La sibilla di Roccacagnano
di
Ermanno Detti
tempo di lettura: 20 minuti
Quando l’Italia decise nel 1940 di entrare in guerra, mia madre vedova e povera ebbe un’idea: si mise a predire il futuro ai soldati che venivano chiamati per andare al fronte. Trovata geniale, che ebbe successo e le permise di guadagnare fino a 50 lire al giorno, una cifra enorme se si pensa che un giornale costava attorno ai 30 centesimi e lo stipendio di un operaio si aggirava sulle 350 lire al mese.
Mia madre godeva di un certo rispetto in Roccacagnano, la piccola cittadina della bassa Toscana che, dalle colline amiatine, si affaccia sulla Maremma e sul mare di Alberese. Il rispetto derivava prima di tutto da un dato, era tra le poche donne che nel paese avessero frequentato la scuola fino alla quinta elementare. Inoltre era nota come erborista. In pratica raccoglieva nei campi e lungo i fossi erbe particolari che diceva fossero medicinali, poi le pestava in un mortaio dosando la quantità e aggiungendo grassi di animali diversi. Ne veniva fuori un unguento verdastro che era, sosteneva sempre mia madre, miracoloso per guarire ferite, curare eritemi, scottature, mal di denti, dolori reumatici, infiammazioni. La gente veniva a prendere l’unguento e se ne andava contenta senza pagare. Portava è vero in cambio uova, patate e verdure varie, qualche rare volte anche una gallina che mia madre si affrettava a mettere in pentola. Ma denaro mai, forse perché a rivolgersi a lei erano quasi sempre i più poveri e denaro non ne avevano.
Con lo scoppio della guerra però mia madre decise di cambiare musica, acquistò una sfera di vetro che lei diceva essere di cristallo, si fece regalare dalla bettola vicino casa qualche mazzo di carte da gioco usate e cominciò a ricevere i soldati per predire loro se sarebbero tornati vivi o se invece sarebbero morti in guerra. Con mia sorpresa coloro che venivano a consultare mia madre erano sempre di più, qualche giorno si formava fuori dall’uscio della nostra casa una lunga fila di ragazzi con la cartolina di precetto in mano, la cartolina con cui erano chiamati alle armi.
All’epoca avevo 14 anni e mia madre mi assegnò subito un lavoro: all’uscita ogni giovane venuto al consulto doveva lasciare a me il compenso richiesto che oscillava da una a tre lire.
Tutto filava liscio, anche perché mia madre non diceva mai al giovane che sarebbe morto in guerra, più saggiamente il suo responso era un elenco più o meno lungo dei pericoli che il soldato si sarebbe trovato di fronte e indicava, consultando la sfera di vetro e le carte bisunte, come e cosa fare per evitarli. Se li avesse evitati tutti, quel soldato sarebbe tornato sano e salvo dalla guerra.
Ero molto contento di come andavano le cose. Mia madre soddisfatta del guadagno non era più nervosa, dava a me a fine giornata qualche lira con cui potevo comprarmi quello che volevo. In poco tempo vecchie finestre e vetri rotti di casa
vennero sostituiti e, sorpresa, mia madre comprò anche un apparecchio radio che trasmetteva, tra i vari bollettini di guerra esaltanti le nostre imprese militari, canzonette allegre o lacrimevoli che a me piacevano molto.
Ma tutto questo durò solo alcuni mesi. Una mattina di inverno, mentre mia madre stava nella sua stanza a consigliare un giovane tenente di passaggio (lei era diventata così famosa che venivano a consulto anche coloro che già si trovavano sotto le armi) entrarono senza bussare alla porta due gerarchetti fascisti del paese. Io li conoscevo bene. Malvisti tra la popolazione del paese, erano considerati dei fannulloni nullafacenti eternamente disoccupati. Uno di loro era poco più grande di me, si chiamava Duilio e aveva già avuto guai con la giustizia per piccoli furti. L’altro, il capo, era quasi calvo e aveva i baffetti brizzolati e curati, nel paese era soprannominato Baffetto. Per fortuna il fascismo aveva dato loro l’incarico di vigilare sulla sicurezza e per quanto non facessero niente godevano di uno stipendio. Quella mattina si erano vestiti secondo tutte le regole fasciste, camicia nera, pantaloni alla zuava, fez in testa, manganello alla cintura. Per prima cosa chiesero le generalità al tenentino, avvertendolo che avrebbero inoltrato rapporto al comando militare per essersi fatto trovare in quel luogo equivoco e per niente dignitoso per la divisa che indossava. Il giovane provò a replicare, ma quelli lo zittirono ricordandogli che il compito di un ufficiale militare è quello di essere orgogliosi di versare il proprio sangue per la patria, di infondere sicurezza della vittoria ai soldati e non insicurezza sul futuro.
Il tenentino se ne andò e i due puntarono i loro occhi su mia madre che nel frattempo si era alzata in piedi e, da dietro il tavolo, si accingeva ad affrontare la nuova situazione. Mi accorsi subito che i due erano un poco imbarazzati, mia madre era stimata per il suo impegno che, senza remore, oggi potremmo chiamare sanitario e psicologico.
