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(voce di Luca Grandelis)Maria Roberta Cappellini (www.mariarobertacappellini.it/) è pubblicista, saggista, studiosa di estetica e di filosofia interculturale e Presidente del Centro Interculturale dedicato a Raimon Panikkar (www.cirpit.org). L’abbiamo intervistata a proposito del suo ultimo libro incentrato sul pensiero di Raimon Panikkar: Sulle tracce del sogno dell’uomo (ed. Mimesis, 2010).
Un libro dedicato al sogno dell’uomo. Qual è questo sogno, espresso fin dal titolo?
È il sogno dell’uomo attraverso il tempo e attraverso le tracce lasciate nelle varie tradizioni scritte e orali. Il discorso sarebbe lungo e complesso ma in linea di massima attenendomi alla presentazione dei Veda fatta da Panikkar posso far riferimento alla metafora dei tre stati dell’essere, dei tre mondi: l’al di qua (lo stato di veglia), l’al di là (lo stato di sonno) e lo stato intermedio (sogno). Quest’ultimo potremmo dire «vede» entrambe le sponde: sognando quindi si inizia a superare la differenza spazio-temporale e ad attingere al mondo delle immagini, chiamato dalle tradizioni Mundus Imaginalis, mentre dalla psicologia Immaginario collettivo, due concezioni come spiego nel mio libro molto diverse, financo agli antipodi. Il primo è relativo ad uno stato sottile riguardante il mito, il rito, il simbolo, le forme di meditazione, di contemplazione, di preghiera, iniziazione, profezia ecc., ossia le facoltà interiori e spirituali dell’essere umano. Dimensione negata in Occidente con l’avvento del dualismo cartesiano e della filosofia e psicologia moderna incentrate invece sul corpo e la mente, ossia solo sul versante «terraqueo». Di questa visione è erede la nostra cultura dell’»immagine spettacolo» (intendo l’immagine tecnologica o mediatica svuotata di ogni contenuto elevato o profondo). Un’immagine che appare in superficie rivelando uno sguardo da parte dell’uomo che non sa più entrare nelle profondità abissali, rimanendo a livello di introspezione soggettiva corredata da un immaginario psicologico rinchiuso nell’individualità dello stato egoico.
Il sogno viene considerato da alcune culture uno stato posto sullo stesso piano della veglia; in Occidente, invece, esso viene in genere caratterizzato come assenza della coscienza vigile. Che valore conoscitivo possiede il sogno? Cosa ci rivela a proposito della forza e dei limiti della ragione?
«I sogni ci comprendono più a fondo di quanto noi stessi ci comprendiamo», affermava Hillman, parafrasando Eraclito. Come emerge dalla stessa domanda, alla base delle diverse concezioni antropologiche dell’uomo esistono concetti di coscienza differenti come appare nelle varie tradizioni. In Occidente nel XX secolo, il sogno è stato riabilitato dopo secoli di oblìo filosofico, dalla scienza psicoanalitica, ma relegato alla dimensione inconscia per lo più compensatoria dello stato di veglia, sempre e comunque individualmente autoreferenziale, con il solo rafforzamento dell’Io razionale. Mentre nell’arte e in parte della filosofia antica (es. Eraclito) o contemporanea, come per esempio in W. Benjamin, o Merleau Ponty, così come R. Guénon o E. Zolla, ha avuto una diversa e più ampia considerazione, fino ad abbracciare potremmo dire per sintetizzare ed intenderci, la sfera del superconscio o del sovraindividuale, omeomorficamente equivalente a concezioni orientali più espanse, come quelle indicate da R. Panikkar o A. Coomaraswamy, che fanno capo a modalità cognitive di tipo appercettivo intuitivo o non cognitive, pertanto alla coscienza non riflessa e quindi non coincidente con il pensiero. Queste tradizioni ci ricordano che l’uomo è posto tra la Terra e il Cielo e che per trovare l’armonia della vita il suo sguardo dovrebbe spaziare oltre i percorsi monodirezionali attuali , per lo più logici e razionali e quindi corrispondenti allo stato vigile di veglia (logos), per poter riscoprire la realtà veritiera del mito, che come ci mostra il sogno, è parte costituente della nostra vita. Riuscire pertanto ad integrare armonicamente le due dimensioni, del mito e del logos, alle quali ne aggiungerei una terza molto cara a Panikkar: quella del silenzio.
