Quando il 9 giugno del 2006 fu annunciata la morte di Enzo Siciliano, la mia memoria rievocò, ancora una volta meccanicamente allorché sento pronunciare il suo nome, le immagini care che ho conservate di lui. Non è possibile per me ricordarlo diversamente. Erano gli anni in cui alla televisione andava in onda, curato da Leone Piccioni, un programma culturale straordinario, che si chiamava “L’Approdo”, una testata che disponeva di un comitato direttivo di prim’ordine, tra cui spiccavano artisti del calibro di Riccardo Bacchelli, Carlo Bo, Roberto Longhi, Giuseppe Ungaretti. Avevo 21 anni allorché nel febbraio del 1963 iniziò il lungo ciclo di trasmissioni destinato a durare fino al dicembre del 1972. Ero già abbastanza grande, dunque, da cogliere tutti gli stimoli che provenivano dai vari protagonisti della vita culturale del nostro Paese che si avvicendavano per discutere di libri, di musica, di arti figurative, di teatro. “L’Approdo” alimentò e orientò presto su di sé l’attenzione di molti artisti ed intellettuali, e quegli anni furono fervidi di iniziative e di presenze in tv e non hanno più avuto l’eguale, almeno fino ad oggi. Ebbene, rammento le tante volte che Enzo Siciliano compariva in tv e prendeva parte ai vari dibattiti. Su quelle degli altri brillavano la chiarezza e la semplicità della sua esposizione, che offriva a me, giovane pieno di curiosità e di sogni, l’opportunità di capire un mondo che mi affascinava. Siciliano sapeva comunicare concetti difficili e renderli disponibili per tutti. Il suo eloquio, sereno, ricco di garbo e di rispetto, era la sua qualità maggiore, unita all’ampia e approfondita conoscenza che lo scrittore aveva del mondo dell’arte, a partire dalla letteratura e dalla musica. Era così amata e alta questa conoscenza che egli sapeva offrirla a noi intelligibile nella sua essenza, integra e stimolante. Con lui è scomparso l’ultimo artista che ha guidato la mia formazione e contribuito a confermare e consolidare il mio amore per l’arte. Purtroppo con la sua morte è finita anche la mia collaborazione alla rivista a lui tanto cara, Nuovi Argomenti, che era appena cominciata con la pubblicazione della mia lettura di due romanzi di Remo Teglia, lo scrittore altopascese, e avrebbe dovuto proseguire con quella del romanzo: “Il passo dei longobardi” di Arrigo Benedetti, che – mi raccontò Desiati – lo aveva addirittura commosso, e poi via via con altri autori che hanno dato lustro alla letteratura e che non sono più ricordati come meriterebbero. Desidero ricordarlo ora, a due anni dalla sua scomparsa, qui e sulla mia rivista d’arte Parliamone, che ho fondato nell’agosto del 2007.
Siciliano fu artista versatile e operò in molti campi, collaborò con “L’Unità”, “L’Espresso”, “La Repubblica”, fu direttore illuminato fino alla sua morte di “Nuovi Argomenti“, come pure fu fino alla sua morte Presidente del Premio Viareggio, chiamato a sostituire lo scomparso Cesare Garboli, critico letterario di raffinata sensibilità; fu Presidente della Rai. Ma qui mi limiterò a scrivere di un suo romanzo, “La principessa e l’antiquario”, che gli valse il Premio Viareggio nel 1981, ossia l’anno successivo a quello della sua pubblicazione.
Alcune delle altre sue opere sono: “Rosa pazza e disperata” del 1973; “La notte matrigna” del 1975; “Vita di Pasolini” del 1978; “Cuore e fantasmi” del 1980 (lo stesso anno de “La principessa e l’antiquario”); “Carta blu” del 1992; “Mia madre amava il mare” del 1994; “Teatro romano” del 1995; “Breve viaggio in Italia” del 1996; “Diario italiano 1991 – 1996″ del 1997 (diario che è continuato fino alla sua morte su “Nuovi Argomenti”); “I bei momenti” del 1997 (vincitore l’anno successivo del Premio Strega); “Non entrare nel campo degli orfani” del 2002; “Risveglio della bionda sirena” del 2004; “Carta per musica” del 2004.
