Il medico di Cerri

di
P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

tempo di lettura: 20 minuti


Il medico di Cerri, o semplicemente «u dutture», come lo chiamavano nel selvatico dialetto di lassù, era un uomo che aveva passato la sessantina; ma era ancora gagliardo e in gamba come un giovanotto.

Mangiatore e bevitore a tutta prova, gli piacevano la buona tavola e la buona compagnia. Ma non gli rincresceva la fatica; e d’estate o d’inverno, di giorno o di notte, a piedi o a cavallo, si vedeva sempre in giro per tutte le mulattiere e per tutti i sentieri della sua condotta, sostando ad ogni villaggio e a ogni casolare, dove ci fosse da visitare un malato o, meglio, da fare uno spuntino o da bere un bicchiere, oppure, in mancanza d’altro, da dir male del prossimo.

Infatti, il medico di Cerri aveva anche fama di essere una mala lingua.

Certo, non era un’arca di scienza. Ed era, per giunta, tagliato con l’accetta; malgrado il suo sussiego dottorale e un certo suo pretenzioso modo di vestire, cui davano il tono un immancabile cappello duro di vecchia foggia e una veneranda giubba a falde, avanzo d’altri tempi. Precauzioni, a suo giudizio, necessarie per mantenere le debite distanze tra lui e quei zoticoni di lassù e che facevano un bizzarro contrasto con le sue grosse scarpe ferrate, esperte di tutti i più ardui sentieri della montagna.

Però, non era un tónto. Anzi, scarpa grossa e, in un certo senso, cervello fino: proprio come quella gente di montagna, affidata alle sue cure e in mezzo alla quale viveva da molti anni.

Ma, tutto sommato, non era ben visto: forse per quel suo difetto della lingua lunga, che non perdonava a nessuno. Così, ogni tanto, quei montanari gliene combinavano di quelle che sarebbero bastate per far sloggiare da Cerri chiunque altro non avesse avuto la pelle dura come lui. Ma il dottore non badava a tutto ciò; e li ripagava con la stessa moneta. Anzi, come dicevano i maligni, si vendicava mandandone all’altro mondo quanti più poteva!

Se ne raccontano d’ogni colore di lui. Una volta, che era già sull’imbrunire, tornando da una visita in una frazione lontana, mentre attraversava una località solitaria, che per giunta portava il nome poco allegro di Groppo dei Morti, dal folto di una macchia di nocciòli selvatici, gli fu sparato un colpo di fucile a pallettoni, uno dei quali gli passò da parte a parte l’immancabile cappello duro. A quel saluto inatteso, il dottore si mise a gridare con quanta voce aveva in corpo: — Fermatevi! Sono il dottore! — Ma, dal folto della macchia, una voce gli rispose, con tono beffardo: — Ben per ciò ch’te u dutture! — Non era il caso di replicare; e il dottore, mezzo morto dallo spavento, se la dette a gambe, come una lepre, raggiungendo, in un batter d’occhio, il paese.

Ma non sempre si arrivava a questi estremi. Il più delle volte, anzi, quei montanari, che, in fatto di malizia, ne sapevano una più del diavolo, si limitavano a giocare al dottore qualche tiro birbone, che faceva ridere alle sue spalle tutta la gente di Cerri e dei paesi vicini. Ma il dottore, che, birberia per birberia, non la cedeva nè a loro nè al diavolo, qualche volta riusciva a rendere pane per focaccia e in modo da lasciarli col danno e con le beffe. E allora a ridere era il dottore; e la sua lingua faceva il resto.

Ecco qui una di quelle complicate schermaglie, senza esclusione di colpi, che spesso si impegnavano tra il dottore e i suoi antagonisti e che ancora, a distanza di anni, si raccontano a Cerri, a veglia, nelle lunghe serate d’inverno, accanto alla fiamma, mentre fuori si lamenta la tramontana, risvegliando gli echi misteriosi della montagna.

