alberi e il paesaggio parve immobilizzarsi di nuovo.”
Lo fa trasmettendoci anche i suoi timori davanti ad una natura che appare immensa e misteriosa. Riuscire a compenetrarsi, a capirla, ad intuirla anche, non è facile: “Forse sono una iena, in fondo. Cioè qualcosa di imperfetto, di stonato, in questo paesaggio.”
Quando la bellezza ci colpisce, vorremmo fermare il tempo, per trattenerla con noi per sempre. Invece non si può: essa ci ammalia e si allontana. Si prova una grande nostalgia per quell’attimo fuggente. Tutta quella perfezione e quella bellezza misurano la nostra finitudine. In Africa succede spesso: la natura ci scuote e mette alla prova la resistenza dei nostri sentimenti e il vigore della nostra personalità. La bellezza, la perfezione potrebbero, infatti, travolgerci. L’autrice sottolinea questi passaggi con delicatezza e partecipazione: “vorremmo che il tempo si fermasse in quei momenti, invece continua a scorrere trasformando l’incanto di un attimo in una precoce nostalgia.”
Peter, il bambino che porta l’autrice e il marito Fausto, psichiatra pure lui, sul fiume Okavango, su una piccola barca, si guadagna da vivere in questo modo. Vorrebbe andare all’università; intanto ha messo da parte diciassette dollari namibiani per potersi comprare le scarpe, che ne costano settantacinque. Pur essendo abituato a contemplare la bellezza dei luoghi, ogni volta ne resta affascinato, e osserva la natura con lo stesso entusiasmo e con la stessa folgorazione che sorprendono il turista.
Ma a volte accade, quando siamo eccessivamente felici, che l’orizzonte dei pensieri si espanda, e allora pensiamo a cose tristi, intensamente.” La felicità non è mai pura, contiene, anche se minuscola, una venatura di tristezza. È una conseguenza della complessità dell’animo umano, e soprattutto del mistero del nostro rapporto con il creato: “Peter viene da un mondo antico (o da un mondo possibile) che noi stiamo cercando. Lui ha bisogno del nostro mondo (le scarpe, l’università…) e noi abbiamo bisogno del suo.”; “Cercare di capire perché Peter mi fa pensare che dobbiamo crescere per diventare come lui, per ritrovare qualcosa di adulto presente nell’infanzia che da adulti si perde.”
L’autrice, allorché assorbe la bellezza che si trova davanti, la trasforma immediatamente in un dono. Il viaggio non è solo contemplazione, bensì intimità e arricchimento: “quello che in fondo ricerco in questi viaggi è imparare da persone molto diverse qualcosa che ci possa aiutare a vivere in una maniera migliore.” Il silenzio strappato e imposto dalla bellezza si fa conduttore di una emotività che scuote e sollecita la mente. È per questo, anche, che la felicità è sofferenza.
L’autrice ha una tale grazia nel porgerci la sua esperienza di viaggiatrice, che il lettore si sente trascinato nei luoghi rappresentati assumendo i sentimenti e le sensibilità di cui il testo è colmo. Non sembri esagerato andare con la memoria ai libri della scrittrice danese Karen Blixen, morta nel 1962.
Daniela Toschi, pur non essendo scrittrice professionista, ne ha tutte le qualità, anzi qualcosa di più, che deriva da una innocenza della scrittura, non inquinata dall’uso continuo e indiscriminato della parola: “Poi sentimmo chiamare e vedemmo una ragazza che correva verso di noi, scendendo la collina dietro al villaggio. Correva a piedi nudi con una grazia tale che sembrava volare.” Ci fa desiderare altri viaggi raccontati con la stessa quieta ricchezza data dall’amore. Daniela è senza dubbio, anche lei, come altri del passato, una esploratrice dell’anima, di quella “parte dell’anima incontaminata dalle numerose e diverse culture in cui ci siamo declinati o coniugati.”
Non immaginavo di trovare tanto interesse per un libro di viaggi e di appassionarmi alla scrittura dell’autrice, che sa alternare a descrizioni esemplari, momenti intensi di riflessione, racchiusi in una frase semplice e apparentemente innocua: “La natura e gli animali non annoiano mai, se ne desidera ancora di più, sempre di più e sempre più da vicino.”
Non so quanto sia stata consapevole che il suo modo di rappresentare le cose e i sentimenti altro non è che il frutto di quell’universale sentire che ci rende simili l’uno all’altro. L’io narrante, infatti, si trasforma in ciascuno di noi: “Cosa m’interessava in particolare? Mi sarebbe piaciuto sapere il nome di tutto quello che vedevo, perché ero sopraffatta dalla bellezza di ciò che mi circondava e avevo bisogno di parole che mi aiutassero a delimitare e distinguere quella massa informe di sensazioni visive, e non solo visive. Ero curiosa dell’erba, ad esempio. C’erano almeno due distinte qualità di erba dorata. Mi sembrava fondamentale saperne il nome. E poi c’erano gli uccelli. Ce n’erano di tutti i colori, di tutti i tipi. Ognuno aveva il suo particolare canto. C’erano dei cespugli spogli che attiravano il mio sguardo. Davano come morbidezza al paesaggio, e risalto alla tessitura del cielo.”
Le calza a pennello questa definizione che l’autrice fa dell’artista: “L’artista è colui che afferra qualcosa dal cielo e lo porta agli altri uomini. È questo il suo desiderio: afferrare questo qualcosa, e distribuirlo.”
Una lezione per coloro che, bravi a scrivere, fanno della scrittura un mestiere finalizzato al denaro. In realtà, l’artista non è mai quella parte professionale e mercantile che appare, ma ciò che nel suo intimo lo spinge al dono.
Nel libro appaiono anche le contraddizioni presenti nell’Africa: schiavitù, violenze, sopraffazioni, sfruttamento dei forti sui deboli, disparità tra la ricchezza e il consumismo ostentati dal turista, da una parte, e la povertà dei residenti dall’altra; e il pericolo che la presenza di una civilizzazione occidentale inquini e distrugga l’antica e serena consuetudine di vita: “Vanno a scuola e imparano molte cose, ma non la loro cultura tradizionale.”
Gli occhi dell’autrice, nel mentre restano affascinati dalla magia di un’Africa sorprendente, misteriosamente mai uguale a se stessa (“L’Africa parla, anche se le cose che dice sono difficili da capire.”), osservano anche i segni di un pericolo minaccioso, ancora sottile e sotterraneo, ma già percepibile: “l’umanità ha preso una piega storta, a un certo punto, non si sa bene quando. Ha rotto l’equilibrio. Forse non poteva farne a meno, e forse non c’è rimedio.”
E allora?: “occorre porre un freno alla nostra smania possessiva, affinché non distrugga tutto ciò in cui vale la pena di far sopravvivere il nostro spirito.”
È una raccolta di esperienze che ci insegna molte cose, trasformando l’Africa in un banco di prova per tutti noi, in un esame di ciò che siamo e siamo stati, ma soprattutto in un monito a prendere coscienza che il cammino intrapreso dall’uomo deve essere corretto, così che la bellezza che ancora sopravvive non venga cancellata per sempre dalla nostra stupidità.

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