Veniamo ora al romanzo in questione. Il protagonista narratore frequenta l’Archivio Capitolino e un giorno la sua attenzione è attratta dai manoscritti e dai libri che sono custoditi dentro un “credenzone ad angolo”; percepisce che in quelle carte e in quei volumi antichi che mandano “un profumo di indefinita malattia” si nasconda un'”aspirazione alla vita”. Da qui la risposta che si sente di dare a quel sottile richiamo: “la mia memoria andava a servizio presso di loro.” Questo avvio non avrebbe nulla di straordinario se non contenesse in sé, celato come in uno scrigno, ciò che rappresenta l’essenza dell’arte, e in questo caso, della scrittura, della letteratura e specificatamente del romanzo. Qualunque scrittura, e in specie il romanzo, ossia, è creazione, allo stesso modo che il Cristianesimo insegna che l’universo fu Creazione di Dio. È, dunque, l’affermazione di una vicinanza tra l’uomo che scrive, in primis l’artista, e in questo caso l’uomo narratore, e la divinità. Ci sono tutti i passaggi che conducono ad una verosimiglianza. Gli uomini sparsi nell’universo vivono allo stesso modo dei personaggi creati nei libri i quali, al pari degli uomini, anelano alla vita, si ribellano alla tomba e all’oblio, e il protagonista narratore intuisce di essere lo strumento per rispondere alla loro chiamata. Qui, in questo breve avvio, è rivelato il grande amore (“quel dolce patire che suscita in noi la lettura.”) che l’autore nutre per l’arte e i misteri della scrittura: “Compitavo pagine deteriorate dal protossido di ferro degli antichi inchiostri.”
Finché “La mia attenzione fu coinvolta da un pacchetto di fogli legato da uno spago: fogli volanti, molto tarlati, spesso cancellati da gore d’umido.” Il pacchetto non porta alcune etichetta; dunque non è catalogato. Lo ruba, perciò, e se lo porta a casa. Ha inizio da questo momento una specie di resurrezione di una vita trascorsa che stava per cadere nell’oblio. Scopriremo poi che le vite sono anche celate nella nostra mente, anch’esse pervase dalla stessa aspirazione alla esistenza. Se alcuni grandi romanzi sono stati costruiti sulla base dell’idea del ritrovamento di un manoscritto, nessuno dei loro autori, si deve notare, si è fatto mai precedere dalle considerazioni che abbiamo riportate e che rivelano, da parte di Siciliano, un’idea nuova, partecipata e più profonda del valore di ciò che è stato scritto ed appartiene al passato e, di conseguenza, la volontà esplicita di rispondere ad una chiamata, ad una vocazione, che è intrinseca all’amore che si nutre verso l’arte. Solo chi ama profondamente l’arte, può avvertire nelle opere e nelle scritture del passato, o individuare nella propria mente, quel bisbiglio, quel desiderio alla vita che promana dalle persone e dagli ambienti che là dentro furono e sono considerati e rappresentati come cose vive. Il merito di Siciliano, dunque, è quello di aver ricordato e sottolineato con un tale avvio che il libro, il romanzo, non è mai un oggetto inanimato, ed è uno dei nostri interlocutori privilegiati che reclama non solo il suo ruolo, ma il suo diritto alla vita.