Era, adunque, un giorno di carnevale e il dottore, come si dice lassù, era «di nozze»: cioè festeggiava con grande solennità il matrimonio della sua ultima figliuola. Il pantagruelico banchetto, secondo gli usi tradizionali della montagna, cominciato a mezzogiorno, durava già da parecchie ore; ed ancora non si era sul più bello!

Quand’ecco, in mezzo all’allegria conviviale, alcuni colpi battuti violentemente alla porta, fanno cessare, come per incanto, il clamore dei commensali, che si guardarono in faccia. — Sarà una chiamata! — brontolò il dottore e si alzò, di malumore, per andare a vedere chi era l’importuno, che veniva a guastare la festa.

Era proprio una chiamata. E l’importuno era Angiò, figlio minore di Pinon da Roncovecchio, un villaggio sperduto tra i monti, che veniva, trafelato per la corsa, a chiamare il dottore, perchè suo padre stava male: proprio male da morire!

— E da quando sta male? – domandò il dottore?

— Da questa mattina, signor dottore. Ma ora sta proprio male; non può più respirare… Sta per morire.

— Ma non può essere niente di grave. Sarà il solito suo asma. Verrò domani; oggi, non posso… Ti darò una medicina…

— No, signor dottore: deve venire subito – insistè Angiò – Le dico che mio padre sta proprio per morire e lei non può lasciarlo morire come un cane.

Davanti all’insistenza del giovane, il dottore cominciò a sentirsi perplesso. Angiò ne approfittò per incalzare:

Vènta chi vègna fito, siur dutture! Lei solo può salvarlo!

Un po’ per scrupolo, un po’ lusingato da quest’ultima frase, il dottore finì per arrendersi. Risalì le scale per avvertire che doveva andare fino a Roncovecchio per visitare Pinon, che stava male da morire, assicurando che, tra un paio d’ore al più tardi, sarebbe stato di ritorno. Si accomiatò dai commensali, scese nella stalla, si fece aiutare da Angiò a insellare la sua vecchia cavalcatura, l’inforcò con qualche fatica e via di buon passo alla volta di Roncovecchio: lui avanti, taciturno e imbronciato per la festa dovuta lasciare a metà, l’altro dietro con aria sorniona, ridendo sotto i baffi per il tiro così ben riuscito.

Perchè era proprio un tiro birbone, che quelli di Roncovecchio avevano voluto fare, proprio in quel giorno di festa, al loro dottore. L’idea era venuta, quella mattina stessa, a quel malanno di Iacpè della Volpe, quando si ricordò del matrimonio della figlia del dottore.

— Bisogna guastare la festa al dottore – pensò – e farlo venire quassù, proprio quando si trova a tavola a riempirsi la pancia di buoni bocconi! – Ma dove trovare l’ammalato? Gli venne in mente che c’era Pinon, un vecchio asmatico, che da un paio di giorni si era messo a letto per uno dei soliti attacchi del suo male. Era quello che ci voleva. Ne parlò ai due figli, Tognoncè e Angiò, che senz’altro trovarono magnifica l’idea. Ma prima bisognava preparare il vecchio; e se ne incaricarono proprio quegli scavezzacolli dei suoi figli.

Così, concertato il piano diabolico, Tognoncè, seguito da Angiò, salì nella camera del padre, che si trovava a letto, e, con una faccia d’occasione, gli domandò come stava. Neppure a farlo apposta, il padre, quella mattina, si sentiva meglio: ma quei bricconi non abbandonarono la partita.

— Eppure avete una brutta cera, pà! – ribattè, osservandolo con simulato interesse, Tognoncè.

— Una brutta cera?

— Sì, proprio una brutta cera: si vede che, stanotte, non avete riposato bene.

— A dire la verità ho dormito poco – consentì il padre – ma, grazie a Dio, ora mi pare di star bene.

— Non vi fidate, pà. Vi dico che avete una brutta cera, credete a me, è uno specchio che non inganna mai! Vedrete che vi ripiglierà l’asma e passerete una brutta serata e una notte peggiore. Se fossi in voi, manderei a chiamare il dottore.

