-Vai già via, papà?
-Per forza, Miriam, tra poco Luisella chiuderà la farmacia e io comincerò il mio turno di notte.
-Allora niente storia stasera.
-Te la racconterà la mamma.
La mamma di Miriam sapeva bene che la figlia, sette anni e una passione smisurata per i racconti, preferiva che fosse il padre a raccontarle la storia che l’avrebbe accompagnata nel mondo dei sogni. Le storie che le raccontava era lui a scriverle.
-Giovanni, sei pentito di fare il farmacista? -chiese un giorno al marito.
-Solo un po’.
Ed era stato sincero. Il fatto è che Giovanni era diventato farmacista non tanto per vocazione, quanto per necessità. Il padre possedeva una farmacia che contava più di cent’anni di vita.
Sin da quando Giovanni era bambino, gli ricordava: -Questa farmacia fu aperta dal tuo trisnonno ed è sempre passata di padre in figlio. Perciò mi piacerebbe che fossi tu a rilevarla quando io non potrò più occuparmene. Ma per farlo, devi diventare farmacista anche tu.
-A me piacerebbe fare lo scrittore, papà.
-Giovanni, non ne sono sicuro, ma credo che ci siano stati dei farmacisti che facevano anche gli scrittori.
-Erano dei medici, papà. Non stavano tutto il giorno in farmacia.
Ma Giovanni voleva bene a suo padre e sapeva che, sia pure con delusione e tristezza, lo avrebbe lasciato decidere del suo futuro.
Comunque, quando cominciò a frequentare il liceo, nella città distante pochi chilometri dal grosso paese dove abitava, disse al padre: -Diventerò farmacista, papà.
-Sono contento della tua decisione, Giovanni.
A mano a mano che passavano gli anni. Giovanni si innamorò sempre più della sua professione, anche se non smise di leggere accanitamente i suoi amati romanzi e di scrivere racconti. Molti spunti glieli davano proprio i frequentatori della farmacia, che gli raccontavano le loro storie quasi come si fa con un confessore.
Uomini, donne, anziani, si rivolgevano a lui prima di andare dal medico.
-Ho un mal di testa tremendo, Giovanni, che cosa mi consiglia di prendere? -chiedeva una donna.
-Le ossa non mi danno pace, le sento addirittura scricchiolare – si lamentava la nonna più anziana del paese.
-Possibile che non riesca a tenere sotto controllo la pressione? -chiedeva uno che era andato in pensione da poco. Dovevo continuare a lavorare. Stavo così bene prima di smettere.
Da Giovanni andavano anche i bambini accompagnati dalle madri.
-Non le sembra che il mio Luigi sia un po’ pallido, Giovanni? Sono preoccupata.
Giovanni ascoltava tutti, dava consigli, e quando gli sembrava che il problema fosse più serio, mandava i suoi clienti a farsi visitare dalla dottoressa di famiglia.
Quella sera, prima di uscire di casa, la moglie gli fece le solite raccomandazioni: -Sii prudente. Consegna le medicine dallo sportellino e non far entrare nessuno. Non si sa mai. Potrebbero venire a bussare dei malintenzionati.
-Stai tranquilla. In paese conosco tutti.
-Potrebbero venire di fuori.
-Starò attento.
-E copriti bene, fa molto freddo fuori.
Era il due febbraio e da alcuni giorni soffiava un vento gelido di tramontana tagliava il viso e irrigidiva le mani.
Giovanni indossò un basco, si avvolse la sciarpa intorno al collo, infilò un paio di guanti, baciò prima la figlia, poi la moglie e uscì di casa.
La farmacia distava alcune centinaia di metri dalla sua abitazione e si trovava sotti i portici che si affacciavano sulla strada principale del paese.
Da un anno circa Giovanni aveva assunto nella farmacia Luisella. Si era laureata da poco e faceva con entusiasmo il suo lavoro.
-Sono troppo giovane – diceva a Giovanni. -Ce ne vorrà prima che i clienti vengano a chiedere consiglio a me. Se non ci sei, quasi tutti mi chiedono: «Quando arriva Giovanni?»
-Non preoccuparti, era così anche con me all’inizio. Si fidavano soltanto di mio padre.
Mentre si avviava alla volta della farmacia, Giovanni annusò l’aria e guardò il cielo. Probabilmente più tardi avrebbe cominciato a nevicare.