Quel rotolo di fogli consumati dalla polvere del tempo, altro non contiene che una serie di lettere e una parte di diario (“pagine che potevano essere state strappate da un diario”). Le lettere sono scritte da un giovane di nome Hugo (“ex studente di teologia, in fuga dal seminario”) al suo principe (“un ducato del nord, un ducato baltico”), ed esse, insieme con le pagine di diario, ci fanno rivivere una storia accaduta alla fine del XVIII secolo, negli anni della Rivoluzione francese. Vi è nelle lettere tra i due interlocutori una tale confidenza che nessun tema viene nascosto, e quello del gioco erotico vi ha la sua prevalenza. Un erotismo, si badi, quieto, sensibile, mai invadente, che appare piuttosto come sorgente ispiratrice della stessa raffinata scrittura. Il giovane si trova a Roma (“questa gran vasca che è Roma”) per rintracciare la figlia del suo principe tedesco, la principessa Marianne, andata sposa ad un patrizio romano e della quale non si sa più nulla (“la sparizione della figliola vostra”), ed anche “per avanzare nei miei studi.”: studi di antiquariato, da cui il titolo: “La principessa e l’antiquario”, una Roma (è morto da pochi anni – undici – il cardinale Alessandro Albani, famoso per le sue ambizioni, per la passione per gli scavi archeologici e per aver venduto al re di Polonia molte opere di valore, depauperando il patrimonio artistico della città), dove dominano prelati, cortigiane, nobili e spie. Ancor prima dell’ambiente in cui il protagonista si muove, è la scrittura ad immergerci in quel secolo lontano, costruita con delicata sapienza narrativa: “Ebbene, su quella piazza c’era uno strepito che mi felicitava, e quando mi avvicinò una sorta di coboldo guercio, ma ridente, a offrirmi una locanda di là a due passi, dissi subito sì, e mi trovai, qualche momento dopo, in una soffitta che puzzava orrendamente di gatta.”
Certamente l’autore tiene ben presente i resoconti di viaggio tramandati dai grandi scrittori del passato, e segni particolari restano di Montaigne, Goethe, Stendhal, Dumas, Ruskin (“Mi è riuscita molto bene una veduta lucchese, un ponte a schiena d’asino che scavalca il Serchio, con un gregge di pecore che scende a riva per abbeverarsi.” Si tratta del famoso “Ponte della Maddalena“, più conosciuto come “Il Ponte del Diavolo“). Non vi è forse Goethe in questa descrizione di Roma?: “Vi sono qui tracce di distruzione e magnificenza che trapassano l’immaginazione di chiunque. L’illusione che il suolo sia sempre quello, sempre quelli i colli, stesse le mura e le colonne, persino nei volti degli abitanti, credo, sempre le stesse stimmate: – ebbene, tutto questo mi vince; si finisce con l’andare all’unisono con i grandi disegni del destino, muore il tempo.” Goethe viaggiò in Italia dal 1786 al 1788, proprio negli anni immediatamente precedenti a quelli in cui si svolge la nostra storia; fu anche a Roma e arrivò fino in Sicilia. Come si sa, le sue impressioni furono raccolte nel 1828 nell’opera “Viaggio in Italia”.
Hugo è attratto dalle donne romane (“Le gonnelle mi catturano quel tanto che è giusto mi catturino.”); una di esse si chiama Costanza e fa l’attrice, si lascia corteggiare e si offre al giovane, che poi abbandona fuggendo con il “ganzo da cui dipende e la cui presenza nella sua vita è faccenda ambigua e indecifrabile.” Ma ritornerà, vedrete. Siciliano ha un particolare gusto settecentesco che va ben al di là delle suggestioni che può avergli suscitato la storia. Si avverte una consonanza che lo avvicina allo spirito di autori come Diderot (“I gioielli indiscreti”, del 1748) e De Laclos (“Le relazioni pericolose”, del 1782). Si faccia attenzione alle preziosità di questa confessione che il giovane fa al principe suo protettore, che gli chiede maggiori dettagli sulla sua vita amorosa con la bella attrice: “Tutta la sua persona si raccoglieva ai miei occhi nelle mammole deposte sulla cima dei suoi seni. Nulla di più.”