Siamo abituati a leggere Panikkar in cornici interculturali o religiose. Il suo libro invece abbraccia, per la prima volta in Italia, una prospettiva estetica. Si può parlare di un’estetica in Raimon Panikkar?
Certo perché no? Dipende da quale estetica. Non quella riferibile esclusivamente alla sensibilità emotiva e alle sue forze reattive istintuali, come insito nell’etimologia, e che ripropone la classica dicotomia tra corpo e mente, quanto piuttosto a quella riferibile ad un contesto più ampio della conoscenza e della spiritualità: l’intelletto-amore degli Scolastici, di Dante («Qual è colui che somniando vede» […]) o dei mistici come Eckhart e quindi artistica e non solo riduttivamente estetica. Comunque in generale potrei fare riferimento ad un’illuminante frase di Panikkar quando parlando di «un’arida teologia contemporanea che si è riservata il diritto di parlare di Dio», affermava l’importanza fondamentale del ruolo dell’estetica (in senso profondo contemplativo) nello scoprire la dimensione divina. In tal senso l’Arte ed in particolare l’immagine a mio avviso, potranno avere un ruolo essenziale nel processo di trasformazione dell’uomo in quanto alla base della sua autopercezione. L’immagine è collegata infatti alla sfera del pathos ed alle sue derivate quali l’empatìa, la simpatìa, la compassione, forme di conoscenza più legate alla corporeità ed all’intuizione che alla sola razionalità e soprattutto alla coscienza di cui il pathos costituisce il movimento intelligente nel processo interrelazionale profondo di collegamento di tutta la realtà visibile ed invisibile per intenderci («cosmoteandrica»). Oggi questa «immagine» deve cambiare valenza, acquisendo spessore e sacralità dal confronto con forme artistiche di altre culture, divenendo occasione di una nuova consapevolezza e risensibilizzazione dell’umano. Un filosofia interculturale volta anche ai linguaggi artistici quindi, per risvegliare la nostra aspirazione più profonda. Tutto questo è profondamente presente nel pensiero e nell’opera di Panikkar.
Sfrutta molto le linee teoriche di Benjamin e Lacan. Ritiene che Panikkar – sempre molto laconico nei confronti della psicanalisi – mostri influenze di questi due autori?
Non c’è un collegamento diretto tra Panikkar e Lacan ma l’approfondimento che tento di dare nel mio libro rispetto alla tematica lacaniana accompagnata dalla teoria della visione di Merleau Ponty, riguarda in particolare il fenomeno della scissione dell’io (conscio ed inconscio/ io e l’altro): ossia «la deposizione della signoria del soggetto», per usare una metafora significativa. È questa in particolare che può aprire ad orizzonti cognitivi «altri», cui si riallacciano il mito e il sogno, indubbiamente propedeutica ad una visione olistica o cosmoteandrica come quella panikkariana, che richiede la fase destruens relativa all’ego per aprire il campo alla fase construens, elevando all’ esperienza simbolico-contemplativa della realtà, che origina ma al tempo stesso trascende il pensiero logico concettuale, come ci dimostra in molte tradizioni l’esperienza del sogno veritiero. Il simbolo dunque, l’immagine, risultano fondamentali ai fini dell’intuizione profonda, come aveva ben colto Benjamin con il suo sogno dell’»angelo della storia» (ispirato al quadro di Paul Klee), a significare che ogni epoca sogna la successiva secondo quell’intuizione che si esprime secondo il filosofo sottoforma di arte, pittura, poesia, ossia sottoforma di immagini archetipali. Nessun rapporto diretto di Benjamin con Panikkar, ma indubbiamente tale binomio ha rappresentato per me un confronto significativo, sia per quanto riguarda l’aspetto mistico che quello metafisico dei due filosofi, aspetti presenti in modo differente in entrambi, soprattutto sottoforma di «una concretezza metafisica», non riferibile cioè a nessun «sistema» filosofico naturalmente, quanto ad un’esperienza autentica.