Chissà se sarebbe stata una notte tranquilla. In ogni caso, non riusciva mai ad addormentarsi quando faceva il turno di notte. Sistemava la brandina nel locale posteriore della farmacia, la preparava come se si accingesse ad andare a letto, ma preferiva sedersi alla piccola scrivania, accendeva la lampada e si metteva a leggere.
Gli piacevano le storie che parlavano della gente comune ma anche quelle che raccontavano i sogni e le aspirazioni dei bambini. Un giorno aveva chiesto a Miriam: -Ti piacerebbe fare la farmacista un giorno?
-Non lo so, papà – gli aveva risposto Miriam. -Devo deciderlo subito?
-Ma no, coltiva pure i tuoi sogni e coccola i desideri che ti passano per la testa. Sei ancora piccola.
Non era sicuro di voler fare a Miriam il discorso che il padre aveva fatto a lui sulla farmacia che continuava a restare in famiglia da più di un secolo. La libertà prima di tutto, pensava. Poi, si sarebbe visto.
Giovanni entrò nella farmacia, mentre Luisella si accingeva a tornare a casa.
-Vai pure – le disse Giovanni. -Tiro giù io la saracinesca.
Luisella indossò il cappotto, si calcò in testa un caldo berretto di lana e augurò una buona notte a Giovanni.
-Non credo che dormirò molto – le sorrise Giovanni.
-Domani mattina arriverò puntuale alle otto e trenta.
-Non avere fretta.
Giovanni tirò giù la saracinesca, vecchia e rumorosa, spense le luci, accese la lampada verde sulla scrivania e decise di prepararsi una tisana alle erbe sul fornello elettrico che aveva sistemato in un angolo su un mobiletto.
Quando fu pronta, la zuccherò con del miele di acacia e si sedette davanti alla scrivania per gustarla sorso dopo sorso.
Subito dopo andò a prendere una edizione completa dei racconti di Čechov da uno scaffaletto e cominciò a leggere.
Un’ora dopo, squillò il campanello.
Si alzò, aprì lo sportellino e chiese: -Chi è?
-Sono io, dottore, Luigi.
-Ciao, cosa vuoi?
-La nonna ha male alla gamba.
-Alla solita?
-Sì. Dice che deve darmi la medicina che lei sa.
-Non ne ha più in casa?
-No.
-Ci vuole la ricetta, Luigi.
-La nonna ha detto che si è dimenticata di farsela prescrivere dalla dottoressa.
-Se non ti conoscessi, non potrei dartela. Aspetta, vado a prenderla. Sei coperto bene?
-Sì. Ho il cappotto sopra il pigiama.
Giovanni prese una scatola di compresse, la passò a Luigi attraverso lo sportellino della saracinesca e gli disse. -Corri subito a casa e non prendere freddo.
-Grazie, dottore.
Luigi aveva dodici anni, viveva con la nonna da quando i suoi genitori erano morti in un incidente stradale e si prendeva cura dell’anziana donna tanto quanto lei si prendeva cura del nipote.
-È un ragazzo meraviglioso -raccontava la nonna a Giovanni quando riusciva ad andare da sola in farmacia. -Tutti i professori sono contenti di lui a scuola. Dicono che ha una intelligenza fuori dal comune e che farà grandi cose.
-Luigi non ha solo l’intelligenza per studiare – osservava Giovanni. – Ha anche quella di capire gli altri. A cominciare da lei, cara Maria.
-È vero, mi vuole bene, fa molte cose in casa e a volte anticipa i miei desideri. Io però divento sempre più vecchia e sono preoccupata per il suo futuro. Non ha altri parenti, purtroppo, e questo è un guaio.
Giovanni però la rassicurava: -Ci penserò io ad avere un occhio di riguardo per lui, in caso di necessità
E non lo diceva solo per dire.
Tornò alla scrivania e riprese a leggere. Čechov lo stregava. Scriveva con tanta semplicità, con tanta verità. E poi era stato un medico, e dunque lo sentiva ancora più vicino.
Mezz’ora dopo suonò di nuovo il campanello.
-Giovanni, Giovanni!
Era la signora Lucia. Giovanni la conosceva bene.
Giovanni decise di aprire la porta, invece dello sportellino, perché aveva avvertito un tono di allarme e di forte preoccupazione nella sua voce.
-Cosa succede, Lucia?
-Il mio bambino ha la febbre alta, più di 39, che cosa posso dargli?
-È influenzato?
