Una particolare attenzione ha dedicato questa autrice alla condizione della donna nella storia e «Artemisia» (1947)è in questo senso una delle opere più riuscite. Numerosa la bibliografia. Ci limitiamo a segnalare i lavori più importanti: «Itinerario di Paolina», 1937; «Il coraggio delle donne», 1940; «Sette Lune», 1941; «Le monache cantano», 1942; «Le donne muoiono», 1951; «Il bastardo», 1953; «La casa piccola», 1961; «Le mosche d’oro», 1962; «Campi Elisi», 1963; «Noi credevamo», 1967; «un grido lacerante», 1981. Saggista, ha scritto, tra l’altro: «Matilde Serao», 1965, e «Lorenzo Lotto», 1978.
Sposata con il noto critico letterario Roberto Longhi, fondò insieme con lui la rivista «Paragone».
Artemisia Gentileschi, nata a Roma nel 1593, era figlia di Orazio, valente pittore e di Prudentia Montone. Fu una pittrice di valore europeo ed ebbe una vita quantomeno avventurosa. Antesignana del femminismo, il suo accanimento contro il potere maschile finì per mettere in ombra il valore della sua arte. Roberto Longhi si occupò di lei con un articolo del 1916: «Gentileschi padre e figlia», rimarcando e recuperando il suo talento di artista.
La Banti ci fa incontrare Artemisia all’età di dieci anni, quando giuoca con la sua amica Cecilia Nari (figura di riferimento che rappresenterà sempre la innocenza e la purezza), paralitica e costretta a vivere reclusa nel suo palazzo, alla quale racconta anche di quando il padre dipinge, meravigliandola con le sue storie mezzo vere e mezzo fantastiche.
La scrittura si presenta subito raffinata e colta, tuttavia qualche venatura romantica – e si potrebbe dire addirittura la sua impostazione romantica, così connaturata alla memoria – non le consente di sfuggire del tutto alle severità e ai mutamenti del nostro tempo. La scrittura oscillerà, infatti, fra due maniere contrapposte: l’una asciutta e realistica, l’altra intrisa di un romanticismo che in qualche caso sfiora l’eccesso malinconico e nostalgico.
L’autrice ci racconta ricordando del manoscritto su Artemisia perso negli anni della guerra («Se penso alle pagine distrutte»). Il passato rappresentato dalla vicenda vissuta dal personaggio storico di Artemisia si mescola, dunque, al presente del dopoguerra. Si vedono i sudafricani delle forze alleate entrare nella Firenze liberata: «A Pitti stridono le cicale umane, è mezzogiorno, da otto ore la luce è incominciata, da sei i sudafricani sono arrivati e le donne li hanno baciati, come si è potuto vedere dalle finestre infrante della galleria Palatina, nostro rifugio».
Si può dire che è proprio il ricordo del manoscritto perduto il motore della storia. Si rincorrono sempre due immagini, la Artemisia andata smarrita con il manoscritto e la Artemisia che tenta di sottrarsi ad una nuova definizione di se stessa attraverso la memoria dell’autrice: «Come mi cammina sulle calcagna, così mi baratta in mano le immagini e i ricordi.» L’autrice sta percorrendo «i vialetti di Boboli», dietro Palazzo Pitti a Firenze.
Stuprata ancora giovane da Agostino Tasso, «cavaliere e gran pittore», vedovo, brutto, «tozzo e giallo», poi «prosciolto e dimesso per gli intrighi di Cosimo furiere e i venali uffici di Giambattista Stiattesi», Artemisia non riuscirà mai a dimenticare: «La nostra povera libertà si lega all’umile libertà di una vergine che nel milleseicentoundici non ha se non quella del proprio corpo integro e non può capacitarsi in eterno di averla perduta.»
Fatti questi, scrive l’autrice, «che mi valgono – e non so se arrossirne – come una seconda guerra punica.»
