Se si eccettuano gli anni di lavoro, sono più di quattro lustri che leggo ininterrottamente; finisco un romanzo e ne comincio un altro, ne scrivo le impressioni. Da qualche tempo mi limito alla narrativa italiana, vecchia e nuova, e sapete perché? Perché se si vuole seguire con una certa pignoleria la narrativa universale, si finisce in manicomio. Quindi, meglio riconoscere i propri limiti e zappare un piccolo orticello.

Non so quanti anni mi restano ancora per la lettura. Sono del 1942, e si sa che quando si è in discesa si vola, ma anche si cade.

Giuseppe Pederiali l’ho scoperto per caso. Il nome mi era noto, ma non sapevo che la sua produzione letteraria fosse così feconda, per non dire sterminata. Uno che scrive così tanto, mi sono detto, narratore ci è nato.

Se dovessi indicare qui tutti i libri che ha scritto, ne sortirebbero paginate di elenchi. Ciò che mi ha fatto piacere scoprire è che Pederiali ha scritto anche numerose storie per ragazzi, e questo è segno di una qualità artistica invidiabile. Ancora oggi uno di questi suoi libri, «Il tesoro del Bigatto» circola nelle scuole e forma molti ragazzi.

Diamo, perciò, solo una pallida idea della sua produzione, che ha avuto molti riconoscimenti: La donna selvaggia (Coines 1976); Le città del diluvio (Rusconi 1978, Giunti 1998); Il tesoro del Bigatto (Rusconi 1980); La Compagnia della Selvabella (Bompiani 1982, BUR 1992, Premio Cittá di Chiavari); Il drago nella fumana (Rusconi 1984, Premio Penne, Premio Sorrento); Una donna per l’inverno (Rusconi 1986); La mangiatrice di uomini (Rusconi 1988); Il ragno d’oro (Rizzoli 1989); Donna di spade (Rizzoli 1991, Premio Campione d’Italia); Marinai (Rizzoli 1994); Il cavaliere di pietra (Touring Club 1996); L’Amica Italiana (Mondadori 1998, Premio Frontino Montefeltro, Premio Fenice Europa); Il lato A della vita (Aragno 2001); L’Osteria della Fola (Garzanti 2002, Premio Chiara, Premio Dessì); Camilla nella nebbia (Garzanti 2003); Camilla e i vizi apparenti (Garzanti 2004); Camilla e il Grande Fratello (Garzanti 2005); Il paese delle amanti giocose (Garzanti 2006, Premio Città di Offida – Joyce Lussu); Il sogno del maratoneta (Garzanti 2009, Premio Vigevano – Lucio Mastronardi); La vergine napoletana (Garzanti 2009, Premio Città di Lecco – Alessandro Manzoni per il romanzo storico).

Per la Arnoldo Mondadori Scuola ha ridotto in prosa La secchia rapita e L’Orlando furioso.

Collabora anche con il cinema, la radio e la televisione.

«La vergine napoletana» è il suo più recente romanzo, che ho scelto perché narra di un’avventura che ha a che fare con il grande Federico II di Svevia, sul conto del quale tanto mia moglie che io nutriamo una smisurata ammirazione.

Due viaggiatori a dorso di mulo, Giovanni Vezzani di Modena, medico chirurgo e farmacista, e Yusuf Ibn Gwasi al-Kalsa, musulmano di settant’anni, «bello, forte e in discreta salute», che fu capo delle guardie dell’imperatore, sono alla ricerca della discendenza di Federico II. Arrivano a Castel del Monte dove si erge – ancora oggi imponente – il castello ottagonale voluto dal grande imperatore. Dentro sono tenuti prigionieri dagli Angioini, sin dalla fanciullezza, i figli di Manfredi, sconfitto nel 1266 nella battaglia di Benevento da Carlo I d’Angiò: Enrico, Azzolino e Federico, gli ultimi principi di Hohenstaufen maschi, ora divenuti uomini che hanno però «smarrito il senno».

Lo scopo del viaggio è quello di riorganizzare l’esercito svevo e ghibellino per riconquistare il Regno di Sicilia: «Dei diretti discendenti di Federico non resta più nessuno: Enzo, Corradino e Manfredi sono morti. I figli di Manfredi sono ridotti ad animali terrorizzati: come metterli alla testa delle armate sveve e ghibelline?»