-Non lo so, può darsi.
-Quanti anni ha?
-Ne ha compiuti cinque due giorni fa.
-E se lo portasse in ospedale?
-Magari domani mattina, fa troppo freddo e non c’è nessuno che possa accompagnarmi in auto.
-Ti do qualcosa di adatto a lui, ma se tra qualche ora la febbre non si abbassa, ti consiglio di portarlo al pronto soccorso.
-Lo farò. Magari chiedo a Francesco di darmi uno strappo con la sua auto. Lui dorme poco, lo so.
-Tuo marito è al lavoro, immagino.
-È così. Stanotte doveva guidare il treno da Vercelli a Milano.
Giovanni sapeva che il marito di Lucia faceva il macchinista e a volte si faceva raccontare qualche curiosità sui suoi viaggi solitari nella motrice che guidava.
-Ecco, dagli cinque di queste gocce – disse a Lucia. -Ma non di più, mi raccomando.
-Quanto le devo?
-Mi pagherà domani. Adesso torni a casa dal suo bambino. Lo ha lasciato solo?
-Per forza.
-Vada, vada.
-Grazie, Giovanni, a domani.
Giovanni sentì un’improvvisa stanchezza e una gran voglia di chiudere gli occhi.
Tornò alla scrivania, chiuse il libro e andò a stendersi sulla brandina senza spogliarsi. Prima diede un’occhiata all’orologio: mezzanotte. Fuori il vento stava rinforzando. Lo sentiva che fischiava sotto i portici e che faceva sbattere la saracinesca.
Chiuse gli occhi e desiderò che nessuno venisse a disturbarlo mentre scivolava piano piano nel sonno.
Ma una mezz’ora dopo sentì qualcuno tossire con insistenza sotto i portici, proprio a ridosso della farmacia.
E indovinò subito di chi poteva trattarsi. Doveva essere Remigio. Remigio viveva sulla strada, faceva piccole riparazioni domestiche, a volte veniva invitato a pranzo da qualcuno. Il Comune gli aveva offerto un piccolo alloggio, ma lui l’aveva rifiutato, senza spiegare perché.
Anche Giovanni lo aiutava fornendogli gratis qualche medicinale generico, in caso di necessità. Ma Remigio godeva, tutto sommato, di buona salute. A volte si assentava dal paese, e quando ritornava non dava spiegazioni sulle sue assenze a chi gliele chiedeva.
-Dove sei stato Remigio?
-Qua e là.
Giovanni si alzò, si accostò alla saracinesca e chiese: -Chi c’è là fuori? Remigio, sei tu che tossisci?
-Sono io – rispose una voce roca.
-Sei ammalato?
-Mi brucia la gola.
-Vengo ad aprirti.
Giovanni aprì il portoncino e disse a Remigio: -Entra, fammi dare un’occhiata.
-Non ho niente. È solo un po’ di tosse.
-Quanti anni hai Remigio?
-E chi se lo ricorda più? Forse più di settanta.
-Remigio, non puoi continuare a vivere in strada. Accetta l’aiuto del Comune.
-Non sono più abituato a vivere al chiuso.
-Ma almeno di notte dovresti stare al riparo.
Giovanni accese la luce e chiese a Remigio di spalancare bene la bocca.
-I denti non sono un granché – disse. -Bisognerebbe fargli dare un’occhiata da un dentista. E la gola è molto arrossata. Hai sicuramente una faringite. Ti do uno sciroppo da prendere più volte al giorno.
-Non ho i soldi per pagarlo.
-Non li voglio. A proposito, vorrei invitarti a pranzare con noi, un giorno. Ci vieni?
-Ci penserò.
-Fammelo sapere…Ecco lo sciroppo. Bevine un sorso direttamente dalla bottiglia.
-Grazie, vado via, non voglio più disturbare.
-Vuoi passare la notte in farmacia? Fa un freddo glaciale là fuori.
-No, grazie. Ho dove dormire.
-Dove?
-Non si preoccupi.
-Aspetta, non andare va subito. Preparo una tisana per entrambi. Ti riscalderà.
Remigio bevve in piedi la tisana e sembrava impaziente di andar via.
-Da quanto tempo vivi sulla strada? – gli chiese Giovanni prima di lasciarlo andare.
-Non me lo ricordo. Buona notte, dottore.
-Buona notte a te, Remigio. E vieni a cercarmi se ne hai bisogno.