Ma anche Thomas Mann de “La morte a Venezia”, 1912, è presente nei languori e nei tremori di Hugo, quando è irretito (“immagato“) dalla bella fioraia Angela (“Angeletta”, e anche “Angelina”) in una Roma dal caldo e dall’umidità soffocanti: “trascorro queste giornate ultime – che sono gravate da un clima oleoso, percorse da infocati venti meridionali. Le membra sono stremate, il cuore mi sale di frequente nella gola; e basta sollevare un braccio, per qualunque gesto, che i pori traspirano abbondantemente e la pelle maleodora.” Vi è una evidente relazione tra i turbamenti di Hugo e quelli di Gustav von Aschenbach, anche lui preda dei sensi verso il giovane Tadzio e del clima soffocante di Venezia. Più avanti si leggerà: “C’è nel clima di questa città qualcosa di maligno, finanche di funesto. Ho trascorso il pomeriggio abbandonato a un languore che non conosce medicina.” Si può già rilevare, a questo punto, quanti numerosi siano gli echi che riesce a suscitare il romanzo di Siciliano, autore dotato di una raffinata cultura che fa capolino da ogni pagina, confermando quanto si scriveva all’inizio: ossia, del suo amore per la lettura, vista non solo come arricchimento, ma come accoglienza di un’aspirazione alla vita che è racchiusa dentro ciascun libro.
Nella scrittura, Siciliano si mantiene raffinato e semplice ad un tempo, come lo fu in vita nel parlare. Lo stile è vestito di quella quiete e di quella dolce sobrietà che sanno rendere al lettore la grazia e la soavità di un sentire che si è fatto raro ai nostri giorni. Leggete questa piccola frase: “Scesi di corsa due rami di scale”; oggi si direbbe: Scesi di corsa due rampe di scale; ma in quest’ultima espressione non vi è grazia, bensì un suono più aspro, percepibile solo da chi è avvezzo per propria natura a praticare suoni di incontaminata bellezza. Quando userà rampa, molto più avanti, lo farà nella frase seguente, che contiene in sé molta violenza (è monsignor Passionei che abbandona la casa di Hugo in preda all’ira): “Gridò dalla rampa di scale”, dove il suono aspro di rampa si accompagna al grido. Oppure, si badi a quest’altra, egualmente bella: “il giovane ci vide ma non fece indirizzo alcuno verso di noi.” O questa: “Il principe volle non udirmi.”; o anche: “Presso il camino c’era una tinozza. L’uomo mi dice che tutto era pronto perché mi spurgassi del viaggio.”, laddove lo stesso gioco sui tempi dei verbi dà vividezza al quadro. Una tale scelta si ripeterà in più di un’occasione.
Sulle donne, sul loro carattere bizzarro, sulla loro natura indecifrabile, si sono scritte nel corso dei secoli numerose pagine. Si pensi, per tutte, alla memorabile satira di Giovenale sulle donne (“Le satire” II, 6), ma gustatevi questo passaggio di Siciliano, che quasi sicuramente aveva presente, nel mentre lo scriveva, proprio l’opera del caustico poeta latino: (il protagonista ha scoperto a letto Costanza e Angela unite in atteggiamento amoroso): “una generica considerazione, da quel momento, non mi abbandona: che le donne siano contemporaneamente belle come i serafini di Klopstock e terribili come i diavoli di Milton. Una sorta di duplicità le sostanzia: una duplicità che nessun uomo potrà mai sfiorare. È un’androginia dei sentimenti, un ermafroditismo dell’essere che in loro si realizza a tale vertice da sconcertarmi, – e, credo, sconcerti non soltanto me […] Mi è capitato di scoprire nelle donne un divampare di superstizione, nell’odio e nell’amore. Il contrasto fra violenza della passione e dolcezza dei loro tratti le rende orrende, le sfigura. Mi chiedo: perché accade tutto questo? Cosa c’è in loro da renderle così diverse dagli uomini?”