L’opera di convivenza tra musulmani e cristiani messa in atto da Federico II viene continuamente posta in risalto dall’autore. Gli arabi soprattutto ricordano la saggezza del re, ora disattesa dalla Chiesa e dagli Angioni. Lucera, la città simile «per bellezze e ricchezza alla Cordova dei califfi, o addirittura a Bagdad», non è più la stessa; i minareti sono stati sostituiti dai campanili e gli arabi sono mal tollerati. Nel visitarla, Yusuf deve tenere il cappuccio calato sul viso per non lasciarsi identificare. Quando incontra l’amico Osman, questi gli chiede se siano venuti «per sollevare i musulmani dalla schiavitù».

In tempi di tensione, ai giorni nostri, tra arabi e cristiani, la finalità del libro appare evidente. Recuperare l’utopia di una convivenza pacifica tra le due religioni, che trovò in Federico II il suo realizzatore. Cercare i discendenti di Federico di Hohenstaufen significa credere ancora in quella lontana esperienza. Sarà Osman a suggerire loro di cercare i figli naturali della casata di Federico, uno in particolare, figlio «di Corradino di Svevia, e dunque discendente diretto di Federico II.»

Osman racconta che Corradino, rinchiuso a Napoli in Castel dell’Ovo, vicino ad essere giustiziato con il taglio della testa a mezzo della «scure dal lungo manico», chiese di poter giacere con una vergine. Da questa avrebbe avuto il figlio, «cresciuto sano, bello e miserabile.» Questo discendente, dunque, esisteva e viveva a Napoli. Giovanni e Osman non potevano credere a quanto udito. Si riaccesero le loro speranze.

Pederiali ci immerge nel medioevo, quando la Chiesa poteva permettersi di cambiare le sorti di interi regni. La sua alleanza con gli Angiò determinò la caduta in disgrazia di una famiglia che discendeva nientemeno che da Federico il Barbarossa e da Federico II, detto Stupor mundi per le sue qualità di uomo politico, di stratega e di artista.

Ne mette a nudo gli intrighi che si consumavano sotto l’egida di Papi e di vescovi, attenti più alle cose materiali che a quelle dello spirito.

Sappiamo così che la decisione di esaudire l’ultimo desiderio di Corradino, di poter giacere, ossia, con una vergine, era stato il risultato di una discussione in cui avevano avuto gran parte alcuni autorevoli monaci. Fu scelta la popolana Cicella, giovane di sedici anni e di bell’aspetto.

Sebbene il lettore sappia già dal principio lo scopo del viaggio dei due protagonisti, si lascia trasportare nella rievocazione dei vari passaggi che ritraggono squarci di vita della famiglia sveva. Pederiali vi indugia con il piacere di far rivivere pagine di storia che, pur arricchite da una fantasia feconda, ricostruiscono un ambiente del tutto verosimile, oltre che affascinante. Si può dire che la sua fantasia si dispieghi in un volo tanto mai solenne e complice da allacciarvi ed incatenarvi quella del lettore.

Dalla descrizione della decapitazione di Corradino, avvenuta nel 1268, alla Napoli del 1293, quando vi capitarono i due protagonisti, o alla battaglia di Tagliacozzo, alla quale aveva partecipato pure Yusuf, e dove il sedicenne Corradino patì la sconfitta, abbiamo la sensazione di esserci trasferiti nel tempo con una macchina prodigiosa che concilia insieme storia e fantasia. Questa è la descrizione del momento in cui i due protagonisti varcano le porte di Napoli: «Entrarono in città senza che i due uomini armati di picca, seduti accanto alla porta e intenti a giocare a dadi, neppure alzassero gli occhi. Comunque non avrebbero avuto il tempo di controllare chi entrava e usciva, perché non sarebbe bastato un esercito per fermare quella folla di mercanti con la loro roba, e pescatori, ortolani, contadini con i prodotti del loro lavoro, perfino una donna che conduceva appresso una vacca e vendeva il latte mungendolo per chi lo voleva; e saltimbanchi, cantastorie, arrotini, vasai, ramai e tutte le genie di girovaghi per mestiere o per forza che di continuo si muovono di città in città».

Pederiali vi si muove come un esploratore incantato.

La prigionia di Corradino in Castel San Pietro a Palestrina, in cui è rinchiuso prima di essere trasferito a Napoli, dove troverà la morte, rende integra la fanciullezza del giovane re che, ormai certo di essere stato abbandonato da tutti, piange al ricordo della madre e dei suoi giocattoli: «Si accorse che non gli importava molto del perduto regno. Gli importava di aver perduto per sempre sua madre e il giocattolo preferito, costruito da un artigiano di Palermo: un pupo alto sei spanne, vestito di una corazza del colore dell’oro, guidato da fili che gli consentivano di muovere passi e usare la spada.»