Probabilmente la filosofia occidentale non ha ancora fatto tutti i conti con i due limiti del pensiero: l’impensabile e l’impensato. In che modo la metafisica di Panikkar può contribuire allo sviluppo di una filosofia schiacciata tra un gigantesco complesso di superiorità e la continua tentazione di ridursi a mera ancilla scientiae?
Decostruendo, semplificando, essenzializzando attraverso il vissuto, l’esperienza personale mistica e la coscienza della nostra relatività (ossia della realtà di interconnessione ed interdipendenza in cui viviamo). In una parola attraverso «l’umiltà» come ci rivela la sua etimologia, quell’humus, simbolo della terra, del corpo, delle radici, dello stato di contingenza dell’uomo. È questo stato che, come rivela la sua etimologia rappresenta quel famoso punto di tangenza in cui tutto ciò che esiste si collega, si relaziona o si tocca. Il «tocco mistico» è legato alla terra ed alla corporeità. Spiritualità e corporeità si interpenetrano nelle profondità inesauribili dell’Essere, in tal senso impensabili, ma paradossalmente generatrici di pensabilità ulteriori secondo un processo continuo cui il pensiero attinge come ancora impensato. Il sogno, il mito in quanto simbolo, li rappresenta entrambi: l’impensabile in quanto origine del pensiero, l’impensato quale pensiero dell’origine. Ciò che è limite per la ragione non lo è per lo spirito, o detto in altri termini la Realtà con il suo Mistero continuamente ispira al contempo trascendendo il nostro pensiero.
Cita a volte gli «Incontri non scritti di Vivarium», nei quali Panikkar si riuniva con gli amici per parlare di filosofia. Com’era Panikkar in quegli incontri: inedito? Rigorosamente coerente? O sorprendente fino all’eterodosso?
Era estremamente chiaro, profondo e allo stesso tempo attento ed amorevole, ma soprattutto la sua parola era di ampissimo respiro, trasparente, comunicativa a volte oltre il limite strettamente linguistico, poiché toccava tutti in profondità. Mai uguale a se stessa ma sempre rinnovata sotto nuove forme e approfondimenti. Vi era uno scambio interlocutorio di idee, di pensieri, vero e palese. L’ umiltà o umanità di Panikkar si manifestava attraverso l’ascolto profondo rivolto a tutti e in questo senso fecondo. È anche così infatti che si sviluppava la sua riflessione e la sua riscrittura continua, secondo questo dialogo dialogico assimilabile alla creatio continua. È in questi incontri che ho appreso il senso profondo dell’umiltà quale dono dello spirito.
Il suo libro contiene numerose illustrazioni a colori a tutta pagina di Giuseppe Billoni. Anch’esse delle «tracce» da seguire?
L’opera artistica di G. Billoni, al di là del suo particolare rapporto di amicizia con R. Panikkar, è stata scelta in questo testo come esempio di un percorso immaginale. Le forme, i colori, i suoni delle sue opere e delle sue poesie invitano a seguire un percorso di tipo sinestetico quasi assaporandone l’aroma o percependone l’aura, in grado di avviare ad un’esperienza profonda e ad una visione simbolica della realtà anche nell’osservatore. Il simbolo infatti evoca, suggerisce, allude, tocca, ma non concettualizza. [Nella videointervista – CirpitChannel: http://www.youtube.com/watch?v=Wzh_5ZONx_s, – la parola passa a Billoni].
È Presidente del Centro Interculturale dedicato a Raimon Panikkar in Italia, da quasi due anni. Come sintetizzerebbe quest’esperienza? Quali progetti sono in cantiere per quest’organizzazione che ha già cambiato la forma del sito e della rivista, aprendosi sempre di più a un modello multimediale e interculturale?
Un’esperienza nata in tutta spontaneità e semplicità, dal contatto diretto con la sua persona, oggi potremmo dire un tributo ad un Maestro dell’umanità, di cui desideriamo che il Centro ne rispetti e diffonda il pensiero e l’opera, incentivandone lo studio soprattutto tra i giovani, attraverso il sito internet, ed il progetto co-editoriale Cirpit-Mimesis che riguarda due iniziative internazionali che dovrebbero vedere la luce nel 2012-2013: la Rivista e una Collana di pubblicazioni a lui dedicate, nella speranza che il suo lascito continui a ispirare e a fecondare noi tutti, in armonia.