Come pure non vi è dubbio che ad animare la scena seguente è lo stesso spirito che aleggia nel capolavoro di Robert Burns, “Tam o’ Shanter”, del 1790, allorché il poeta scozzese descrive con questi versi una notte in cui “il furore del cielo” si è scatenato sulla piccola chiesa di Alloway: “la bufera mugghiava sempre più violenta, attraverso i boschi;/i lampi guizzavano da un polo all’altro;/sempre più vicini si sentivano i colpi di tuono;/quando, luccicando fra gli alberi gementi,/la chiesa di Alloway parve tutta in fiamme;/da ogni fessura uscivan bagliori di luce;/e tutta risuonava d’allegria e di danze.” (Robert Burns: “Poemetti e canzoni”, G. C. Sansoni – Editore – Firenze, 1953, traduzione di Adele Biagi). Queste invece le parole di Siciliano: “la notte era percorsa da lampi, alla luce bianchissima i lecci del colle Pincio si torcevano come demoni, e pur sotto quello scrosciare di pioggia il clima era infuocato. […] Il torrido orizzonte era sconvolto da un bianco, continuo avvampare: ma quei lecci, e pini più lontani, lo sperone in mattoni della Villa, che ho pure in vista, davano a quel paesaggio tormentato un velo d’elegia, un’apparenza domestica, sulla quale il furore del cielo faceva da cornice violenta e insieme smagata.”
È un romanzo, questo, che, pur nella sua brevità, riesce a suscitare nella mente del lettore e a far rivivere molta letteratura di ogni luogo e di ogni tempo, come se contenesse una magia. Pensate che intorno ad una storia molto semplice, che vede un giovane tedesco sguinzagliato per Roma da un principe alla ricerca della propria figlia sparita nel nulla, l’autore riproduce, con il semplice mezzo di una corrispondenza inviata da Hugo al suo mecenate, l’atmosfera di una città che alla fine del XVIII secolo, dominata com’era dalla nobiltà e dalla Chiesa, avverte, con le notizie che giungono dalla Francia, gli scricchiolii di un’epoca che sta per tramontare. La Roma dal “clima oleoso” e soffocante altro non è, dunque, che l’espressione di una decadenza ormai incominciata volta a culminare nei fatti cruenti e decisivi del secolo successivo. Si deve aggiungere che non di rado le descrizioni di talune situazioni e di taluni paesaggi dànno la sensazione palpabile di trovarsi dinanzi ad uno di quei quadri nei quali i pittori del passato, specialmente del Sette e Ottocento, si proponevano di riprodurre ambienti ed emozioni di una Roma immersa nelle antiche rovine e pur sempre alla ricerca di una quiete oltremodo desiderata ma lontana (“il vizio di vedere sempre presente un passato irrecuperabile, realizzato in una maceria insensata che ormai è confusa nel paesaggio al modo in cui lauri e lecci sono confusi tra loro: pietre, e pietre, e pietre.”). A questa maniera pare voler agire anche Siciliano attraverso lo strumento della parola (“Le pietre del campo Vaccino, i marmi affondati nel fango, i capitelli divelti, sono ospizio a magre pecore che belano tristemente nella mia immaginazione, – e vivo un dolore inconsulto, un’inesplicabile angoscia che mi produce fisici morsi alle viscere.”), suscitatrice soprattutto di colori e atmosfere in grado di rendere l’inarrestabile declino in stretta congiunzione con la malinconia e le lacerazioni che sempre lo accompagnano: “Per l’intero tragitto avevamo incontrato soltanto un bambino che ci aveva guardato con occhi spenti, ma grida adulte scendevano dall’alto sul nostro capo, come di bisticcio fra due donne e un uomo. La loggia era deserta, mentre di sotto, sulla rena del fiume, un vecchio annodava vimini.” Ecco altri due esempi di quadri dipinti con le parole, tra i molti che si potrebbero fare. Il primo: Hugo è stato rapito misteriosamente (si tratta di un avvertimento minaccioso, di “un avviso”), il quarto giorno trova la porta della prigione socchiusa, può fuggire: “Era l’alba. Cantava un pastore chissà dove, sull’altra riva del fiume: udivo anche i campanacci delle capre.” Il secondo: “Da questo mare emergono strane forme. È l’ora in cui pipistrelli e gufi scuotono le ali e i lebbrosi scendono in strada.”