Nel mentre va avanti la ricerca (la «missione») dei due protagonisti, Pederiali ci offre continui flashback di ciò che è accaduto in precedenza, non solo a Corradino, ma alla famiglia Sveva, così che al lettore si apre innanzi un largo spettro delle vicende storiche che stanno alla base del romanzo e i personaggi vengono accompagnati da una qualche pietas per la sorte riservata loro dal destino.

Si pensi alla finta Cicella, una popolana ridotta ad una precoce vecchiaia dalle sofferenze e dalla miseria: «Giovanni intravide non più di cinque denti, tre sopra e due sotto.»

Ma anche al mago di Forcella, Iennarone, sgraziato dalla natura («Iennarone in piedi era più basso di Iennarone seduto sulla panca») e costretto ad arrangiarsi approfittando della credulità dei poveri.

O anche alla descrizione della piazza del mercato, «detta il Moricino», invasa da un fiumana di gente: «E poi al Moricino, comperando, elemosinando o rubacchiando, si poteva concludere la giornata con lo stomaco mezzo pieno, se non proprio soddisfatto.»

Quando Pederiali descrive gli attori che in piazza stanno recitando sopra un carro, non ho potuto fare a meno di ricordare scene altrettanto garbatamente ammiccanti e licenziose presenti ne «Il settimo sigillo» di Ingmar Bergman. Cupe e tali da risvegliare, per la furia che le pervade, il ricordo della notte dei cristalli, le pagine dedicate alla caccia degli ebrei da parte della folla napoletana: «L’orda, armata di torce, randelli, forconi, falci messorie, falcetti, coltelli, pietre o a mani nude, sciamò lungo i vicoli della Iodeca. Uomini e donne gridavano per incitare i compagni e sé stessi, bestemmiavano e invocavano i santi con la medesima furia, donne strillavano, ragazzi ridevano. Su rare porte era stata dipinta a calce una grande croce bianca, a segnare le case dei cristiani, e bastò quel segno a dirottare la violenza sulle altre case.»

L’autore sa rendere molto bene l’anima popolana di Napoli, suscettibile di ire furibonde. L’intreccio che ricama intorno alla ricerca dei due protagonisti gli consente di aprire più di uno squarcio sulle abitudini, sui pregiudizi, sulle superstizioni e sulle condizioni sociali di quel tempo. Contrariamente a quanto avviene nei romanzi di Dumas, i nomi delle locande sono eloquentemente significativi di una situazione di miseria. Prendete le due che vi giocano un ruolo importante: l’Osteria dell’Aurinale e la Taverna della Zoccola. Ma anche la Taverna del Decollato, la Taverna dello Scarafone, la Taverna del Grifune.

Sono convinto che un bravo regista potrebbe trarre dal romanzo un buon film alla maniera di quanto hanno saputo fare, ad esempio, Mel Gibson con «Braveherat» e Jean-Jacques Annaud con «Il nome della rosa». Vi sono scene molto adatte, come, ad esempio, l’assalto alla Iodeca, il trasferimento di Lallera prigioniera a Melfi, i cani che inseguono Lallera per ucciderla, la festa sacra e profana di Piedigrotta, la morte dello sbirro Nardo che si immerge nelle acque del lago Averno. C’è anche spazio per un Orco, una specie di gobbo di Notre Dame, nel viaggio verso Foggia, tra colline aspre «ricamate di crepe, anfratti, guglie e sbriciolate in pietre di tutte le misure.» E perfino si va in cerca del «Paese di Cuccagna», come in «Pinocchio», il paese dove, dice la bambina Ceccuzza, figlia di Lallera, «i dolci nascono tra l’erba, insieme ai fiori.»

Non v’è dubbio, inoltre, che Pederiali sa anche scendere con i suoi quadri apparentemente neutri, molto in profondità, non solo quando descrive gli ambienti, ma anche nei rapporti tra personaggi.

Leggete come sa descrivere con pudore ma anche lasciando scie di sensualità l’incontro d’amore tra i due sedicenni, inesperti di queste faccende, Corradino e Cicella, nella notte che precedette la decapitazione del re svevo.

