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(voce di Luca Grandelis)a ogni voltar di pagina
convoglio la presenza
di tutta la mia apprensione
e di tutte le mie fiducie
è un dispormi al viaggio
sub signi crocis
unica protectione
Mi sono imbattuto nei versi di Fiammetta Giugni allo stesso modo in cui ci s’imbatte in un torrente di montagna: il loro corso è sicuro, solcato da un’esperienza e da una perizia di anni, ma a tratti e spesso in coincidenza con le chiuse o con gli attacchi delle liriche, l’intensità del contenuto fuoriesce dai margini.
Subito ho trovato significativa la scelta di copertina operata dall’editore, Gianmario Lucini: il bianco luminoso delle lune montane e i sassi che vengono attraversati dall’acqua corrente e levigati dalla sua forza. Quasi l’acqua stesse nel suo tragitto vitale come il sangue nelle arterie sotto pelle, per irrompere a causa di un dolore improvviso da una ferita, o dallo spasmo di un parto che dà la vita alla creatura incubata, così «la misura di terra» (p. 36) diventa prova d’amore. E i sassi smussati siano i resti «dell’armatura d’ossa di pietra» (p. 35) messa alla prova dal passaggio del tempo; o rotolino nel buio sprovvisti di una meta, una conca che li trattenga, like a rolling stone intonava Bob Dylan nel 1965.
La poesia di Giugni è in evoluzione, e di corpo quanto di spirito. Si percepisce intenso il suo legame con il paesaggio montano in cui è cresciuta e ha cresciuto una bimba, ma non solo, con la natura e con gli animali che lo popolano – la professione di medico veterinario -: una lirica che tende all’equilibrio nella posa di un istante tra istinto e ragione, e al contempo cambia nella cifra orale che l’autrice imprime ai suoi versi. «Purché il corpo resti», afferma lapidaria a pagina 41, e ripercorra la trasformazione, la crescita della terra di cui siamo creature e a cui sente di ricondurre le proprie radici: ella «vive in presenza del monte / al cospetto perpetuo dell’alto» (p. 46). Tramite un verso autentico tende sia ad alzare la scala tra il monte e il cielo, sia a proteggersi dall’impeto della Grazia: «qui è rimasto uno scudo di parole / perché tu sei la lancia» (p. 73). La natura ci avvolge con il suo eterno ritorno, il ciclo delle stagioni, un cerchio – o meglio – una spirale che ricomincia sempre con nuove variazioni, contrazioni o rilassamenti che siano, il movimento del diaframma. La morte diviene allora una tappa del percorso, accettata e affrontata con l’entusiasmo di chi si aspetta già una rinascita. Difatti la fiamma, di cui il suo nome è diminutivo, canta rinnovando la sua sagoma secondo dopo secondo, non rimpiangendo una stasi, ma tenendosi eretta fino a che ci sarà ossigeno da bruciare. L’autrice umanizza la natura mostrando le somiglianze che ci trattengono a lei, come fossimo un’appendice ribelle. Il sentimento in questione è un’empatia sacrale che permette l’unione: il frutto del fico si fa cuore pulsante che a maturazione si apre al Tutto, a pagina 19
«verrà – dico al mio fico –
il tempo dei tuoi frutti
i più dolci dell’hortusle grosse gocce del tuo sangue
avranno la mia riconoscenza».
È una poesia che concepisce e accetta i poli opposti che orientano l’umano: «Chiaro e Scuro / così innocenti e intatti […]» (p. 31) e che a volte dilaniano la nostra esistenza, inconciliabili «fra il tuo basso ostinato / [ […]] e l’obbligo / della mia libera preghiera» (p. 40). E proprio nell’hortus clausus, nel suo brolo, Giugni canta sciogliendo i ricordi, pianta i frammenti del vissuto, la ghiaia diafana a cui siamo ridotti, concimandoli con l’amore per ciò che ci circonda: «in che forza d’amore / ti confondi» (p. 23).
Giugni ascolta di frequente il suo respiro, metronomo regolatore, «[ […]] tacito filo conduttore / che collega i miei polmoni / al suo centro di propulsione» (p. 49), e l’unica forma seguita è quella dell’oralità interiorizzata che si compie nel monologo. La commistione con il latino è intimo colloquio con se stessa che marca l’intensità necessaria di una lingua nata per risuonare tanto nell’orecchio quanto nell’anfratto stretto dell’invocazione solenne. Mentre l’uso del dialetto valtellinese sottolinea la ricerca dell’aderenza del parlato al contesto. «Abbiamo un nome solo», ci ricorda a pagina 44, e vuole «gustarlo nel suono / (chiuso a dirimersi in bocca)» (p. 38). Quasi totale è l’assenza di punteggiatura e di maiuscole: non c’è gerarchia o superiorità strutturale, siccome «pensa sia troppo dura / la sostanza / per contenere il senso» (p. 62), bensì soltanto un prima e un dopo involontari e ineluttabili, infatti «non è mai autunno per caso» (p. 34).
Danni Antonello in un intervento online del 2008 su blanc de ta nuque ha scritto che gli «appartiene la tendenza al soliloquio, per come si specchia nella poesia de LA SPINA DORSALE: il controcanto viscerale del singolo che è costretto, comunque, e nonostante il mondo, a morire da solo»; e pure Giugni oggi scrive «tu, al centro / sempre / [ […]] come spina dorsale / a reggere» (p. 43). Benché i due autori provengano da vicende e da una formazione interiore molto distanti, pressoché agli antipodi come approccio alla realtà, entrambi si ripiegano su di loro all’interno del reciproco hortus conclusus in una prima fase, per poi proporre la voce all’esterno.
Paragono l’Exitus dell’autrice alla pratica del sapiente che aspetta su un lato del fiume il mutare degli eventi, liberatosi dall’affanno dell’incoscienza, nella serenità di un presente consapevole. Con una lirica visionaria nel buio della notte e palpabile nella luce del giorno, per cui «l’importante è osare / la dicotomia (p. 78)», pare volerci dimostrare che solamente conoscendo noi stessi – per quanto ci è dato, s’intende – potremmo fidarci degli altri e condividere le nostre esperienze senza sbattere in testate d’angoli.
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Fiammetta Giugni (1955) vive a Sondrio e svolge la professione di Medico Veterinario. Per le Edizioni l’officina del libro di Sondrio ha pubblicato il libro di racconti La luna e l’aquilotto e la raccolta di poesie Logotelia (con prefazione di Abramo Levi). Le sue poesie sono presenti in numerose antologie Lietocolle; sono apparse in riviste quali Frontiera, Il vascello di carta, Le Voci della Luna; inoltre nel catalogo della mostra Zenit Nadir (Poschiavo, 2011). È vincitrice del «Premio Turoldo» 2008. Ha tenuto readings di poesia a Milano, Bologna, Orvieto, Sondrio e Poschiavo. È socio del Pen Club della Svizzera Italiana e Retoromancia.