Il racconto procede come se l’autrice, attraverso la memoria, stesse componendo sulla tavolozza un quadro, con pennellate precise, ma rese a sbalzi («a sobbalzi commossi»), con gli intervalli scanditi dagli impulsi del ricordo. È un procedere, a ben guardare, che si immedesima con la protagonista pittrice, e irradia gli stessi colori di una pittura. La Roma del Seicento, quella popolana che assorbe, pur nella miseria, la magnificenza papalina, e ne trasuda il riflesso, acquista in una tale scrittura una insolita suggestione, dentro la quale la figura di Artemisia si dilata, smorza i propri contorni, per assumere i simboli di una coralità totalizzante: «la biondina partiva, seduta fra suo padre e un grosso frate romagnolo che tornava, lo disse subito, a Bologna. Dopo una notte passata sulla seggiola, vestita, l’immobilità precaria di quel primo istante di viaggio le dava una vertigine di eternità. Cavallanti e postiglioni andavano attorno con le lanterne come fosse ancor notte; dalle impannate delle osterie trapelavano lumicini. Un mendico, disteso su un banco di pietra, pareva morto. Un cavaliere dai grossi mustacchi alla spagnola fece impennare il suo palafreno e bravava uno staffiere che zoppicava. La campana di Santa Maria del Popolo suonò e Artemisia pensò un attimo all’assurdità rovinosa di smontare, entrare in chiesa, sentir messa. Aveva sonno, forse addormentandosi si sarebbe appoggiata alla spalla paterna: infinito dolcissimo riposo.»
Artemisia sta andando con il padre a Firenze, dove c’è del lavoro da svolgere. È la prima volta che il padre la porta con sé. Potrebbe darsi, pensa Artemisia, che a Firenze le abbia trovato un marito «per garantirla dai pericoli di zitella disonorata?»
Orazio, infatti, non è buono con lei, nutre del rancore per ciò che le è accaduto. Le dice un giorno: «Vado a Pisa da mio fratello, mi vuol vedere, a portarti mi vergogno dopo quel che è successo.»
Nel momento in cui l’autrice si fa un po’ da parte e lascia agire il suo personaggio, anche la scrittura ha un cambiamento; si asciuga di talune mollezze aduse alla memoria, e si fa diretta e coinvolgente. È un trapasso che ci immerge completamente nel passato, come se ad un tratto la lontananza della memoria ci avesse finalmente spalancato la porta che cercavamo e tutto riprendesse a muoversi, a scorrere e a vivere: «È rientrata nella luce remota di tre secoli fa, e me la sbatte in faccia, accecandomi».
È un romanzo dalla struttura complessa più di quanto appaia, che sembra scavato nella roccia con la forza e l’incisività di uno scalpello ed insieme con la leggiadria e la delicatezza di una pittura. Il suo fascino risiede in un tale connubio che, partito da un afflato, da un sentimento, da una ispirazione forte e tenace, ad un tratto si è modellato in una struttura che rimanda a certi graffiti del passato.
Sposatasi con Antonio Stiattesi che fa «il merciaio e il robivecchi», Artemisia considera importante avere un marito, per «i vantaggi che un marito può offrire a chi sia sola.»
Proprio l’abitazione degli Stiattesi, la descrizione della vita tumultuosa e popolana che vi scorre – una specie di corte dei miracoli in cui all’improvviso si leva il suono dello strumento pizzicato da un anonimo spagnolo – dànno la misura dello stile e dell’ispirazione perentoria, quasi stenografica e ad un tempo picaresca dell’autrice. La quale nella scrittura va rassomigliando sempre più alle pennellate sulla tavolozza della sua protagonista: «dipinger sempre più risentito e fiero, con ombre tenebrose, luci di temporale, pennellate come fendenti di spada.»
Convinta dal fratello Francesco, pure lui pittore, Artemisia va ad abitare in una casa signorile, ammobiliata, messale a disposizione da un ricco francese, contro l’impegno di dipingere un certo numero di quadri. La sua vita cambia; le fanno visita cavalieri e nobili in vista. Antonio è ritroso, immusonito. Non gli è piaciuto cambiare casa, Artemisia gli vuol bene e non vuole perderlo: «È lì quel viso divenutole tanto caro, è presente quella persona che non sa più divider da sé, che mai consentirebbe a perdere: suo marito.» Non riuscirà, tuttavia a trattenerlo e tornerà ad essere sola.
A Napoli, mette su una «scuola di pittura e accademia di disegno». Le è nata una figlia, Porzia, chiamata Porziella.
