(voce di Luca Grandelis)

Cosimo Argentina, Vicolo dell’acciaio
(Fandango Libri, 2010, pp. 264, € 15,00 ISBN 978-88-6044-172-0)

vicolo dell'acciaio«Quando mio padre parla di se stesso dice sempre che il suo destino è segnato. Qui nel palazzo tutti muoiono di cancro ai polmoni. Il record della pista è nostro. Abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri cancerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa…»
Vicolo dell’acciaio chiude (ma non è detto) una quadrilogia tarantina – non preordinata dallo stesso autore -, un «ciclo dei vinti» di verghiana risonanza dove Il cadetto (Marsilio, 1999) è stato il romanzo della scoperta, Cuore di cuoio (Sironi, 2004, Fandango tascabili, 2009) quello dei sogni, Maschio adulto solitario (Manni, 2008) quello degli incubi e questo neo edito porta invece le stigmate del dolore.
Taranto, città-feticcio, l’avevamo abbandonata umbratile e cupa tra le pagine di Mas (quasi inconcepibile per noi del nord che guardiamo alle città del sud col cliché del sole a due passi dal mare), avvoltolata nella cappa mefitica dell’Ilva. E così la ritroviamo. Siamo nel quartiere Italia Montegranaro, in cui Cosimo Argentina (1963) è pure cresciuto, abitato da famiglie di operai dell’ex-Italsider, l’impianto siderurgico più inquinante d’Europa.

Mino Palata è il diciannovenne protagonista e voce narrante del romanzo; i suoi pensieri, la sua visione del mondo, la sua rabbia sono la lente attraverso la quale il lettore si addentra in uno dei casermoni del «vicolo dell’acciaio», «dove il novanta per cento delle famiglie ha il capo che se la spassa nel siderurgico». Mino è figlio del Generale, padre autoritario e scorbutico, figura ingombrante quanto idolatrata da amici e famigliari. Il Generale è un uomo del nord, emigrato al contrario, che parla il dialetto dei tarantini meglio dei tarantini stessi, che si sottopone ai turni più pesanti in acciaieria. Per lui gli uomini si dividono in «prima linea» e in «imboscati», coloro che non hanno voce in capitolo perché «solo quelli che si lordano possono dire la loro…».

Mino è stato iscritto dai suoi all’Università, con l’intento di migliorarne la condizione e aprirgli qualche sbocco per un futuro migliore, ma i suoi studi di Giurisprudenza languono e il ragazzo preferisce farsi distrarre dalla seducente Isa, che «sembra un’araba. Una sudanese con gli occhi nocciola chiari chiari, come miele (…)», figlia di una madre altrettanto bella, Maddalena, la «dea condominiale», l’unica bionda del vicolo.
Ci sono molti lutti in questo libro: per cancro o morti bianche e altrettanti «consoli», le veglie rituali con tutte le peculiarità del familismo meridionale. C’è un sentimento pervasivo di predestinazione, di dolore roco e trattenuto, virile ed antieroico per il Generale e i suoi «gechi», attaccati al muro del bar di Mest’Arturo, pronti ad offrirsi come vittime sacrificali su un altare di carbon fossile e polveri venefiche al Dio crudele e impassibile del siderurgico.
Attraverso Mino, Cosimo Argentina ci comunica che a volte la rassegnazione uccide più della diossina, che l’accettazione passiva di una condizione passa attraverso una mancata elaborazione del lutto, una fuga dal dolore personale e dalla coscienza «militante». Non c’è riscatto in Vicolo ma solo una spietata selezione naturale che permetterà ai più fortunati di arrivare alla pensione indenni dal tumore, dalle mutilazioni e dalle malattie croniche più debilitanti.

Non c’è vero intreccio nel romanzo; è più un accumularsi di situazioni; i personaggi non subiscono alcuna evoluzione oggettiva o interiore, semplicemente «tirano a campare», come la classe operaia statunitense dei romanzi di Carver.
Solo Isa sembra dibattersi in questo paesaggio degradato: «Sa che la sua salvezza passa per un’arrampicata che deve portarla da qualche parte e allora, sebbene ( […]) il suo punto di partenza sia in fondo a un vulcano spento sa che può farcela a piantare la bandierina rossoblù là dove va messa». Isa si deve però guardare dagli sciacalli, dai raggiri delle false associazioni di «ambientalisti del giovedì», interessati a sfruttare il dolore della gente per ottenere maggior visibilità e potere di contrattazione sociale e politica.

Il punto di forza di Vicolo dell’acciaio è anche la sua maggior debolezza: l’insistente ricorso al dialetto locale, che crea non poche difficoltà al lettore dislocato geograficamente; un idioma pulsante e sulfureo che caratterizza con grande realismo i vari episodi, i dialoghi e le interpolazioni tra i personaggi. Il registro stilistico, mimetico e tipico della produzione di Argentina è quello medio-basso ma incisive ed efficaci sono le inusuali metafore utilizzate da Mino per descrivere quel che vede e sente, il furore che monta e che sfocia nell’inazione più paradossale. La consapevolezza non ci rende immuni dal male di vivere, sembra ammonirci Argentina con una scrittura di pancia ch’è passione dalla quale farsi travolgere, coi visceri squarciati in punta di penna; e ancora scavo archeologico dell’infanzia, esorcismo e catarsi dei propri terrori e inferni personali.

Non sono affatto d’accordo con quanto scrive Michele Lupo in una sua recensione al libro, sostenendo che il giovane Mino attraversa il quartiere dando l’impressione di aver già visto tutto, di sapere già tutto. Non stiamo parlando dello svelamento di un poco plausibile artificio retorico: Mino effettivamente sa già tutto, ha già visto tutto. La sua sensibilità è matura abbastanza per analizzare il microcosmo in cui vive, servendosi di un linguaggio gergale fortemente connotato, di un’ironia corrosiva e straniante così come di una scrittura che Isa incoraggia: «Mì, tu c’hai il dono!»; eppur si lascia comunque invischiare, senza reagire, da quell’ordine malato degli eventi.

Chi conosce Argentina sa che non c’è calcolo o volontà di strappare una risata o commuovere tipizzando le figure che entrano in scenanel Vicolo; basterebbe a dimostralo la sola scelta della lingua, che rischia di lasciare per strada molti lettori. Ma ad Argentina – uno degli scrittori italiani più interessanti attualmente in circolazione – non importa più di tanto: la sua scrittura è anche ricerca di sé, ed è a Taranto che l’autore, professore di Diritto trapiantatosi in Brianza, ha deciso di cercarsi: «Ognuno cerca il proprio linguaggio e il mio, sotto certi versi, è questo».