‘Infinite jest’, il capolavoro di David Foster Wallace

Wallace ambienta il suo capolavoro in un futuro non troppo lontano e che somiglia in modo preoccupante al nostro presente

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Wallace

Infinite jest è un lunghissimo e impegnativo romanzo del 1996 di oltre 1000 pagine, il capolavoro che ha consacrato lo scrittore americano David Foster Wallace (La scopa del sistema, Il re pallido, La ragazza con i capelli strani, Brevi interviste con uomini schifosi, Oblio, Questa è l’acqua) nel panorama della letteratura postmoderna. Il romanzo è una sfida con se stessi, un libro che incuriosisce il lettore, il quale, alla prese con personaggi invischiati in storie complicate, pensa che alla fine gli sarà tutto finalmente chiarito, aspettativa disattesa, perché in Infinite jest di chiaro c’è ben poco. Un vortice di idee, suggestioni, nozioni, che agiscono sulla complessa realtà che il grande scrittore descrive tra le numerose pagine e viene da chiedersi se Wallace davvero abbia voluto mettere alla prova il lettore, obbligandolo ad una attenzione massima e ad erudirsi, oppure abbia solo voluto scherzare con lui, lasciandogli una strana sensazione a fine lettura (se ci si riesce).

Infinite jest è una magistrale rappresentazione dei nostri tempi, un romanzo-mondo realistico (anche se non è opportuno ricondurre tale opera ad un’idea stilizzata di realismo, conforme ai precetti teorici di Luckàs o Auerbach, escludendo i capitoli intitolati Cage I, Cage II, Cage III) tragicomico, fantascientifico, satirico, dove il geniale autore non sembra trovarsi a proprio agio ma di cui illumina acutamente i problemi, andando a fondo per tentare di offrire delle soluzioni in primis a se stesso, perché per David Foster Wallace la scrittura è uno strumento di redenzione non di competizione per sfoggiare la propria intelligenza.

Sfruttando appieno le proprie abilità linguistiche e visionarie, Wallace parla di tutto quello che è dentro di noi, regalandoci cultura e se stesso, i suoi dubbi e i suoi desideri che sono anche i nostri. E soprattutto senza risultare autoreferenziale. Infinite jest è un’esperienza di vita che cambia il nostro approccio alla lettura; è un testo di studio con decine di pagine di difficilissima interpretazione con annesse delle note che riguardano diversi campi di indagine: la sociologia, la psicologia, la filosofia, la scrittura, il cibo, il pensiero paranoico, mappe del futuro, la cultura stessa, pensieri vari, la cospirazione, la critica cinematografica, la bibliofilia, la medicina, perfino il gioco del tennis e del football. Ma, superata la metà del libro, Wallace rimette insieme tutte le storie con i suoi personaggi (anche le note) per dare inizio ad una palpitante ed emozionante corsa verso l’epilogo.

Infinite jest: trama, stile e contenuti

In un futuro non troppo lontano e che somiglia in modo preoccupante al nostro presente, dove la merce, lo spettacolo, l’intrattenimento e la pubblicità hanno ormai occupato ogni spazio della vita quotidiana. Il Canada e gli Stati Uniti sono una sola supernazione chiamata “ONAN”, il Quebec insegue l’indipendenza attraverso il terrorismo, ci si droga per non morire, di noia e disperazione. E poi c’è un film perduto e misterioso, che porta il titolo di Infinite jest, dello scomparso regista James Incandenza, che potrebbe diventare un’arma di distruzione di massa.

La trama del romanzo di Wallace è appena sfiorata, immersa in centinaia di pagine che trattano altri argomenti arricchiti da dettagli e particolari attraverso i quali l’autore risale all’universale raggiungendo il centro del mondo: il male e la fatica di vivere che urlano alla preconfezionata, materialista e magmatica società contemporanea che però non è in grado di rispondere.