L’autrice si ripresenta sulla scena e sembra sostenere una competizione con Artemisia, prima meglio dissimulata ed ora divenuta pregnante, quasi una ragione di vita. Il personaggio è restìo al ricordo, le modellature che l’autrice traccia come lusinga vengono respinte. Il luogo dove meglio può vivere è divenuto ormai rifugio definitivo: solo il passato è in grado di darle la vita. La luce che emana dal presente rischia di incenerirla e farla scomparire per sempre.
Una tale tensione è sofferta dalla Banti con malinconico risentimento («la patetica accoratezza di chi si confessa vinto.») che dà il senso dell’impossibilità di un miracolo che non si compie neppure con la scrittura: o almeno non riesce a compiersi completamente.
È uno dei motivi principali del romanzo. La resistenza, ossia, di un personaggio al tentativo tenace di una sua resurrezione: «Artemisia non risponde, la sua lontananza è senza misura, stellare.»; «Trecento anni di maggiore esperienza non mi hanno insegnato a riscattare una compagna dai suoi errori umani e a ricostruirle una libertà ideale, quella che la affrancava e la esaltava nelle ore di lavoro, che furono tante.»; «Non si può, riconosco, richiamare in vita e penetrare un gesto scoccato da trecento anni: e figuriamoci un sentimento». E infine, una specie di resa: «mi restringo alla mia memoria corta per condannare l’arbitrio presuntuoso di dividere con una morta di tre secoli i terrori del mio tempo.»
Tuttavia, «la perseveranza conviene ai poveri. Per questa ragione, non più esaltata, ma in segreta espiazione, la storia di Artemisia continua.»
Ancora e per poco a Napoli, sta dipingendo il ritratto ad una giovane sposata: una vanesia quindicenne spagnola, la duchessa Donna Virginia. Son pagine molto belle, che, come si usa dire, valgono tutto il libro, nelle quali la Banti ci mostra un’Artemisia paziente intenta al suo lavoro avendo innanzi una modella che non fa altro che lodarsi, «piccola di statura perché non è finita di crescere”. Se ne ricava un’impressione odorosa, da atelier d’artista, e insolitamente assai plastica.
Il padre Orazio la chiama e s’imbarca a Napoli per Londra: «Se ne va, a quarant’anni, senza fortuna, senza fama sicura, senza affetti felici. E senza neppure l’antico orgoglio. Appena gliene resta tanto da non disdirsi.», avendo i suoi «denari subito spesi, più per gli altri che per sé.»
È accaduto che Antonio è tornato, forse dalla Cina, molto ricco, ma si è portato con sé un’altra donna e Artemisia ha firmato le carte per consentirgli di sposarla. Porziella («mia figlia non mi vuol bene») si è maritata ed è entrata a far parte di una famiglia agiata. Artemisia è rimasta, ancora una volta, sola: «Fra l’intrico di vele, alberi, poppe inarcate, non distingue più la riva, solo i monti intorno a Napoli la salutano dandole la misura della sua distanza da terra.» Si è imbarcata, dunque, per questo lungo viaggio, che l’autrice arricchisce di belle pagine, come quelle che descrivono l’arrivo del veliero Jonathan davanti a Livorno, e poi a Genova («assiepati, affocati, blocchi di muraglie, mille buchi di finestre, e cupole, campanili, terrazze; e il brulichio dei moli, uomini e mercanzie, carri e carrozze.», dove deve cambiare imbarcazione (una «feluca genovese») alla volta di Marsiglia. Ci daranno anche alcuni bei ritratti, quello della sessantenne Pietra Spinola, fumatrice di pipa: «Con moti precisi e impazienti la dama riempì il fornello, premette la foglia, maneggiò l’acciarino, accese. Con aspra energia aspirò.»; quelli della ragazza che tira su il secchio dal pozzo («Il tempo le passava guardando una ragazza in gonnella di scarlatto che tirava l’acqua dal pozzo, con certi gesti di braccia e mani che in Italia non si praticano.»), della serva d’osteria Delfina «larga di zigomi e incantata di canto, con quella smorfia geniale e sorridente d’una così gentile malizia.», della madre superiora del convento di Parigi, «Una nana contraffatta nel viso, gli occhi come due tumori lividi, e reggeva nella corta destra un greve pastorale di ebano e oro. Le sue vesti di lana fine erano orrendamente attillate.», della carrozza del Cardinale Richelieu che passa veloce sul Pont Neuf, scortata «da una mano di cavalieri sfrenati e rossi che le pietre e sino il fango ne sprizzavano scintille.», dell’attraversamento del canale della Manica: «Senza accorgersene si entrò nella nebbia fitta e di continuo suonavano campane: pareva dovesse uscir messa.» È senza dubbio uno dei più bei viaggi che si possano trovare descritti in letteratura. Più avanti troveremo altre belle pagine che riferiscono di Artemisia ricevuta a Corte dalla regina di Inghilterra, Enrichetta Maria, sposa di Carlo I, che le commissionerà un ritratto, «Il centodecimo ritratto della regina» .
