L’ultimo nastro di Krapp in scena al Ridotto del Teatro Rasi di Ravenna

La memoria come specchio deformante di se stessi e come simulacro delle aspirazioni giovanili. La pungente rivalsa di uno scrittore fallito di fronte al magnetofono ormai logoro e malfunzionante dove sono avvolti i nastri delle sue registrazioni. Una vita consegnata al registratore, dove ha confessato la sua pretesa di immortalità da lasciare alla storia, rinunciando all’amore di una donna che forse lo avrebbe reso felice.

È L’ultimo nastro di Krapp, pubblicato da Samuel Beckett nel 1958, portato in scena e diretto da Giancarlo Cauteruccio il 12 ottobre scorso al Ridotto del Teatro Rasi di Ravenna, in una terza edizione del monologo che gli è valso il Premio Ubu nel 2004, oltre al premio alla regia per il Trittico Beckettiano dall’Associazione Critici di Teatro all’Argentina di Roma nel 2006. 

Cauteruccio colora con la sua voce lenta e indurita dalla cadenza siciliana, la malinconia del testo, considerato tra le opere più incisive del teatro dell’assurdo che porta sul palco figure stralunate e bislacche, ma capaci di rendersi veicolo di verità per il pubblico.  Insieme ai lunghi silenzi e alla lentezza di una rappresentazione che porta chi guarda a percepirla come una seduta collettiva, in alcuni momenti, o un rito espiatorio, in altri ancora.

Tra lo spettatore e il pubblico c’è il vecchio magnetofono, senza il quale non sapremmo nulla di Krapp, un tramite meccanico che restituisce il suo entusiasmo di scrittore e l’addio alla fidanzata: Ho ripetuto che secondo me non avevamo speranza, che era inutile continuare, e lei ha fatto segno di sì, senza aprire gli occhi. Le ho chiesto di guardarmi e dopo pochi istanti… dopo pochi istanti lo ha fatto, ma gli occhi erano due fessure per via del sole. Mi sono curvato su di lei per farle ombra e allora si sono aperti. M’hanno fatto entrare.

Il Krapp anziano di Cauteruccio accentua volutamente la goffaggine del personaggio, nel suo incespicare nelle parole, bofonchiare, alzarsi, cercare le scatoline dove sono riposti i nastri con le registrazioni, tornare a sedersi, poi alzarsi ancora, adirarsi, guardare il pubblico con l’espressione corrucciata e sottilmente maligna, creando negli spettatori un latente imbarazzo.

La fisicità picaresca, il rumore dei suoi stravaganti stivali e la sua fagocitosi non sono antitetici rispetto al testo essenziale e scarno di Beckett, ma al contrario, come confessa lo stesso Cauteruccio alla fine dello spettacolo, c’è una vera e propria simbiosi tra autore e attore, tra testo e personaggio interpretato.

Beckett ci fa sapere che nelle velleità artistiche di Krapp, rivelatesi fallimentari e derise da lui stesso una volta anziano, c’è racchiuso il fallimento dell’uomo contemporaneo di fronte alla scoperta dell’assurdità dell’esistenza, ma soprattutto dell’impossibilità di rinnegare questa identità, riscriverla, rinnovarla, trasformarla in modo creativo.

Un fallimento dell’uomo di fronte al proprio passato individuale, dal quale è incapace anche di trarre saggezza. Rifiutando la possibilità di amare e di essere amato, chiudendosi nella sua narcisistica (e immaginaria) torre d’avorio di artista solitario, Krapp ha preparato da sé la sua disfatta. Senza spontaneità, senza relazione, senza una memoria emotiva piuttosto che meccanica e selettiva, la sua ricerca intellettuale e artistica si è assiepata in una sorta di onanismo cerebrale in cui assapora le parole (“bobina”), con lo stesso piacere con cui mangia le banane.

Rappresentata per la prima volta dall’attore Patrick Magee il 28 ottobre 1958 a Londra, al Royal Court Theatre, L’ultimo nastro di Krapp parla con umorismo di vuoto, buio e solitudine, aprendo uno squarcio sul rapporto tra l’artista e la sua opera. 

Anna Cavallo

Cover: Giancarlo Cauteruccio in L’ultimo nastro di Krapp – Photocredit Maurizio Buscarino