(voce di Luca Grandelis)

ORESTE FORNO, L’altra montagna (quella che porta più in alto delle cime), Bellavite Editore, Missaglia (LC) 2011, pp. 160, € 13,00. Codice ISBN: 978-88-7511-174-8

Il sole radente di un pomeriggio di novembre illumina il volto di Oreste. Seduti attorno, un gruppo di ragazzini dello Zeta Club che da Milano abbiamo portato in diga, da lui . Sono uomini che si faranno, nonostante ora abbiano tutte le intemperanze e le impertinenze dei giovani ‘metropolitani’. Oreste, iniziando a raccontare, li ha progressivamente avvinti, e ora sentono il freddo in un crepaccio dello Shisha Pangma. È bello vederli così, in silenzio finalmente, assorti e in tumulto nel loro intimo […]

L’altra montagna
Lo stesso effetto ha prodotto su di me la lettura dell’ultimo libro di Forno, in cui per altro quello stesso incidente del 1985 viene raccontato (pp. 54-63). Un incidente grave, ma non sufficiente ad aprire totalmente gli occhi: «L’avere visto la morte in faccia non aveva influito più di tanto su di me. Era stato un incidente come ne possono capitare tanti, e quando le ferite si furono rimarginate la mia vita riprese come prima» (p. 62). La montagna, come la vita, bisogna saperla guardare e l’acutezza della vista è questione di maturità interiore più che di diottrie.
In fondo questo mi pare il tema profondo del libro: un lungo apprendistato della capacità visiva del cuore.
Oreste Forno è stato un grande himalaista, leader di spedizioni sulle più alte montagne di mezzo mondo […]; ma la saggezza, come tutti, ha dovuto conquistarla palmo a palmo. Raccontando il volto privato della sua vicenda esistenziale, mette a nudo con notevole coraggio una verità che in fondo tutti sappiamo: affermare che la montagna ispiri ‘necessariamente’ buoni sentimenti e virtù è pura retorica, a volte ipocrita. La montagna – come ogni ambiente naturale, grandioso o quotidiano, aspro e selvaggio oppure consueto e tranquillizzante – è un miracolo di bellezza e di Sapienza. Ma il suo valore ed effetto esistenziale dipende da noi, da come la guardiamo e percorriamo. Al di là della retorica, sappiamo benissimo che i moventi dell’alpinismo possono anche essere mediocri, se non addirittura negativi: desiderio di rivalsa, superbo e al tempo stesso insicuro, con le sue invidie e i suoi egoismi, forma mentis da predatore, ignaro del ‘dono’.
Con candore, Forno ammette che, al crescere della fama e della pressione degli sponsor, una tale mentalità funzionalistica era penetrata anche in lui.
Ma la vita, a chi sa ascoltarla, bussa al cuore, talvolta con discrezione, in altri casi con la violenza di una picconata: la morte di alcuni amici, l’amore per Ombretta – sua moglie: «a quarant’anni cedetti al cuore e mi sposai. Un fatto strano, che non entrava nei miei piani» (p. 39) -, la nascita dei figli. La vita aiuta a guardare più in là, a orizzonti di senso più vasti […] Nel pieno della condizione, Oreste prende una decisione, scioccante per i più: abbandona l’alpinismo di punta per riviverne il lato ‘umano’. Editore e fotografo di montagna prima, custode di impianti idroelettrici in quota ora. Resta comunque nel suo elemento (la dedica al libro è esplicita: «Alla montagna, che mi ha fatto toccare il cielo»): vita di montagna e in montagna.

Sette vette con occhi nuovi
Spogliato dal bisogno di conferme esterne e dall’ansia da prestazione, l’occhio mette meglio a fuoco. Si accorge di una moltitudine di doni immeritati. Il silenzio diventa eloquente (la ‘vita contemplativa’ è ben più intensa e feconda di relazioni di quanto i più intendano).
Germoglia la decisione di salire da solo e di pernottare in vetta a sette «montagne del cuore». E va bene anche se cambiano i piani: a volte la montagna respinge. La mentalità funzionalistica si inalbera, ne viene frustrata, si intestardisce. Ma quando si coglie che tutto ha un senso e che tutto è dono, i progetti scompigliati possono riservare esperienze ancora migliori: è il caso del Monte delle Scale anziché il progettato Bernina, o il Pizzo Porcellizzo al posto del Badile. Sei pernottamenti in vetta nell’estate del 2003 , per concludere con il Cornone di Blumone due anni dopo.
Passo dopo passo – ci racconta Oreste – cambia il modo di vedere gli altri, tornano al cuore gli amici lontani, soprattutto si riaffaccia la figura del padre. E la presenza costante di Ombretta e dei ragazzi. E, inarrestabile, torna in scena quel Dio a lungo messo in un angolo. È proprio la progressiva riscoperta di Dio ad aprire gli occhi e a dare un valore nuovo a tutti gli altri incontri. Si può parlare – mi pare – di un vero e proprio «itinerarium mentis in Deum», in grado di pacificare il cuore e di rischiarare l’intelligenza.

Convincente!
Torno un momento a quel pomeriggio di novembre sopra la diga della Val dei Ratti(non si pensi a frotte di topi: la valle trae nome da una nobile famiglia comasca che qui ebbe suoi possedimenti).
In salita, prima di arrivare al paese di Frasnedo, prima dunque dei racconti di Oreste, uno dei ragazzi più acuti – un tredicenne che si era in precedenza un po’ informato sulla biografia di Forno – mi confida a bassa voce (traslittero […]): «Incredibile! È un grande alpinista ma ci si presenta come un qualunque custode di dighe. Zero ostentazione!».
Questa credo che sia la forza pedagogica del lungo impegno culturale di Oreste. Proprio perché nasce da un’esperienza personalmente vissuta e sofferta, convince. E, naturalmente, traspare meglio dalla sua persona che dalle mere parole.
La visione ‘contemplativa’ dell’alpinismo è spesso giudicata con sufficienza o irrisione dagli ‘agonisti’, che la interpretano come consolazione dell’incapacità o impotenza. E a volte realmente lo è. Ma certo non nel caso di Forno, che ancora a lungo sarebbe potuto figurare nell’alpinismo di punta. Qui davvero è cosa più profonda e radicale.

Il sole sta tramontando. È tempo di lasciare Frasnedo e di scendere alla diga e poi giù ai pulmini: neanche un’ora di cammino. Ma ancora sul selciato del paesino, uno dei ragazzi scivola e si storce un po’ la caviglia. Resto indietro con lui, che scende lento.
Abbiamo appena sentito il racconto dell’odissea di Oreste, che con il bacino fratturato viene fatto discendere dal ghiacciaio del Shisha Pangma al campo base e pochi giorni dopo, a dorso di yak (!), fino agli automezzi.
Sarà per questo, ma a quel ragazzo non è sfuggito neanche un lamento.

Approfondimento in rete: http://www.oresteforno.it/