— Il dottore? Ma che cosa dici Tognoncè?

Mè a digo ch’a ne stè brisa ben e che bisogna chiamare il dottore, pà!

— Sì, è meglio chiamarlo – rincalzò a sua volta Angiò.

— Ma, oggi, il dottore è «di nozze» – osservò il padre – E disturbarlo proprio oggi non va bene. E poi speriamo che l’asma non venga.

— V’ingannate, pà! Avete bisogno del dottore; e il dottore dovrà venire, anche se oggi è «di nozze».

Il pover’uomo cominciava a non sentirsi più tranquillo. Gli pareva anche di respirare con difficoltà e guardava ora Tognoncè ora Angiò, come per spiare, sui loro visi, la verità. Ma sì: respirava proprio male e, per giunta, provava un’oppressione al petto, come quando stava per venirgli il male, e gli pareva di soffocare.

— Tognoncè dove sei? Mi sento un po’ male.

— Ve l’ho detto, pà; ci vuole subito il dottore – fu pronto a rispondere quella birba. E aggiunse: – È meglio chiamarlo subito. Non bisogna aspettare che il male si faccia grosso. Curato subito, vedrete che passerà!

Il padre, con un sospiro, si rassegnò; Tognoncè e Angiò, usciti nella strada, riferirono ai compari, che attendevano impazienti, l’esito della loro impresa. E, senz’altro, fu deciso che Angiò, il più giovane dei due figli, sarebbe sceso a Cerri per chiamare il dottore, regolandosi in modo da arrivare alla casa di lui proprio quando il pranzo di nozze era nella sua fase culminante.

E, come abbiamo visto, il dottore aveva abboccato.

Da Roncovecchio a Cerri ci voleva circa un’ora. E dopo due ore, Angiò era di ritorno col dottore: questi curvo sulla sua bestia arruffata, quegli dietro che scoppiava dalla voglia di ridere.

Giunti alla casa di Pinon, che era l’ultima del villaggio, il dottore scese da cavallo e, accompagnato dai compari, che gli erano venuti incontro con aria compunta, entrò nella casa del malato, quando già cominciava a far sera.

— Cosa c’è di nuovo, Pinon? – disse il dottore con tono rude, appena entrato nella stanza, dove la moglie del malato s’affrettò ad accendere una lucernina ad olio.

A stag ma’, siur dutture – si lamentò il malato.

— E da quando? – domandò il dottore, ripetendo la domanda che già aveva fatto al figlio.

— Da questa mattina, signor dottore. O meglio, questa mattina, mi pareva di star bene. Ma mio figlio Tognoncè, appena entrato nella camera, s’è accorto che avevo una brutta cera e ha voluto che si venisse a chiamare lei. Me ne rincresce, signor dottore, perchè oggi lei è «di nozze». Ma ora che è venuto, comincio a sentirmi più tranquillo.

Il dottore cominciò il suo interrogatorio; e, mentre interrogava il malato, teneva d’occhio i compari, che stavano, in silenzio, intorno al letto, nella penombra della stanza, male rischiarata nella luce fumosa della lucerna, e si scambiavano occhiate d’intelligenza e facevano sforzi per mantenersi composti. Il dottore se ne accorse e l’ombra di un sospetto gli attraversò, d’un tratto, il cervello. Si curvò sul malato, lo esaminò, lo compulsò, e il sospetto si fece certezza.

Quei furfanti lo avevano burlato! Non disse nulla, ma pensò di beffarsi, a sua volta, di loro, conducendo a fondo il gioco, per suo conto.

— Avete ragione, Pinon – disse il dottore, facendosi scuro in viso – State molto male!

Il disgraziato Pinon, che aveva ripreso fiato alla venuta del dottore, si abbandonò sui cuscini, come colpito da una sentenza inesorabile. Tornò a respirare affannosamente, fissando gli occhi smarriti ora sul dottore, ora sui figli, ora sugli altri presenti, come un naufrago che sta per affogare. Accanto al capezzale, la moglie si coprì la faccia con le mani; e rimase senza parola. A quel colpo di scena, anche i figli di Pinon cominciarono a sentirsi turbati, impressionati dalla piega che prendeva la faccenda.

