L’attrice teatrale e cinematografica ha portato in scena di recente Nemmeno con un fiore di Emanuela Frisoni sulla prostituzione

Trent’anni di presenza sui palchi teatrali italiani con ruoli intensi su temi sociali che spaziano dalla prostituzione alla parità di genere, ma anche la versatilità per scrivere e recitare in spettacoli comici, oltre alle esperienze cinematografiche e come regista. Patrizia Bollini, attrice, autrice e regista romagnolo-sanmarinese formatasi alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, racconta il suo percorso a Pagina Tre.

Partiamo dagli spettacoli con i quali sei appena andata in scena: Nemmeno con un fiore, scritto e diretto da Emanuela Frisoni presentato al Teatro Tiberio di Rimini in occasione dell’8 Marzo, che riguarda il mondo della prostituzione

“Questo spettacolo è ispirato a un fatto di cronaca realmente accaduto qualche anno fa: l’uccisione di una donna di 24 anni costretta a prostituirsi sulle nostre strade. Sul palco siamo tre attrici che interpretano 9 personaggi, alcuni di loro apparentemente distanti dal mondo della prostituzione ma in realtà, irrimediabilmente coinvolti. È un racconto a più voci che pone domande attorno al tema della violenza di genere, alla mercificazione dei corpi e sul significato dell’amore.

È uno spaccato immersivo e toccante sulle prostituzione, nato dall’esperienza delle Unità di strada e degli operatori dell’Associazione Papa Giovanni XXIII che da 25 anni incontrano e accolgono donne vittime di violenza e tratta. In occasione della Giornata Internazionale della Donna sono stati anche coinvolti più di 300 tra ragazze e ragazzi provenienti da 4 scuole riminesi diverse. Il dibattito a fine spettacolo è stato molto importante per cogliere la percezione a volte spaesata e a volte consapevole degli studenti”.

 

Anche in Dignità autonome di prostituzione diretto da Luciano Melchionna, si parla di prostituzione ma da una prospettiva completamente diversa

“Sì, infatti è uno spettacolo molto diverso, un format costruito sulla falsa riga di un bordello metropolitano nel quale gli spettatori, forniti di appositi dollarini pagano le attrici e gli attori per la loro prestazione artistica: un monologo. È uno spettacolo originale e divertente che non indaga il fenomeno della prostituzione vero e proprio ma che ha l’obbiettivo di coinvolgere il pubblico con attrici, attori, musicisti e cantanti dal vivo in un grande festa del teatro. Uno degli aspetti più intriganti è che in questo spettacolo cade l’aspetto formale del teatro venendo a mancare la quarta parete e spesso i monologhi si recitano in luoghi non convenzionali o limitrofi al teatro, dal sottoscala, al foyer, al parrucchiere esterno, al bar limitrofo, ai bagni dei camerini o nel retropalco”.

 

Degli altri due spettacoli che hai portato in scena nelle ultime settimane, entrambi diretti da Eugenio Sideri, vorrei soffermarmi su Finisce per A, ruolo che sei stata tu a proporgli. Come l’hai scoperta e perché hai scelto lei per parlare delle donne che hanno lottato per la parità invece di altre?

“Questo spettacolo ha una storia lunga: era il 2009 e stavo cercando materiale nella biblioteca dello sport di Roma perché volevo proporre nelle scuole uno spettacolo che parlasse delle grandi figure femminili dello sport. Con mio grande stupore non trovai quasi nulla se non un libro dal titolo. Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada di Paolo Facchinetti. Ne sono rimasta folgorata. Una storia incredibile, appassionante e misconosciuta. Parlava della vita e delle imprese sportive di questa donna emiliano-romagnola, del suo coraggio e della sua tenacia nel correre insieme agli uomini, lei, unica donna in sella ad una bicicletta, un vero scandalo! Ho capito subito che era l’occasione giusta per una sfida che avevo in mente da tempo di affrontare: il monologo.

Dopo aver contattato Eugenio Sideri chiedendogli di scrivere per me un monologo nel quale interpretare sia Alfonsina che il marito, Luigi Strada, ho ricevuto due pagine scritte da lui in cui la Strada parlava con Gesù. Un monologo in cui emergevano la rabbia e la fatica che doveva aver provato e che mi hanno profondamente commossa e spinta a proseguire nel progetto. Lui alla fine ha scritto l’intero spettacolo che è stato diretto da Gabriele Tesauri e insieme alla nostra squadra portato lo spettacolo in tournée abbiamo iniziato a portare lo spettacolo nei teatri di tutta Italia. Poi è stata la volta di Londra,  in occasione delle Olimpiadi del 2012 e Bruxelles, all’Istituto Italiano di Cultura. È uno spettacolo che ancora porto in scena e che continua a regalarmi emozioni e tanta soddisfazione”.

In Calére, invece, reciti un ruolo materno ed è ambientato nella seconda metà del secolo scorso, un ruolo in cui il personaggio esprime dolcezza e forza. È cambiato secondo te il ruolo della madre, è meno dolce e più combattivo rispetto alla generazione precedente?