La separazione da Antonio («O Antonio, che cosa hai fatto!») sarà il tarlo che rosicherà a poco a poco la sua vita: «il dolore, questo terribile infante, si agitava nel suo seno succhiandole il sangue e mandandole in bocca l’amara saliva del pianto.»; «al suo marito perduto non era né sarebbe mai sfuggita, come una figura non può sfuggire al paesaggio che la circonda, anzi ne trae respiro e sostanza.»
Artemisia, donna stuprata, non riesce a liberarsi del suo amore per il marito: «il cuore le si consumava come una candela nell’aria immobile e chiara, senza luce né frutto.» È un motivo che acquista sempre più forza nel romanzo, e pare che vi inserisca una qualche ragione autobiografica.
Lo sforzo di Artemesia di dimenticare il passato, perfino dimenticare di avere una figlia, assume i contorni di una tensione e di un dramma irrisolvibili. Quando si trova a Londra e frequenta la regina «Potrebbe, se volesse, tentar l’assalto e la conquista di un mondo: non ne ha voglia. Degli omaggi ambigui che non può ignorare s’intristisce, ed ecco si mette a riparlare di notte, con Antonio, e a singhiozzare.» Talché, questa di Artemisia, è in realtà la storia di un sentimento puro che resiste alle insidie del tempo, nato nel cuore di una donna sfortunata. È colpa del suo difficile carattere se ha perduto Antonio, e non del suo amore, rimasto forte e immutato, al punto che si può sostenere che il marcato contrasto tra la spigolosità del primo e la tenerezza del secondo ha lasciato un segno indelebile nella sua arte. Come pure il rapporto con il padre amato e temuto, evitato e cercato, che è un rapporto il quale, perfino lui assente, la sostiene nelle avversità. La considerazione che ha per l’arte del padre è, infatti, stimolo ispiratore e creativo per la propria pittura. Essa si rivela nel momento in cui Orazio è morente: «la destra si mosse e di nuovo cercò quella della figlia. Tremava un poco e parvero mostruosamente gonfie e azzurre le vene fra le nocche. Ricevendola nella sua, Artemisia stupì di come era minuta e consunta, ossa fragili e secca pelle: una mano che aveva tanto operato, comandato, disposto. Quasi non agì l’affetto, ma l’indicibile devozione di scolara; e si chinò a baciarla. Non era successo dieci volte in tutta la loro vita: mai tuttavia con questa meditata effusione.»
Nemmeno la donna si era mai resa conto della forza affettiva, perfino irrinunciabile, che la teneva legata al padre, così che quando muore, ella si rende conto di averlo sempre immaginato immortale; non può essere stato che un errore la sua morte: «L’errore era stato commesso, il Gentileschi aveva ceduto, era morto. Sua figlia ne era partecipe e aspettava di commetterlo anche lei. La vita era pesante e torbida, acqua che non si può più bere. Rimanesse o ritornasse in patria, Artemisia seppe che il suo compito era morire.» È il 1639. È rimasta sola, di nuovo; nonostante a poco a poco abbia raggiunta una apparente tranquillità, «pensa alla sua morte.» È sicura che avverrà nel corso del viaggio di ritorno in Italia, forse sulla carrozza che la conduce all’imbarco, forse sulla nave, forse ad opera dei briganti che infestano i boschi italiani, «e sotterrata al buio.» Per un certo tempo sarà la sua ossessione. Morirà a Napoli, anni dopo, nel 1653.