Solo il dottore, più che mai di cattivo umore per il brutto tiro che gli avevano giocato, si manteneva duro e impassibile: ma, in cuor suo, era soddisfatto per aver trovato il modo di rendere la pariglia a quei gaglioffi.

— Sì, va molto male! – ripetè appena fu uscito dalla stanza del malato, avviandosi verso la cucina, dove era acceso il fuoco – Non c’è che un mezzo per salvarlo. Ma bisogna andare subito a Pontelungo, dal farmacista Giulebboni, a prendere la medicina che ora vi scriverò; e se arrivate in tempo a farla prendere a vostro padre, può darsi che, per questa volta, ci rimetta una pezza!

Bisogna notare che a Cerri non esisteva farmacia e che, quando occorreva una medicina, quei montanari dovevano scendere fino a Pontelungo, distante da Cerri non meno di quattro ore di cammino a piedi. Un bel viaggio, come si vede!

Il dottore si accostò al fuoco, si dette una scaldatina alle mani; poi si sedette ad un vecchio tavolo sgangherato, estrasse dalla tasca un foglio di carta e sotto gli occhi spalancati degli astanti, vi scrisse con la matita queste misteriose parole: Recipe H2O di secchiello gr. 300. Prepara secondo arte. Un cucchiaio ogni quarto d’ora. E, sotto, il ghirigoro della sua firma. Sul retro del foglio aggiunse: Urgente! Al farmacista Giulebboni, Pontelungo.

«H2O»: per fortuna, la formula chimica dell’acqua era una delle parole che si ricordava il dottore! Scritta la ricetta, la pose a Tognoncè, si alzò e, con voce solenne, gli raccomandò:

— Dovete andare dal farmacista Giulebboni; lui solo conosce questa medicina. Bisogna darne a vostro padre un cucchiaio ogni quarto d’ora. Se arriverete a tempo, dopo pochi cucchiai, sarà fuori pericolo!

Poi rivolgendosi ai due fratelli, ormai allocchiti dalla sorpresa e dallo spavento e, un po’, anche dal rimorso, e, guardando il più giovane con una punta di malignità:

— Dovete andare tutti e due – disse – Uno solo non è prudenza, con questa sera d’inverno: potrebbe capitargli un incidente ed ogni ritardo sarebbe fatale. Invece, in due, se uno non arriva, arriva l’altro; e vostro padre si salva! Ma bisogna partire subito: non c’è tempo da perdere! Intanto, fino a Cerri, faremo la strada insieme.

Uscì che già annottava: nel cielo si accendevano le prime stelle.

Rimontò a cavallo e riprese la via di Cerri, preceduto da Tognoncè che teneva in mano una lanterna per rischiarare la via, e seguito da Angiò: entrambi presi ormai da un superstizioso terrore per tutto quello che stava accadendo.

E questa volta, a ridere sotto i baffi, era il dottore.

Giunti, che era già notte alta, alla casa del dottore, questi si accomiatò dai due accompagnatori, con l’ultima raccomandazione di far presto. E, mentre i due filavano via di buona gamba, al fioco lume della lanterna, presto inghiottiti dall’oscurità, egli se ne tornò tranquillamente, e senza far motto della beffa, a riprendere il suo posto tra i commensali; chè il pantagruelico banchetto continuava più allegro che mai ed era ormai, davvero, sul più bello.

Dopo più di quattro ore di cammino nella notte buia e fredda di febbraio, i due allocchi raggiunsero Pontelungo, quando era suonata già da un po’ la mezzanotte. Andarono a picchiare alla porta del farmacista Giulebboni, che era anche lui di Cerri e che, per quanto trapiantato a Pontelungo da parecchi anni, conosceva vita e miracoli dei suoi vecchi compaesani.

Dopo qualche minuto d’attesa, s’aprì a mezzo una finestra e Giulebboni, ancora assonnato, gridò dall’alto:

— Chi è?