La Roma papale e popolana a poco a poco irretisce il nostro protagonista (“la vita di questa città stregata mi eccita”), proprio come una seducente maga (“la malìa della gioventù”) che voglia piegarlo ai propri desideri: “La giovinezza è attratta da tutto quanto offre la vita.” Chiese, conventi, vicoli, bettole, piazze, palazzi si susseguono continuamente accompagnando i pellegrinaggi del protagonista, e divenendo a poco a poco lo scenario fondamentale da cui si irradiano colori e sentimenti. Intanto, i rapporti con il principe protettore sono diventati tesi, anzi il principe per un certo tempo interrompe la corrispondenza con lui. Il Legato tedesco a Roma fa intendere a Hugo che egli sta mancando in qualche cosa, ma non precisa di più. Le sue parole sono sibilline: “Con quanta verità state affrontando l’oscura situazione in cui vi siete deliberatamente cacciato?” Il principe non è convinto, insomma, che Hugo gli racconti la verità sui suoi movimenti a Roma.
In realtà chi ha scoperto questo rotolo di lettere e di pagine di diario sospetta che l’andata a Roma di Hugo sia stato solo un pretesto affinché tra i due (forse innamorati) iniziasse una corrispondenza dal sapore libertino, e che il principe volesse conoscere ogni particolare delle avventure del suo protetto. Da qui il suo risentimento nel sospettare che qualcosa gli sia tenuto nascosto (“Ma Hugo era innamorato di Sua Grazia?”).
Una conferma di questo sospetto l’abbiamo quando la principessa viene rintracciata; scrive al padre assicurando che sta bene, ma, nello scrivere di nuovo a Hugo, Sua Grazia ne parla con noncuranza, “soltanto in chiusura di lettera, come in aggiunta.”
È a questo punto, perciò, che balza agli occhi una delle finalità principali di questo romanzo: la centralità di Roma rispetto alla vita dei suoi amanti. Essa li lusinga, vi si abbandona, si fa alcova dei loro desideri per poi come una novella Circe ridurli a suoi schiavi: “Roma annienta tutti: annienterà anche voi.”, sono le parole che a Hugo dice il vecchio principe di Sermoneta, i cui occhi “spurgavano un’ambra densa e vischiosa: se li nettava con un lembo del polsino sfilacciato.”
È una Roma, dunque, pervasa di corruzione e di lussuria, che filtrano in ogni strato sociale, sì che alla fine cose e persone ne sono vinte: “Sotto questi cieli, i miei studi, ma, ancora di più, i miei sensi sono fioriti.” La stessa Rivoluzione francese, le cui idee stanno correndo per tutta Europa, con la ventata di novità che reca con sé, produce nella città una miscela che, anziché farsi liberatoria del passato, lo incupisce, inasprendone e accentuandone i vizi: “Nemici e familiari dei preti, i romani non sanno che farsene della religione: ma senza i riti cattolici, e senza le chiacchiere di sacrestia, sarebbero irrimediabilmente orbi e zoppi.”
Si è accennato all’avvertimento che Hugo ha ricevuto con il suo temporaneo rapimento. Sembra che sia stato il principe di San Carlino a organizzare tutto, “erede delle fortune antiquariali del Cardinale Albani”: è il marito di Marianne e non desidera che alcuno ficchi il naso nella loro vita privata: “si sa che il principe vostro genero ha questioni, e forse dolorose questioni, con sua moglie.” Di che si tratta? La cosa certa, al momento, è che Hugo è sorvegliato, spiato: “Il clima di sospetto aggrava lo sconforto. Ogni mia uscita di casa è calcolata da chi mi spia.” Siciliano ha creato un interesse intorno alla sua storia circondandola di quell’alone del tempo passato che vedeva le donne segregate nei loro palazzi per ragioni quando di gelosia, quando di diffidenza, quando di intemperante egoismo. O donne come Angela, “la dolce ragazza avvolta nella nube d’oro”, mezze maghe (“Ha fatto un ballo angelico”) e mezze amanti.