“A mio parere le madri sono sempre state combattive, soprattutto per i figli. Chissà perché ma mi sono venuti in mente due episodi su mia nonna materna. Durante la seconda guerra mondiale ha rischiato di morire in due occasioni diverse: una volta quando è rientrata nella casa alla quale i tedeschi avevano dato fuoco per portare in salvo il più piccolo dei suoi sette figli e un’altra volta quando ha rischiato di farsi sparare perché non voleva lasciare la copertina di uno dei suoi bambini ad un tedesco che la stava strattonando per averla. Si, possono sembrare episodi straordinari ma sono i momenti difficili che danno alla luce la vera indole delle persone”.

Dai ruoli drammatici a quelli comici, come quello dell’Elettrosciocche, scritto da te e diretto da Gabriella Alejandra Praticò. Che rapporto c’è tra fisicità e comicità nel tuo modo di fare teatro comico?

“Questo spettacolo è stato scritto a quattro mani insieme Mara Di Maio e nasce dalla nostra sinergia umoristica/artistica. In scena abbiamo un lettino, una sedia, una lampada per scandire le sedute e due postazioni in proscenio che rappresentano le relative case private. Interpretiamo una psicoterapeuta e una paziente, ognuna con le proprie patologie e debolezze, in un avvicendarsi di sedute nelle quali affiorano caratteristiche e incomprensioni che renderanno il rapporto sempre più insostenibile ed esplosivo, con ironia e situazioni paradossali. Elettrosciocche ci fa ridere delle nostre manie, paranoie e fragilità quando ci rapportiamo con il resto del mondo.

Per quanto riguarda il rapporto tra fisicità e comicità, certamente in quella femminile esistono degli stereotipi, anche fisici, di personaggi femminili : la zitella acida, la bionda avvenente e svampita, la bruttina che è un pesce fuor d’acqua, la casalinga disperata, tutte figure su cui poter puntare per riuscire a far ridere e divertire. Ma oggi ci sono anche altre realtà, più moderne e innovative, sia dal punto di vista attoriale che drammaturgico. La comicità che desidero esprimere io è sottile, mai volgare o offensiva e che possa offrire anche dei momenti poetici”.

Parliamo adesso delle tue esperienze anche come regista, una decina di anni fa: Solo Dio lo sa di Fabio Chiriatti e Fermata non richiesta di Donata Chiricò. Aver lavorato anche come regista ha influito sul tuo modo di essere attrice negli anni a seguire?

“Direi il contrario: avere lavorato come attrice mi ha dato una sensibilità diversa nel ruolo di regista perché più consapevole delle dinamiche attoriali, tenendo sempre presente che ogni singola attrice e ogni singolo attore è unico e ognuno porta in scena una personalità e delle dinamiche creative differenti. Continuo, quando ne ho l’occasione, a condurre laboratori teatrali con giovani allievi ed è una cosa che mi restituisce sempre tantissimo, sia in termini creativi che umani”.

 

Il tuo rapporto con la scrittura di A. Cechov, a cui ha lavorato in Tre sorelle- Stratigrafie di un vuoto, insieme a Senza Fissa Dimora Teatro…

“Avevo avuto l’occasione di lavorare su Tre sorelle di Cechov durante la Scuola di Teatro di Bologna ed era stato una bellissima scoperta, soprattutto perché avevamo avuto modo di lavorarci insieme ad una persona molto brava e coinvolgente quale è Renata Palminiello. Con lei ho scoperto il lavoro sul personaggio in base al modo di lavorare del suo Maestro, Thierry Salmon, e tutto quel materiale umano, artistico e creativo ho cercato di portarlo sempre con me in quasi tutti gli spettacoli nei quali ho avuto l’occasione di recitare”.

Finiamo con il cinema. Diversi i film girati, l’ultimo dei quali, Solo cose belle, diretto da Kristian Gianfreda. Il cinema come lo senti e lo vivi rispetto al teatro?

“Il teatro è per eccellenza lo spettacolo dal vivo e lo costruisci tu attraverso la tua carne, le tue ossa, il tuo sangue, il tuo vissuto, la tua emotività, la tua sensibilità. Ed è qui e mai più, unico ed effimero. È vivo perché per esistere devono esserci attrici e attori vivi, spettatrici e spettatori vivi. La magia del teatro è data dalla consapevolezza di essere sul palco, in quel momento, e di sentire il proprio corpo dilatarsi ed espandersi sotto le luci mentre dalla platea si intuisce l’emotività che si riflette in un gioco continuo di specchi tra spettatori e artisti.

Il cinema è un ingranaggio meraviglioso, è una magia che unisce arte e strumenti tecnologici. Quando ho girato Solo cose belle di Kristian Gianfreda, mi sono ritrovata catapultata in un mondo fantastico, in cui sei un piccolo pezzo del puzzle ma in quel momento sei unico e prezioso e devi cercare di trovare l’interpretazione perfetta perché… è quello che rimarrà per sempre. Affascinante e inquietante! Cinema e teatro sono fabbriche di sogni che regalano esperienze per far vibrare le anime”.

Anna Cavallo