— Siamo noi.

— Chi noi?

— Siamo di Cerri. Sa, i figli Pinon di Roncovecchio.

— Ah! E che cosa avete a quest’ora?

— Ci ha mandati il dottore. Nostro padre sta male!

La finestra si richiuse e, poco dopo, s’aprì la porta della farmacia: quanto bastava per lasciar entrare i due fratelli. Entrati che furono, Giulebboni li interrogò.

— Che cos’è, adunque, successo?

— È successo – rispose Tognoncè, guardandosi bene dal raccontare la verità – che, ieri sera, mio fratello andò a Cerri a chiamare il dottore, perchè nostro padre stava male. Il dottore era “di nozze” e non voleva venire; ma Angiò ha insistito e allora è venuto. Ha trovato che nostro padre stava proprio male e, allora, ci ha subito mandati da lei a prendere la medicina.

Giulebboni sbirciava i due al disopra degli occhiali, come se non vedesse chiaro in tutta quella faccenda. Conosceva bene i suoi polli di lassù; e, da quando poteva ricordare, era la prima volta che il dottore gli spediva dei clienti a quell’ora e con tanta premura!

— Date qui! – disse allungando la mano, mentre Tognoncè gli consegnava la ricetta. Giulebboni la lesse e tornò a guardare i due. Capì a volo che c’era sotto qualche grossa diavoleria, combinata da quel tipo del dottore; e, senz’altro decise di tenergli bordone.

— Avete fatto bene a venire subito! A giudicare dalla medicina, che ha ordinato il dottore, vostro padre deve stare molto male!

Si ritirò nel retro bottega, scelse una bottiglia adatta, la riempì d’acqua, vi aggiunse qualche goccia di sostanza colorante e qualche altra di essenza aromatica; tornò in farmacia, incollò sulla bottiglia un cartellino con su scritta la magica formula – H2O di secchiello ecc. – la agitò ben bene sotto il naso dei due fratelli, più stupefatti che mai, la incartò con cura e, con gesto misterioso, la consegnò a Tognoncè, dicendo:

— Bisogna darla a cucchiai: uno ogni quarto d’ora! Ma prima di usarla, dovete agitarla bene, come ho fatto, ora, io.

E aggiunse:

— La segnerò nel vostro conto.

I due ringraziarono, salutarono e fecero per uscire. Ma Giulebboni li richiamò indietro:

— Scusate se entro nei vostri interessi: ma sono amico della vostra famiglia. Vostro padre ha fatto testamento?

I due si guardarono in faccia e dissero di no. Allora Giulebboni abbassò la voce, come per dare un tono più solenne alle sue parole e aggiunse:

— Allora, date retta a me: ci vuole anche il notaio. Andate dal notaio Garbuglia, che sta qui vicino e che è il notaio di tutti quelli di Cerri. Svegliatelo e portatelo subito da vostro padre, senza perdere un’ora. Avete capito? Domani, forse, sarebbe troppo tardi!

I due rimasero a bocca aperta: ma poichè si trattava di cosa che era nel loro interesse, accettarono, senza fiatare, il consiglio, decisi a rompere il sonno anche al notaio.

— Non tutti e due! – precisò Giulebboni. – Tu – disse a Tognoncè, che aveva ritirata la bottiglia – devi partire subito con la medicina, perchè non c’è un momento da perdere. E tu – disse ad Angiò – va a svegliare il notaio; e non muoverti di là, fino a che non s’è deciso a venire. Ricordati che ha il sonno duro!

E, con quest’ultima raccomandazione, Giulebboni li accompagnò alla porta, sprangò questa dal di dentro, mandandoli al diavolo; dopo di che, contento di essersi vendicato, a sua volta, dei due importuni, tornò a cacciarsi sotto le coltri, spense il lume e si addormentò nel suo più placido sonno farmaceutico.