Sono anche gli anni di Cagliostro condannato e imprigionato a vita per le sue pratiche magiche proprio a Roma. Come pure della setta degli “Illuminati”, “caduti nella tenebra del demonio“, come dice a Hugo monsignor Passionei, il quale così continua, descrivendo la pratica seguita da questi adepti e chiamata “la mistica delle piramidi”: “Si raccolgono la notte nel casino di qualche vigna e, alla luce di qualche candela persa, ballano, si inchinano davanti a uno due tre bronzetti che un bottegaio ha venduto loro con l’inganno, bruciano resine, si dicono immersi nel languore fumoso di una piramide. Poi compiono il sacrificio, uno di loro suona un tamburello, un flauto…”. È una Roma incerta, misteriosa, turbata da fermenti e inquietudini che vanno a sovrapporsi e a mescolarsi con le sicurezze e le chiarità del passato.
Marianne si trova con il marito nella villa di campagna di Santa Maria in Velata. Lo conferma al giovane la stessa Angela, non più bella come prima: “La sua bellezza è devastata: il colore delicato dei suoi occhi è impallidito. La nube dorata intorno a lei si è trasformata nel grigio della nebbia.” Siciliano ci fa ribadire dalla ragazza che un qualche mistero circonda la vita di Marianne: “parti per Santa Maria in Velata, ma fa’ in modo di arrivarci all’alba. È più facile che la tua principessa possa parlarti all’alba che in qualsiasi altra ora della giornata.” Si capisce che il mistero che avvolge la vita di Marianne è una carta che l’autore tiene per sé e intende giocare dopo che tutta l’atmosfera di una Roma settecentesca gonfia e malata (anche Hugo si è ammalato di “fastidiosa scabbia francese”) abbia intriso di sé il romanzo e la conquista del lettore sia stata assicurata: “la città affoga dentro certa sua notturna tetraggine, solitaria urna funeraria che il tempo ha cariato irrimediabilmente.” La rivelazione del mistero sarà, dunque, il tocco finale affinché il quadro disegnato si completi e diventi definitivo e irreversibile. Si ha l’impressione, ossia, di trovarsi in presenza di un narratore che usi in modo originale attraverso la scrittura la stessa tecnica di un pittore, che riserva al tocco finale del pennello la immodificabilità e perentorietà del suo quadro: “Abbiamo superato una gola fosca di colori, mentre il sole calava.”
Hugo, prima di vedere Marianne, incontra due volte il principe di San Carlino; nella seconda, che si trova narrata nel capitolo VII all’interno della lunga lettera datata 26 aprile, il ritratto che ne risulta, sia fisico che psicologico, è di una bellezza rara, incorniciato com’è, in sovrappiù, dalla luce di un ambiente arricchito da opere di arte finissima, come la “pantera di pavonazzetto, con la base istoriata di geroglifici egiziani”.
Finalmente Hugo sale a Santa Maria in Velata, accompagnato dal musico Vincenzino (“Tiene il collo diritto in su, quasi fosse legato a una canna”). È un viaggio singolare, che si conduce in mezzo a dirupi, boschi, paesaggi cupi, e si rivela presto come un percorso che porterà alla resa dei conti del protagonista con se stesso. Il mistero, cioè, che circonda Marianne è già presente ed agisce lungo la strada che sta portando Hugo da lei. In realtà, dunque, tutta l’avventura di Hugo è la storia non di una ricerca ma di un’attrazione. Hugo cerca se stesso e Marianne è la risposta che lo attira: quel languore infinito che sostituisce la fede (“l’abito della paura”), quella dolce sofferenza che scaccia dal cuore l’orribilità della morte. Una risposta che, sia pure inquietamente, cercherà di fare sua, vedrete.
Non vi nascondo che mentre leggevo le pagine finali di questo delicato romanzo mi è tornato alla mente lo scultore Jacopo della Quercia, intento a scolpire l’immortale Ilaria del Carretto, il celebre capolavoro conservato nella cattedrale di Lucca. A così tanti secoli di distanza, ho avuto l’impressione che Siciliano si sia incontrato con lui. E chi sa che non sia stato il grande Calderón de la Barca a fare da anfitrione con il suo “La vita è sogno“.