È una pagina innocente e peccaminosa insieme, come è del resto la vita dei giovani di ogni tempo. Altrettanto accadrà più avanti allorché la bella giudea Allegra si troverà nuda davanti al signorotto di Napoli, il barone Monualdo di Melfi. E così Carola nel denudarsi davanti a Ciommo-Corradino («Nessuno mi ha mai vista così.»). Pederiali sa mescolare bene sensualità e pudicizia, che non eccedono mai. Sono scene che si ripetono con lo stesso timbro. Ne ritroveremo un’altra allorché, sempre il barone Monualdo, che tiene prigioniera Cicella, le taglia le vesti con un coltello per denudarla.

Anche la descrizione della caccia al cervo e quella della morte di Federico II hanno una sobrietà che non manca di suggestione.

Naturalmente la presenza dei due forestieri a Napoli alla fine crea qualche sospetto e si comincia ad indagare su di loro e a farli spiare.

Cicella immagina i rischi a cui suo figlio, che ha chiamato Corradino, come il padre, e che i compagni chiamano Ciommo, è destinato, una volta riconosciute le sue origini regali, e cerca di sottrarlo a Giovanni e a Yusuf, giacché la storia degli Svevi è una storia di guerre e di morti. Capiterebbe la stessa fine al figlio, che ora vive serenamente, facendo il suo mestiere di «chiavettiero» (spurgatore di pozzi neri), ed è perfino innamorato della giovane attrice Zeza, quella che abitualmente recita sulla piazza del mercato.

Le risponde Yusuf: «Un’aquila non può vivere da gallina.»

È così che Cicella viene convinta ad accompagnare i due nella casa di Ciommo, che vive all’interno delle catacombe di Napoli, che si trovano sotto la chiesa di San Paolo Maggiore, composte da «centinaia di stanze e di corridoi».

Pederiali non si tira indietro neppure quando c’è da descrivere l’amore tra una monaca, Olga, badessa del convento, ed un uomo, che nel nostro caso altri non è che lo scomparso Yussuf, cosa, come sappiamo, frequente in quei secoli. Come non ricordare l’amore tra Egidio e la monaca di Monza, narrato dal Manzoni.

La storia di Ciommo-Corradino s’incrocia con quella del papa del gran rifiuto, citato anche da Dante, Celestino V. Pederiali non manca di introdurlo nel romanzo in una rappresentazione fascinosa.

Avviene quando il lettore si è ormai quasi dimenticato di Yussuf e, con abilità narrativa, l’autore vi apre un altro squarcio interessante.

Fa perfino della canina Mea, incontrata da Allegra nelle catacombe di Napoli, un personaggio affettuoso e simpatico. Attraverso la sfortunata vicenda di Mea, Pederiali ci fa percorrere nel buio e nel mistero i corridoi e i cunicoli delle catacombe di Napoli, con due malandrini che inseguono Allegra, Zeza, e lo scomunicato Teofrasto e dove incontreremo anche il drago Ciullone, «un lucertolone accidioso, grasso e piuttosto stupido.»

Non è un caso che Pederiale sia autore anche di numerosi libri per ragazzi. Una tale vocazione emerge anche dalla lettura di questo romanzo. Orchi e draghi, non solo, ma anche i topi acquisiscono una propria saggia personalità: «In cambio i topi non avrebbero neppure assaggiato i formaggi in vendita o immagazzinati in cantina. Nessuno, né i Cosumano né i topi, mancò mai alla parola data.» Ad educare i topi ci pensa un giovane, Pietrino Cosumano, detto Rusechino. Virgilio, il grande poeta sepolto a Napoli, viene ritratto come un mago, tutto intriso di spirito napoletano: «Il popolo napoletano che amava la poesia e la magia, e le confondeva tra loro, aveva seguitato a venerare il poeta mago, patrono laico della città, pur imparando ad amare anche san Gennaro, patrono religioso.»

Carlo Pisacane è un altro personaggio che viene richiamato alla memoria del lettore dall’impresa di Corradino II. Speranza e delusione, sogno e realtà fanno di questa storia un paradigma di assoluta attualità.

Una ecatombe di impronta shakespeariana avvia il romanzo alla sua conclusione, che è amara, giacché vi si infrange il sogno di poter ripetere la singolare esperienza di armonia tra cristiani e musulmani riuscita al grande Federico II: «Gli Hohenstaufen amavano il nostro paese. La loro vittoria avrebbe significato un’Italia unita sotto la medesima corona, dalle Alpi alla Sicilia, e con leggi giuste e uguali per tutti.»