Giovanni richiuse il portoncino e tornò a sedersi ala scrivania. Il sonno gli era passato del tutto.
Allora aprì il cassetto, tirò fuori un quadernone e una penna stilografica e decise di scrivere una storia per Miriam. Era più forte di lui. Se apriva un computer, la vena creativa si spegneva. Aveva bisogno di stringere con le dita una penna, per consentire ai pensieri di legarsi uno all’altro senza troppa fretta.

Che cosa poteva scrivere per Miriam? Forse la storia di Remigio? Poteva immaginare qual era stata la sua infanzia. Forse non era stata troppo diversa da quella degli altri bambini che erano nati in paese. Poi cos’era successo? Che cosa aveva deciso il corso della sua vita? Poteva interessare una storia del genere a una bambina? A Miriam era sicuro che sarebbe piaciuta. Era una bambina molto matura e si faceva un sacco di domande sulla gente che incontrava quando il padre la portava a Torino a passeggiare in centro, sotto i portici o a giocare sui prati del Valentino e ad andare in barca sul Po.
Come doveva cominciare? “C’era una volta un uomo chiamato Remigio…” Oppure: “Tutti conoscevano Remigio…”
Ma non riuscì a cominciare la sua storia, perché ad un tratto sentì un miagolio insistente sotto i portici.
-Zenzero! – esclamò Giovanni. -Dev’essere lui.
Zenzero era un gatto randagio del quale si prendevano cura in tanti. Aveva il pelo di un bel colore rosso e molti avevano tentato di prenderlo in casa, per addomesticarlo.
Ma non c’era stato niente da fare. Zenzero scappava subito via e tornava sulla strada. Era uno spirito libero insofferente di limiti e dei luoghi chiusi.
Giovanni andò ad aprire il portoncino.
Non si era sbagliato, era lui.
-Hai fame? -gli chiese chinandosi ad accarezzarlo sulla nuca.
Gli rispose un miagolio che era come una richiesta di aiuto.
-Sarà meglio che entri a riscaldarti e a rifocillarti – gli disse Giovanni. -Questa non è notte nemmeno per te.
Lo prese in braccio e lo portò accanto alla sua brandina. Poi andò a prendere un piatto di plastica e lo riempì di croccantini. Non era la prima volta che dava da mangiare a Zenzero e dunque i croccantini erano sempre presenti in farmacia.
Giovanni amava molto i gatti. Erano i suoi prediletti sin da bambino, anche se non li aveva mai avuti in casa, perché i suoi genitori avevano una spiccata allergia al pelo di questi meravigliosi felini. Perciò, da piccolo, andava a cercarli sulla strada, dava loro da mangiare, li prendeva in braccio e, prima di tornare a casa, si scrollava di dosso il loro pelo, per non irritare gli occhi di sua madre.
Giovanni posò per terra il piatto con i croccantini e Zenzero si mise a mangiare come se non aspettasse altro quella notte.
Mentre mangiava curvo sul piatto, Giovanni notò una piccola lacerazione sul dorso, in prossimità della coda.
-Cos’è? Un morso o una ferita che ti sei procurato per sbadataggine? – chiese con tono carezzevole al gatto, mentre gli spostava il pelo per rendersi meglio conto dell’entità del danno subito.
Si rese però subito conto che era un ferita vecchia e già rimarginata, e dunque non era necessario medicarla.
Svuotato il piatto, Zenzero saltò sulla coperta e si accoccolò ai piedi della brandina.
-Vuoi tenermi compagnia per il resto della notte? – gli chiese Giovanni. -Fai pure, non ho intenzione di coricarmi.
Zenzero chiuse gli occhi, schiacciò il muso sulla coperta e si addormentò.
Erano le tre e Giovanni si mise ad aspettare l’alba.
Allora cambiò idea e decise di scrivere la storia di un gatto per Miriam.
Qui sì che poteva cominciare con “C’era una volta un gatto…”
E si ricordò di colpo del gatto, di cui aveva cercato di impadronirsi quando lo aveva visto acquattato sul balcone sbilenco di una casa diroccata ai margini del paese.
Era una casa dalla quale si raccomandava ai bambini di stare lontani. Era stata recintata, ma qualcuno si infilava sempre sotto la recinzione, tanto per disubbidire ai divieti degli adulti.