Mentre Giulebboni dormiva ancora della grossa a Pontelungo, il dottore di Cerri, fin dall’alba, era in piedi, curioso di raccogliere notizie sull’avventura del giorno precedente. Così, appena uscito di casa, s’imbattè nella Catinela, la serva dell’arciprete, che, a sua volta e senza averne l’aria, veniva in cerca di lui per informarsi della malattia di Pinon da Roncovecchio.

Bon dì, siur dutture! – fece la donna, appena lo vide.

— Buon giorno, Catinela! – rispose il dottore, avvicinandosi alla donna, non meno curiosa di lui e che, in fatto di pettegolezzi, poteva dare dei punti a lui e a tutti.

— E dunque – riprese colei, con aria sorniona – che cosa è capitato a Pinon da Roncovecchio? Si figuri che, sarà appena mezz’ora, mentre uscivo dalla canonica, insieme con il signor arciprete, per andare in chiesa, è passato Angiò, il figlio di Pinon, che tornava da Pontelungo col notaio, per fare il testamento! Allora il signor arciprete, quando ha sentito che Pinon stava così male, ha voluto andare anche lui a Roncovecchio per raccomandargli l’anima, perchè adesso, lassù, non ci sono preti e ci va l’arciprete…

Questa volta fu il dottore ad impensierirsi. Quella complicazione del notaio e dell’arciprete, fu un colpo per lui! E se l’apparizione di quei due personaggi, che non poteva essere di buon augurio, avesse dato il colpo di grazia a Pinon? Dopo tutto anche lui, il dottore, ci aveva la sua parte in quella faccenda; e poteva nascerne qualche grosso guaio.

Non che, a dire la verità, gli importasse molto di Pinon. Morto meno, morto più, fosse anche Pinon, non era questo che turbava il dottore: ai morti ormai ci aveva fatto il callo! Ma guai, per sè, proprio non ne desiderava. Bisognava, adunque, raggiungere l’arciprete e il notaio prima che arrivassero da Pinon; e se, al punto in cui era giunta tutta quella montatura, non era possibile evitare l’incontro, bisognava almeno condurre le cose in modo che l’avventura non portasse a una catastrofe, con tutte le conseguenze che potevano nascere.

Presa questa decisione, il dottore piantò in asso la donna, che cercava di saperne di più, risalì in casa per avvertire che doveva tornare subito a Roncovecchio e poichè, data la gelata che aveva fatto nella notte, non era prudente avventurarsi a cavallo per le mulattiere della montagna, s’avviò a piedi sui passi della comitiva, che lo precedeva, e che si proponeva di raggiungere ad ogni costo. Ma quei diavoli dovevano avere le ali ai piedi, perchè il dottore, per quanto allungasse il passo, non riuscì neppure ad avvistarli. Anzi, quando, soffiando come un mantice, arrivò alla casa di Pinon, l’arciprete e il notaio si trovavano già presso il malato.

— E adesso chi sa che cosa succede! – pensò tra sè. E, a sua volta, salì le scale ed entrò nella stanza.

È facile immaginare la sorpresa di Pinon, quando vide entrare l’arciprete e il notaio. Ma, per fortuna, li aveva preceduti, di quasi due ore, Tognoncè con la medicina miracolosa; e tanta era la fiducia di Pinon che, appena ne ebbe ingollato un cucchiaio, si era subito sentito un altro. E poichè, in quelle due ore, i cucchiai erano stati parecchi, così l’apparizione dei due inattesi visitatori, passata la prima sorpresa, non lo spaventò; tanto che, quando, poco dopo, ormai sfiatato dalla corsa, entrò anche il dottore, Pinon, in uno slancio di riconoscenza lo salutò.

Bon dì, siur dutture! S’a n’èra la medscina, da st’ura èra morto.

Il dottore si rasserenò; e si sentì sollevato da peso.