L’essere umano, posto in uno scenario desolante, è azzerato, non è altro che un consumatore, un inseguitore di un piacere velleitario che lo conduce alla solitudine e alla fuga dalla realtà, davanti ad un televisore. Ma come si può ripulire questo mondo quando la competitività tra gli uomini ha raggiunto vette estreme? Si chiede Wallace, senza cadere nella troppo scontata, semplicistica e stucchevole polemica anticapitalista: egli ci mostra tragicamente la lotta tra il piacere effimero che la società ci impone di provare e quello duratore e “strano” che prova uno dei protagonisti. In una girandola di distorsioni e falsificazioni, ostici flussi di coscienza, uso di frequenti analessi e prolessi, aneddoti intrisi di ironia e malinconia, l’autore di New York ci dice come quello che c’è dentro di noi e quello che c’è al di fuori di noi, sono in realtà la stessa cosa:

<<Una volta Povero Tony aveva avuto l’hubris di pensare di aver già avuto sul serio il tremito, in passato. E invece non aveva mai davvero tramato fino a quando le cadenze del tempo, taglienti e fredde e stranamente odorose di deodorante, non avevano cominciato a entrargli nel corpo da diversi orifizi, fredde come solo il freddo umido sa essere-la frase di cui pensava di conoscere il significato era freddo fin dentro le ossa-colonne di freddo rivestite di schegge gli entravano in corpo e gli riempivano le ossa di polvere di vetro e sentiva le giunture scricchiolare come vetro frantumato ogni volta che si muoveva dalla sua posizione rannicchiata, il tempo era nell’ambiente e nell’aria ed entrava e usciva da lui quando voleva, gelido; e il dolore del fiato contro i denti>>.

Celebrato e snobbato nella stessa misura, Infinite jest già al suo apparire nel 1996 palesava il desiderio di rendere il lettore “meno solo, intellettualmente, emozionalmente, spiritualmente in un profondo contatto con qualcun altro”, come ammise lo stesso Wallace. Tra gli scrittori contemporanei, Wallace, morto suicida nel 2008, è stato probabilmente quello che ha saputo emergere con la sua opera dal caos del panorama editoriale, cercando di evitare sempre i riflettori mediatici, sulle orme di Salinger o dello scomodo Pynchon, di cui è considerato da molti suo erede, oltre che di DeLillo e Gaddis.

In Infinite jest sono annidati i tratti principali di quel genere di romanzo definito “globale”,  “postmoderno”, “massimalista”, ma risulterebbe fuorviante ragionare a fondo su tali definizioni, mentre ci è più utile riportare le parole di Wallace stesso a proposito delle sue intenzioni durante un’intervista:

“Volevo fare qualcosa di triste. Avevo già scritto cose intellettuali e difficili, ma mai qualcosa di triste. E non volevo avere un solo personaggio principale. L’altra banalità poi sarebbe: volevo fare qualcosa di veramente americano, a proposito di cosa voglia dire vivere in America all’approssimarsi del millennio”.

Considerazioni per nulla banali in realtà: la scelta di scrivere un romanzo rinunciando ad un personaggio centrale favorisce una narrazione che si articola in senso polifonico, cosí come la decisione di scrivere un romanzo veramente americano risponde all’esigenza di rappresentare una realtà contraddittoria e influente sulle altre realtà, soprattutto europee, esplicitando un intento critico nei confronti del tessuto sociale americano, come ha fatto anche, qualche anno dopo e a suo modo, Don DeLillo con il suo Underworld.

Wallace parla di una tristezza tipicamente americana, che ha vissuto lui in prima persona:

“Ero bianco, benestante, colto da far schifo, e avevo più successo di quanto potessi sperare. Eppure ero allo sbando. Un sacco di miei amici si trovavano nelle stesse condizioni. Alcuni facevano uso massiccio di droghe, altri vivevano soltanto per il lavoro. Certi passavano tutte le sere nei bar per uomini soli. Una realtà che ti si parava davanti in venti modi diversi, ma che era sempre la stessa”.

Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale, ripensando il concetto stesso di romanzo e presentandolo con una vera e propria enciclopedia dei nostri tempi: questo potrebbe essere in sintesi Infinite jest. Per chi, durante la lettura, si è fermato prima, annoiandosi, e per chi lo ha detestato, probabilmente e purtroppo Infinite jest è solo un libro dove un autore depresso fa sfoggio della propria cultura e intelligenza.