Lo aveva fatto anche lui una volta. Aveva dieci anni e aveva cercato di raggiungere il gatto bianco acquattato sul balcone. Ma aveva desistito quando, dopo alcuni passi nel cortile ingombro di macerie, aveva visto staccarsi alcune tegole dal tetto.
Era tornato indietro e, da quella volta, passava ogni giorno davanti alla casa diroccata, per contemplare il gatto che sembrava fare la guardia a un luogo che prima o poi sarebbe scomparso per sempre.
Cominciò a scrivere e, ogni tanto, lanciava un’occhiata a Zenzero, che dormiva saporitamente nell’angolino che si era ricavato sulla branda per il suo riposo.
Verso le cinque la storia era finita. Giovanni l’avrebbe letta a Miriam al suo ritorno da scuola.
Subito dopo cominciò a sentire dei rumori sulla strada, uno scambio di voci, qualche risata trattenuta, degli sbadigli.
I venditori ambulanti stavano già erigendo le loro bancarelle sui cavalletti, svuotavano i furgoni, aprivano le tende a forma di ombrelli. Giusto, era mercoledì, giorno di mercato. Più tardi sarebbero arrivati acquirenti anche dai paesi vicini e dalla campagna.
La giornata stava cominciando. Chissà se era già chiaro fuori. Diede una sbirciata all’orologio: le sei.
Ad un tratto sentì un urlo.
-Mamma che male, mamma che male!
-Franco che t’è successo?
-Mi sono sbucciato un dito aprendo la tenda.
-Fai vedere…Altro che sbucciato. Ti è quasi saltata un’unghia.
-Mamma che male, mamma che male!
-Bisognerebbe disinfettarlo. Vedrai che tra poco si gonfia. Qualcuno ha dietro del disinfettante, un paio di cerotti?
Ma nessuno rispose positivamente.
-Peccato che la farmacia sia chiusa.
-Prima delle otto e mezza non apre.
Giovanni udì distintamente quei brandelli di conversazione e si affacciò sotto i portici.
-Qualcuno si è fatto male? – si informò.
-Lei è il medico? – chiese l’uomo barbuto che continuava a lamentarsi.
-Sono il farmacista.
-Può fare qual cosa per il mio dito? Altrimenti oggi non riesco a lavorare.
-Venga dentro e mi faccia vedere.
Giovanni disinfettò, medicò e fasciò il dito dell’uomo.
-Mi salterà l’unghia? – chiese l’ambulante.
-È probabile. Le fa ancora molto male?
-Molto meno. Ha fatto il turno di notte, dottore?
-Sì.
-Una bella fortuna per me. Quanto le devo?
-Ne parli con la mia collega quando aprirà la farmacia più tardi.
-Grazie.
Zenzero non si era scomposto e aveva continuato a dormire.
Poco dopo, però, aprì gli occhi, si inarcò, si stiracchiò, sbadigliò fino a sganasciarsi la bocca e fece capire a Giovanni che voleva andar via, andando ad appostarsi dietro il portoncino.
-Hai appuntamento con qualcuno? – gli chiese Giovanni sorridendo.
Gli aprì e lo salutò dicendogli: -Buona giornata.
Alle otto e trenta tirò su la saracinesca, un minuto prima che arrivasse Luisella.
-Sei riuscito a dormire almeno un po’? – gli chiese battendo i denti per il freddo.
-No, vado subito a recuperare. Buona giornata, Luisella.
Giovanni si avviò e mentre si avvicinava a casa, cominciò a nevicare.
In mano aveva il quaderno con la storia per Miriam e lo infilò sotto il cappotto per non farlo bagnare.
Sua moglie gli aprì prima che infilasse la chiave nella toppa.
Lo baciò e gli chiese: -Com’è andata?
-Te lo racconto dopo che avrò fatto una bella dormita.
-Vuoi bere qualcosa di caldo?
-Sì, un bel bicchiere di latte. Con tanto miele, grazie. Hai accompagnato la bambina a scuola?
-Ne sono appena tornata.
-Ho scritto una storia per lei.
-Posso leggerla?
-Naturalmente.
Quando si infilò a letto, Giovanni pensò a Zenzero, che camminava sotto la neve. O forse era andato a cercarsi un posticino riparato sotto i portici, dal quale osservare pigramente l’affaccendarsi caotico degli ambulanti che avevano cominciato a vendere le loro merci e delle donne che tiravano sul prezzo, mentre tastavano maglie, biancheria, pantaloni, gonne, sciarpe ed altre cose.

Fine.