— Ve lo dicevo io! – si limitò a rispondere il dottore senza tradirsi. E, impadronendosi della bottiglia, che faceva bella mostra di sè accanto al letto, perchè l’arciprete ed il notaio non fossero tentati a leggere il cartellino rivelatore, s’avvicinò a Pinon con ipocrita premura:

— Ancora un cucchiaio e poi basta; perchè ormai siete guarito – e, così dicendo, colmò egli stesso il cucchiaio, lo accostò alle labbra del villano e lo versò nella sua bocca spalancata, con una grazia di suora di carità, facendo poi, con disinvoltura, scomparire dalla vista la bottiglia, perchè la pericolosa scritta del cartellino non cadesse sotto gli sguardi indiscreti dell’arciprete e del notaio.

Pinon ringraziò, con effusione, il dottore e disse che, ormai, stava bene e che, anzi voleva alzarsi da letto. Il notaio e l’arciprete si scambiarono occhiate di sorpresa e guardarono, poi, il dottore, come per domandargli che mistero era quello. E il dottore, visto che oramai bisognava tagliare corto alla commedia, per evitare altre complicazioni, da quel vecchio volpone, che, qualche volta, sapeva essere, trovò subito il modo per sciogliere, per il momento, l’ingarbugliata matassa. S’avvicinò a Pinon e, battendogli amichevolmente sulla spalla, gli disse:

— Caro Pinon, visto che oramai state bene, l’arciprete ed io ci siamo di troppo e vi salutiamo. Quanto al notaio, ormai che è venuto fin quassù, non vi resta che prendere questa occasione per fare le cose vostre per bene, da quel buon padre di famiglia che siete, e per giunta in buona salute. Tanto, o prima o dopo, anche a questo bisogna pur pensarci, quando, come voi, si ha la fortuna di avere qualche cosa al sole. E prima si fa e meglio è; e non ci si pensa più. Non è vero arciprete?

— Il dottore ha ragione – approvò l’arciprete, visto che per lui non c’era più nulla da fare. – Pinon arrivederci e… campate cent’anni!

Pinon, e più i figlioli, con l’idea dell’eredità, furono dello stesso parere. E così, mentre il dottore e l’arciprete se ne andavano, con i ringraziamenti di Pinon, il notaio, invitati anche gli altri a uscire, tirò fuori carta, penna e calamaio e si accinse a scrivere il testamento di quel babbeo, più convinto che mai di essere stato salvato dalla medicina miracolosa del dottore.

Che cosa contenesse precisamente il testamento non si seppe per allora, perchè Pinon volle che restasse segreto. Ma, quando, pochi mesi dopo, Pinon passò, davvero, a miglior vita, non per l’asma, ma per una scorpacciata di funghi – per la quale, questa volta, non valsero le medicine del dottore – e si conobbero finalmente le ultime volontà del defunto, i due figli rimasero con un palmo di naso, dopo che appresero che vi era anche un legato di cinquecento lire per il dottore, per aver salvata la vita del padre con quella medicina prodigiosa!

E quando, a poco a poco, sia da qualche confidenza del dottore – ormai che l’altro era morto poteva parlare – sia da qualche sfogo dei figli di Pinon, si venne a conoscere come erano andate le cose, è facile immaginare le risate di quei montanari alle spalle dei due pifferi, che erano andati per suonare ed erano rimasti, invece, suonati.

E chi ci guadagnò, quella volta, fu il dottore e non solo per il legato di Pinon, ma per la reputazione che si acquistò, se non proprio per la sua sapienza medica, per la sua abilità di uomo furbo, al quale era difficile farla, senza averne la peggio.

Di quell’avventura si parlò, in lungo e in largo, per vario tempo, a Cerri. Ed anche ora – e ne sono passati di anni! – e dopo che, uno alla volta, se ne sono andati tutti i protagonisti, se ne parla ancora lassù, nelle lunghe serate d’inverno, accanto alla fiammata, mentre, fuori, passa urlando la tramontana, risvegliando, di valle in valle, gli echi lamentosi della montagna.

Vecchie storie del tempo che fu!

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il medico di Cerri
AUTORE: P. Da Pontelungo (Ferrari, Pietro)

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle di Valdimagra / P. da Pontelungo. - Pontremoli : Artigianelli, 1944. - 226 p. ; 23 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)