– Ora parliamo un po’ tra noi, cara signora. Lo sapete che quello che state facendo potrebbe procurarvi dei guai seri? – disse Baffetto. Il giovane si limitò a fare un cenno di assenso con la testa, del resto anche nel colloquio con il tenentino aveva parlato appena.
– Potete spiegarvi meglio? – fece mia madre in tono risentito.
– Cercherò di spiegarmi – fece Baffetto con arroganza e ostentando tutta la sua autorità – La spiegazione è semplice, ieri è arrivato al comando fascista di Roccacagnano una lettera da Roma in cui si raccomanda a noi di… – l’uomo si fermò e continuò a parlare come se recitasse a memoria – di intervenire affinché la signora Silvia Fallani, cioè voi, cessi la sua attività di cartomante, pena l’arresto e la detenzione!
– Posso sapere che male avrei fatto?
– A parte il fatto che il fascismo non apprezza ciarloni e ciarlatani…
– Ciarloni e ciarlatani? Venite a cercarli proprio a casa mia? È più facile trovarli altrove – lo interruppe mia madre offesa alludendo vagamente alla retorica del fascismo.
– Suvvia signora, tutti sanno che questa casa… – il fascista esitò, ma poi si decise e sparò – Tutti sanno che questa casa viene anche chiamata casa della Sibilla!
Immaginai che mia madre, che vantava le sue conoscenze per aver studiato fino alla quinta elementare, sapesse chi era la Sibilla, difatti sollevò di più la testa. E lasciandosi sfuggire un sorrisetto maligno e disse quasi trionfante: – Chi sarebbe questa signora Sibilla? Io non la conosco e poi nessuno mi ha parlato di una cosa del genere… Vi ripeto la domanda, chi è questa signora Sibilla?
Baffetto si fece paonazzo in maniera così evidente che il giovane taciturno fece per intervenire. Ma l’altro glielo impedì e parlò con stizza.
– Signora Fallani, io non saprei dirvi chi è questa Sibilla, il suo nome e il fatto che vi ho riferito sta scritto sulla lettera di Roma. Lettera con timbri e firma originale. La realtà è che la vostra attività è arrivata fino alla capitale e forse anche ai comandi militari, tanto che nella lettera si specifica anche che anziché incitare coloro che partono per la guerra a essere felici di poter servire la patria con valore e ardimento, voi mettete a questi ragazzi addosso incertezze e paure, gli parlate dei pericoli che corrono e come evitarli. Insomma i ragazzi di Roccacagnano, una volta indossata la divisa, anziché comportarsi da eroi si comportano…
– Si comportano come?
– Si comportano… – Baffetto era ormai spazientito per non riuscire a trovare le parole e, deciso a troncare al più presto il discorso, tirò fuori di tasca la famosa lettera e leggendola disse: – Si comportano da pavidi e pusillanimi. Pavidi e pusillanimi… Saranno pure parole difficile da capire, ma che sono parole grosse lo si capisce signora, e capite anche voi che proprio bene non fate a predire il futuro ai giovani. Perché tutto questo costituisce un pericolo per la patria e per la nostra vittoria! Chiudete immediatamente la vostra attività o saremo costretti a passare alle maniere forti!
Duilio a quel punto fece sentire la sua voce agitando il manganello.
– Sì, alle maniere forti!
Mia madre questa volta non ribatté, rassicurò anzi i due gerarchi che la sua attività sarebbe stata interrotta immediatamente. E così fece e noi ripiombammo nella miseria nera. Intanto la guerra continuò per anni e molti furono i giovani di Roccacagnano che partirono per il fronte senza il consulto di mia madre.
Nella primavera del 1943, quando ormai molti dubitavano che Mussolini e Hitler vincessero la guerra, giunse anche al giovane fascista Duilio la cartolina di precetto. Lo incontrai vicino alla chiesa, aveva gli occhi rossi, si vedeva che aveva pianto. Mi disse che sarebbe partito il giorno dopo per il servizio militare, in pratica per la guerra, prima destinazione Firenze, e che aveva una paura terribile. Mi fece pena.
– Ti capisco – gli dissi – e se potessi aiutarti…
Mi guardò senza parlare ma dal suo sguardo disperato capii.
– Vorresti parlare con mia madre?
Fece solo un cenno di sì con la testa. Mia madre lo accolse, lo consigliò, lo rassicurò. Anzi si sbilanciò dicendogli che le carte dicevano che sarebbe tornato. Duilio partì. Ci fu dopo qualche mese, precisamente il 25 luglio, la caduta di Mussolini e, l’8 settembre, la resa dell’Italia. Ci fu la fine della guerra nel 1945 ma Duilio non tornò.
Me lo vidi comparire davanti nel 1946, era appena tornato da un campo di concentramento tedesco dove era stato deportato e rinchiuso per più di un anno. Aveva visto da vicino il vero e orribile volto del nazismo. Mi confidò che non riusciva a capire come potesse avere aderito al fascismo e a credere nell’assurdità della guerra voluta di Hitler e Mussolini. Lì per lì non gli prestai molta fede, mi convinsi però che aveva detto la verità quando chiamò la prima figlia Sibilla, in onore di mia madre, disse.
Fine.
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